Questa recensione alla mostra di De Chirico a Palazzo Reale, è uscita su Alias domenica 6 ottobre. Bellissimo il titolo: «Entrate, giovani, in questa capsula del Tempo»
Quando 50 anni fa Giorgio De Chirico si presentò a Palazzo Reale di Milano per la sua prima vera, tardiva retrospettiva italiana, la immaginò come un «percorso senza inizio e senza fine» (parole sue). Oggi De Chirico torna nelle stesse sale e ancora una volta sfodera la sua formidabile abilità nel rimescolare le carte del tempo (“De Chirico”, fino al 18 gennaio; di grande qualità il catalogo Marsilio/Electa). Questa volta l’azzardo è addirittura al quadrato, perché come scrive nella nota introduttiva il curatore Massimo Barbero, l’obiettivo è quello di proporre la pittura di De Chirico allo sguardo delle nuove generazioni. Sfida che potrebbe sembrare proibitiva per un campione dell’antimodernismo che ha giocato sempre a sottrarsi al presente, trovando rifugio nella reinvenzione di mondi antichi e lontani. Che nesso si può stabilire tra un simile immaginario e quello di una generazione per la quale il passato è poco più che una confusa nebulosa? Certamente il semplice aver ipotizzato di porre una simile questione testimonia della natura fluida, anticonformistica e libera di un artista come De Chirico.
La risposta a quella domanda va naturalmente cercata nel percorso di questa mostra che avanza seguendo la cronologia dechirichiana, ma organizzandola per nodi, quasi per “plot” che hanno una loro autonomia stilistica, narrativa e contenutistica: ad ogni tappa agli occhi del visitatore si accendono suggestioni tali da creare attese di infiniti sviluppi. Naturalmente ognuno di questi “plot”, nella parabola di De Chirico e nel percorso della mostra, è intenzionalmente sconnesso da ciò che precede o da ciò che segue. Basta guardare il magnifico avvio, dove la narrazione della propria mitologia familiare, con l’addio alla Grecia, è reso con una pittura quasi neo romantica e poi lascia il posto al raggelamento stilistico dei primi autoritratti, stilisticamente sigillati nel geniale artificio dell’enigma.
La mostra si dispone come un viaggio in una capsula del tempo, grazie all’allestimento firmato da Giovanni Filindeu, con pareti tutte platealmente bianche e con inserzioni di volumi che creano sottili effetti di spaesamento, oppure disegnano spazi imprevisti nelle sale di Palazzo Reale. Così si avanza quasi soggiogati dai continui depistaggi a cui la pittura di De Chirico sottopone i nostri sguardi, depistaggi alimentati anche dalla sequenza inesauribile di quei “picchi di incoerenza visiva” di cui scrive Massimo Barbero.
È anche una mostra intelligentemente sobria, pensata per un pubblico che va conquistato senza il rischio che resti schiacciato dall’esorbitanza della produzione dechirichiana: 92 opere, tutte di grande qualità (anche laddove sfondano determinatamente nel kitsch), e tutte cercate come anelli necessari alla costruzione del percorso. Molte provengono dal collezionismo privato, particolare che potrebbe gettare un’ombra sulla mostra. Ma alla fine questa scelta, grazie alla presenza di opere importanti e raramente esposte, si rivela funzionale al proposito di cancellare il preconcetto che De Chirico sia comunque sempre un “già visto”.
L’intento si è rivelato vincente: nella sala dedicata alla “metafisica ritornante” il meraviglioso “Figliol prodigo” (1922) del Museo del Novecento, che faceva da copertina del catalogo della mostra del 1970 (che era stata curata da Franco Russoli), fa coppia con un altro capolavoro, l’“Ettore e Andromaca” (1923) proveniente da collezione privata. Sono due narrazioni di abbracci, dove l’umano pur racchiuso dentro il guscio dei manichini o di simulacri di marmo, fa breccia dando luogo ad un’incontenibile senso di tenerezza. È un momento in cui il “plot” dechirichiano mette in campo una riflessione sul tema della malinconia, facendo ricorso a soluzioni emotivamente pesanti: la sala infatti si chiude con un’altra opera maggiore, “L’archeologo” del 1927 proveniente da una collezione privata di Monaco. Il gigante esausto, in abiti antichi, se ne sta sdraiato con le gambe rattrappite a causa dell’ostinazione nell’attività di scavo; la testa grande è svuotata da ogni connotato, il grembo è ingravidato di rovine che sono la caricatura di se stesse, quasi un ammasso di giocattoli. L’inseguimento del sogno ha generato uno sfinimento e solo la pittura è in grado di rendergli onore.
La relazione di De Chirico con il passato è ironica, a volte anche spregiudicatamente ironica. Per esempio, il povero “Pericle” (1925) ha perso ogni patina eroica: ha un elmo ficcato in testa fino a mezzo naso per nascondere il fatto di essere guercio. Con una mano si getta la clamide sulla spalla e così scopre quel dettaglio vagamente ingiurioso della sottoveste con una fantasia variopinta che Giorgio De Chirico gli fa indossare: un Pericle “en travesti”… Ai gladiatori, tema della celebre commissione di Léonce Rosenberg per la sua sala di pranzo parigina nel 1928, non va molto meglio. Sembrano soldatini fusi in gomma, goffi e dalla fibra molle: Massimo Barbero non a caso coglie una possibile fonte d’ispirazione nel ritratto che Renoir (amatissimo da De Chirico) aveva fatto al figlio Claude intento a giocare ai soldatini. In mostra il ciclo, andato presto disperso, è rappresentato in particolare dal grande fregio conservato a Brera. È un’opera che mostra tante affinità con i rocamboleschi kolossal hollywoodiani stile Ben Hur: davvero nulla di più lontano da quella retorica reazionaria che cercava di riproporre il modello di una nuova romanità.
De Chirico è sempre altrove rispetto a dove gli altri pensano che lui sia. Così la sequenza straordinaria di autoritratti che costellano il percorso, sembrano ogni volta proporsi come operazioni di dissimulazione. Del resto è tale il livello di considerazione di se stesso e di autocoscienza da permettergli di giocare con tutti i registri, anche con la chiave del comico, come scrive Andrea Cortellessa, nel saggio in catalogo. Nella sezione di quadri “privati” degli anni ’30 e ’40 De Chirico si mostra in pantofole (“Autoritratto nello studio di Parigi”, 1934), con i pantaloni larghi e rilasciati, il maglione sgualcito; una testa antica abbandonata sul pavimento lo guarda con aria un po’ dimessa. Nella parete vicina invece ci compare nudo (1943), con sguardo un po’ beffardo, senza timore di scoprire il proprio corpo inflaccidito.
Ma più De Chirico sembra sottrarsi da un rapporto con la modernità (dove domina quella che lui bolla come «l’arte dei raffinati cretini»), più cresce il sospetto che proprio questa sia la questione cruciale che lui ci vuole tenere nascosta. La parete conclusiva con tre repliche delle Muse inquietanti allineate, realizzate tra anni 40 e 50, lette come operazioni sfacciatamente anacronistiche («Una mia idea è una mia idea, l’anno in cui la rieseguo non importa», lui ribatteva ai suoi critici), sono spia di ben altro. Alla mostra del 1982 a New York in una doppia pagina del catalogo ne erano state messe in fila ben 18 a dimostrazione che De Chirico aveva anticipato la serialità. Ne era stato ben consapevole Andy Warhol: una foto scattata da Giancarlo Gorgoni nel 1974 a New York li sorprende insieme ad un party, a brindare bicchieri alla mano, per documentare una condivisa complicità.
A questo proposito aveva colto nel vero Giovanni Testori concludendo così un suo lungo e spericolato articolo sul Corriere della Sera in occasione dei 10 anni dalla morte dell’artista, nel luglio 1988: «Il vero, completo saggio su De Chirico, a volerlo scrivere, risulterebbe il saggio sull’equivoco stesso tra idea proclamata e idea realizzata che ha retto il cammino ufficiale dell’arte moderna; quell’arte che De Chirico ha sempre affermato di rifiutare con tante più buone ragioni, quanto più, dentro di sé, sentiva d’esserne un perno».