Robe da chiodi

Berger, come si guarda una foto di Kertész

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Esce questa settimana il nuovo volume della collana “Riga” (pp. 350, € 25) dedicato a John Berger, contiene saggi e testi inediti di Berger, oltre a conversazioni, dialoghi, commenti dello scrittore inglese ed è curato da Maria Nadotti. Di John Berger mi ha spesso affascinato la capacità di leggere le immagini, intersecando sguardi da storico, da critico, da antropologo e da uomo curioso. Ad esempio nel fascicolo di Riga viene pubblicata questa “esplorazione” di una foto di André Kertész. È una foto del 1919, scattata a Budapest. Le parole di Berger entrano nell’immagine senza mai sopraffarla, con giudizi di valofre. Che Kertész sia un grande lo sappiamo. Ma da Berger si impara ad avere la pazienza di entrare negli ingranaggi di quella grandezza (solo Luca Doninelli potrebbe leggere una foto in questo modo).

Kertész, Partenza di un ussaro rosso, giugno 1919, Budapest

di John Berger
Una madre con il suo bambino guarda fissamente un soldato. Forse stanno parlando. Non possiamo sentire le loro parole. Forse non si dicono nulla, e tutto è già stato detto dal modo in cui si guardano. Ma è certo che stanno vivendo un dramma.
La didascalia dice: “Partenza di un ussaro rosso, giugno 1919, Budapest”. La fotografia è di André Kertész.
Dunque, la donna è appena uscita da casa con lui e tra breve vi farà ritorno da sola con il bambino. Il dramma del momento è espresso dalla differenza degli abiti che indossano. Quelli di lui da viaggio, per dormire all’aperto, per combattere; quelli di lei per stare a casa.
La didascalia suggerisce anche altre riflessioni. La monarchia asburgica è caduta nell’autunno precedente. L’inverno è stato segnato da tremende privazioni (soprattutto di combustibile, a Budapest) e dalla disintegrazione economica. Due mesi prima, in marzo, era stata proclamata la socialista Repubblica dei Consigli. A Parigi, gli alleati occidentali, temendo che l’esempio rivoluzionario dei russi e ora degli ungheresi si diffondesse nell’Europa orientale e nei Balcani, stavano decidendo il modo di mettere fine alla nuova repubblica. Era già stato posto l’assedio. Lo stesso generale Foch stava programmando l’invasione militare che avrebbero dovuto effettuare truppe rumene e ceche. L’otto giugno Clemenceau telegrafava un ultimatum a Béla Kun chiedendo il ritiro militare ungherese che avrebbe permesso ai rumeni di occupare un terzo del suo paese. L’Armata Rossa ungherese combatté altre sei settimane, ma alla fine venne sopraffatta. In agosto, Budapest era occupata e pochissimo tempo dopo venne stabilito il primo regime fascista europeo sotto Horthy.
Se osserviamo un’immagine del passato e vogliamo metterla in relazione con noi, abbiamo bisogno di conoscere qualcosa della storia di quel passato. Quindi il discorso precedente – e molte altre cose che si sarebbero potute dire – diventa rilevante alla lettura della fotografia di Kertész. Ed è presumibilmente questa la ragione per cui il fotografo ha assegnato all’immagine quella didascalia e non una generica come “Separazione”. Eppure la fotografia – o piuttosto il modo in cui essa chiede di essere letta – non può essere limitata alla sua dimensione storica.
Tutto in essa è storico: le uniformi, le carabine, l’angolo della stazione di Budapest, l’identità e le biografie di tutte le persone che sono (o erano) riconoscibili; anche la dimensione degli alberi al di là dello steccato. Eppure c’è anche qualcosa che fa resistenza alla storia: c’è un’opposizione.
Questa opposizione non è la conseguenza del fatto che il fotografo abbia detto “Stop!”. L’immagine statica che ne risulta non è come un palo piantato in un fiume che scorre. Sappiamo che tra un momento il soldato volterà le spalle e partirà; presumiamo che sia il padre del bambino che la donna porta in braccio. Il senso dell’istante fotografato sta già affermando l’esistenza di minuti, settimane, anni.
L’opposizione esiste nello sguardo d’addio tra l’uomo e la donna. Lo sguardo non è diretto verso l’osservatore. Noi assistiamo alla scena come il soldato anziano con i baffi e la donna con lo scialle (forse una sorella). L’esclusività di quello sguardo è sottolineato ulteriormente dalla presenza del bambino tra le braccia della madre: il bimbo sta guardando il padre, eppure è escluso dallo sguardo che marito e moglie si scambiano.
Quello sguardo, che si incrocia davanti a noi, afferma quello che c’è; non afferma tanto ciò che si trova intorno a loro fuori della stazione, ma quello che è la loro vita, quello che sono le loro vite. La donna e il soldato si guardano e così l’immagine di ciò che è sopravviverà. In quello sguardo il loro essere si oppone alla loro storia, anche se pensiamo che quella storia sia da loro accettata o scelta.

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Gennaio 23rd, 2012 at 10:15 pm

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Ancora Antonello. Ma questa volta parliamo di Maria

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L'Annunciata di Antonello. Il volto di Eustochia Calafato?

«Il giuoco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di co­noscenza. A chi somiglia il bambino appena nato? A chi il socio, il vicino di casa, il compagno di viag­gio? A chi la Madonna che è sull’altare, il Pantocrator di Monreale, il mostro di villa Palogonia? Non c’è ordine senza le somiglianze, non c’è conoscenza, non c’è giudizio. I ritratti di Antonello ‘somigliano’; sono l’idea stessa, l’archè, della somiglianza». Lo scriveva Leonardo Sciasca nella stupenda introduzione al volume dedicato ad Antonello, per i Classici dell’arte di Rizzoli (1967). L’intuizione di Sciascia si dimostra assolutamente esatta, anche rispetto ad uno dei capolavori di Antonello, certamente quello suo più popolare: l’Annunciata nelle due versioni di Palermo e di Monaco. Sabato 21 a Roma si tiene un convegno in cui si fa il punto sull’identificazione del volto della Madonna con quello di Eustochia Smeralda Calafato la monaca clarissa che è stata beatificata in tempi vicini da papa Wojtyla. Ne ha scritto con molti precisi dettagli Sergio Di Giacomo su Avvenire: «Antonello non poteva non conoscere il ruolo e l’attività svolta da Smeralda-Eustochia, sua vicina e coetanea, la cui fama stava sviluppandosi velocemente. Il piccolo Antonellus iniziava la sua attività di apprendista proprio a ridosso della “contrada dei setaioli”, dove Eustochia Smeralda trascorse la sua infanzia e la prima adolescenza. Antonello degli Antoni era nato nella vicina contrada Sicofanti, adiacente a quella che veniva definita la via dei Monasteri, e aveva la casa-bottega poco distante sia dal monastero dell’Accomandata – sito nell’ex ospedale della Santa Ascensione, dove Eustochia Calafato nel 1458 fondò il primo monastero del Sud Italia sotto la regola di santa Chiara –, sia da quello di Montevergine, fondato dalla futura santa nel 1464. Segni di una vicinanza che non era solamente geografica ma anche di visione religiosa. Sia Antonello che Eustochia, infatti, erano ferventi francescani, entrambi aderenti alla linea degli Osservanti dai tratti spirituali e ascetici che contrastava polemicamente coi Conventuali».
È nota anche la volontà di Antonello di farsi seppellire in abiti francescani. Riporto sempre da Sciascia: «Proprio sul testamento d’Antonello ci viene da considerare quale fatto oggettivo sia per un siciliano la morte: una faccenda di tuniche e clamidi da lutto per il padre per la ma­dre per sua figlia Fimia per sua sorella Orlanda (un’onza a testa); e per sé l’abito di frate dei Minori Osservanti: “quod cadaver meum seppelliatur in conventu Sancte Marie de Jesu cum habitu dicti conventus”».
La categoria dell’oggettività di Antonello, che questa vicenda ripropone in termini di grande suggestione per il personaggio in questione, è la categoria chiave per capirlo. Oggettività che è spettacolare adesione al dato reale ma un’adesione che definirei “sottopelle”. Nel senso che Antonello restituisce fedelmente il visibile, ma anche quel che sta sotto. In altre parole, Antonello intercetta sempre il filo esile che assicura all’apparenza un fattore che è “per sempre”. È questo l’ordine delle somiglianze di cui parla Sciascia, con termini che è quasi un delitto tentare di spiegare. Al fondo delle somiglianze c’è un “ordine”, che ha che fare con quel “per sempre” e che rende le somiglianze “assolute”. Assolutamente chiare. L’oggettività di Antonello si posiziona in quel punto dove il tempo incrocia il senza tempo. Un punto ad alto rischio, da cui pochi riescono a riemergere con credibilità. Antonello è uno di quelli che ci riesce, sempre con una limpidezza che lascia senza fiato.

Ps: unico appunto all’articolo di Avvenire è quella forzatura sulla figura di Antonello. Per dipingere Madonne così non è necessario essere dei semi santi. Le cose nell’arte non vanno così. Del resto Vasari ci ricorda che era «persona dedita a’ piaceri e tutta venerea».

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Gennaio 19th, 2012 at 10:12 pm

Romeo Castellucci: Il Gesù di Antonello e la mia metafora dell’umano

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Questa è la lettera di Romeo Castellucci scritta ai quotidiani milanesi per spiegare lo spettacolo preso di mira (preventivamente) da gruppi della destra cattolica.

di Romeo Castellucci
Questo spettacolo nasce come un getto diretto delle e dalle Sacre Scritture. La Teodicea del Libro di Giobbe, il salmo 22, il salmo 23, i Vangeli. Il libro della Tragedia appoggiato su quello della Bibbia. L’azione teatrale vuole essere una riflessione sulla difficoltà del 4° comandamento se preso alla lettera. Onora il padre e la madre. Un figlio, nonostante tutto, si prende cura del proprio padre, del suo crollo fisico e morale. Crede in questo comandamento e fino in fondo il figlio sopporta quella che sembra essere l’unica eredità del proprio padre. Le sue feci. E così come il padre anche il figlio sembra svuotarsi del proprio essere e della propria dignità. Questo spettacolo è una riflessione sul decadimento della bellezza, sul mistero della fine. Gli escrementi di cui si sporca il vecchio padre incontinente non sono altro che la metafora del martirio umano come condizione ultima e reale. Non c’è niente di provocatorio, ma tutto quello che si vede, si sente e si prova arriva dall’osservazione diretta della realtà. Per questo spettacolo ho scelto il dipinto di Antonello a causa dello sguardo di Gesù che è in grado di fissare direttamente negli occhi ciascuno spettatore con una dolcezza indicibile. Lo spettatore guarda lo svolgersi della scena ma è a sua volta continuamente guardato dal volto. Il Figlio dell’uomo, messo a nudo dagli uomini, mette a nudo noi, ora. Quando le condizioni tecniche lo rendono possibile, è previsto l’ingresso di un gruppo di bambini che svuotano i loro zainetti del loro contenuto: si tratta di granate giocattolo. Uno ad uno lanciano queste bombe sul ritratto. È un gesto innocente portato da innocenti. L’intenzione è quella del bambino che vuole tutta l’attenzione per sé del genitore distratto. È possibile pensare alla frase del salmo 88: Dio non nascondermi il tuo Volto. Solo in questa azione nasce la musica tutto il resto è in silenzio. A Milano non è stato possibile includere questa scena non certo per un’autocensura! Non c’erano le possibilità logistiche per poterlo fare. Questa decisione è stata presa un anno fa, prima delle polemiche. Questa scena è regolarmente presente in tutte le città, là dove la si potrà attuare. Le immagini dure e spiacevoli del lavoro appartengono alla vita, non sono una mia invenzione sadica. Certe volte il teatro utilizza, come nella tragedia greca, una tecnica antifrastica, omeopatica; una tecnica cioè che utilizza gli elementi estranei per significare l’opposto. E così, per esempio, un gesto violento vuole significare la fragilità umana e il bisogno di amore. Anche le cose spiacevoli possono misteriosamente veicolare un senso di bellezza profondo che, scavalcando l’ordine del grazioso, possono parlarci in modo ancora più profondo e vero.
Questo spettacolo mostra, nel suo finale, dell’inchiostro nero di china che emana dal ritratto del Cristo come da una sorgente. E’ tutto l’inchiostro delle sacre scritture qui pare sciogliersi di colpo, rivelando un’icona ulteriore: un luogo vuoto fatto per noi, che ci interroga come una domanda. Devo denunciare qui le intollerabili menzogne circa il fatto che si getterebbero feci sul ritratto di Gesù. Che idea! Niente di più falso, di cattivo, di tendenzioso. Chi afferma queste cose gravissime risponderà alla propria coscienza di avere offeso –lui si – con questa immagine rivoltante il volto di Gesù. Alla fine dello spettacolo la tela del dipinto si lacera come una membrana. Un campo vuoto e nero in cui campeggia luminosa una scritta di luce, scavata nelle tavole del supporto del ritratto: Tu sei il mio pastore. E’ la celebre frase del salmo 23. La scrittura della Bibbia perde il suo inchiostro per esprimersi qui in forma luminosa. Ma ecco che si può intravedere un’altra piccola parola che si insinua tra le altre, dipinta e quasi inintelligibile: un non, in modo tale che l’intera frase si possa leggere nel seguente modo: Tu non sei il mio pastore. La frase di Davide si trasforma così per un attimo nel dubbio. Tu sei o non sei il mio Pastore? Il dubbio di Gesù sulla croce Dio perché mi hai abbandonato? espresso dalle parole stesse del salmo 22 del Re Davide. Questa sospensione, questa intermittenza della frase, racchiude il nucleo della fede come dubbio, come luce, come l’incerta condizione umana. L’ultima considerazione vorrei riservarla a coloro che hanno giudicato lo spettacolo: dove lo hanno visto? Che cosa hanno visto? Perché hanno creduto alle caricature mostruose apparse nei blog semplicistici dei nuovi fustigatori della società? Come e cosa hanno potuto giudicare? Le cose allucinanti e oscene di cui leggo NON sono il mio spettacolo che ho invece concepito come un de profundis. E poi perché non leggere gli articoli di stampa – in primis quello del compianto Franco Quadri e di centinaia di articoli del mondo intero – che hanno recensito lo spettacolo più di un anno fa? Invito pacatamente tutte le autorità di questa città a prendere informazioni da fonti attendibili e serie prima di esprimere pareri che avranno certamente un peso abnorme nel clima culturale già devastato di questo Paese.

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Gennaio 16th, 2012 at 6:49 pm

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Perché difendo lo spettacolo di Castellucci (anche senza averlo visto)

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Non ho visto lo spettacolo di Romeo Castellucci ma ho una grande curiosità e desiderio di andarlo a vedere. Ho curiosità di tornare in quel teatro dove 30 anni fa gli spettacoli stupendi di Testori avevano sollevato molto e per certi versi, analogo, scalpore. E lì che avevo imparato come il cristianesimo non si palesi sempre con buone maniere. E che anzi spesso chi lo prende di petto ne rende una testimonianza più vera. E quindi più viva.
Dovessi spiegare perché «Sul concetto di volto nel figlio di Dio» mi interessa (a parte la stima per quel gruppo teatrale, la Societas Raffaello Sanzio), direi innanzitutto questo: è uno spettacolo che rimette inaspettatamente il volto di Gesù al centro della scena. E non si tratta di un volto arbitrariamente reinterpretato, ma è il volto “oggettivizzato” dal genio di Antonello, un volto che si è sedimentato nella memoria di ogni cristiano. È uno di quei volti che “colpisce per sempre”. Di più: non è un volto di un Gesù di Passione ma è un Gesù Salvatore che domina in dimensioni gigantesche e straordinariamente suggestive tutta la scena.
«Io voglio stare di fronte al volto di Gesù» ha infatti detto Castellucci, per dare la chave dello spettacolo. In una stagione in cui la cultura ha ripulito ogni discorso da quel volto, il tentativo di Castellucci mi interessa quindi a priori. Oggi il rischio non è quello dello scontro con Cristo, ma la sua cancellazione (o sostituzione).
Il volto di Gesù non è mai un volto obbligante, tant’è vero che nel corso della storia si è lasciato guardare da occhi diversissimi tra loro, a volte adoranti, a volte pretenziosi, spesso anche ostili. Non è un volto che determina percorsi predefiniti. È un volto che lascia liberi. Ma il suo porsi come volto è il suo primo modo di irrompere sulla scena della storia. «Questo Cristo interroga come un’immagine vivente e certamente divide e dividerà ancora», ha detto Romeo Castellucci.
Il regista autore si interroga e interroga quel volto sul tema della sua onnipotenza: come si spiega il declino a volte degradante della vita umana (incarnato nella figura del vecchio sfiancato e seminudo sulla scena) di fronte a quel volto che annuncia la salvezza? «Nella figura del figlio attraverso i suoi tentativi di pulire il suo padre malato, si riconosce la lunga storia dei profeti della Bibbia che tentano di risollevare il popolo di Israele smarrito nei suoi peccati», ha scritto il domenicano Therry Hubert, dopo aver visto lo spettacolo a Parigi. E da parte sua il regista precisa: «Vorrei solo far combaciare due forme apparentemente lontane: la scatologia (la decadenza del corpo umano) e l’escatologia (il volto di Cristo). Tutto questo in modo degno». Come tentativo non mi sembra da poco…
La domanda che sta alla base dello spettacolo fa scattare rabbia, rancori, disperazione ma anche a a volte sembra trasformarsi in implorazione. Quel volto non è lontano, è vicino, presente ma resta comunque misterioso: nelle immagini si scorgono anche dei gesti che indicano un istintivo abbandono, quasi un aderire senza pretese.
Alla fine sul volto un velario nero, come un sudario scivola drammaticamente sul volto. Con una didascalia cupa, da scommessa persa. «Non è il mio pastore», sancisce l’autore. Non è una “bella” conclusione. Ma da qui a vederne una soluzione blasfema ce ne corre…

Written by gfrangi

Gennaio 16th, 2012 at 12:29 pm

La politica fa man bassa al Sacro Monte di Varallo

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Dal primo gennaio Elena De Filippis non è più direttrice del Sacro Monte di Varallo. Un golpe della politica (in questo caso di marca leghista) ha tolto di mezzo una figura che per la sua competenza e per la sua passione rappresentava una garanzia per un monumento affascinante e delicato come il Sacro Monte: basta vedere il recupero delle Cappelle della Natività portato a termine lo scorso anno (nell’Immagine la “nuova” cappella dei Magi). Nulla hanno contato tanti appelli, con decine e decine di firme di studiosi di tutte le appartenenze culturali e ideologiche. Nulla ha contato la lettera di tre storici e autorevoli sovrintendenti. A nulla è valsa la posizione della chiesa che sul Sacro Monte dovrebbe pure una voce in capitolo (anche se la proprietà delle cappelle è del comune di Varallo, oggi a guida leghista): i padri del santuario e i responsabili della diocesi di Novara hanno preso la parte della De Filippis, ma invano. Tra tante casi di cattiva gestione della cultura in Italia, quella del Sacro Monte poteva essere additato come caso scuola positivo, perché ha sempre saputo tenere insieme conservazione, studio, rispetto della natura religiosa del luogo e anche ricerca di nuovo pubblico. Dall’altra parte invece c’è un progetto bislacco che riduce il Sacro Monte a circo, a set da tevendite pur di poter portare su qualche pulman di turisti in più. Una visione che fa ripiombare il Sacro Monte in un orizzonte tutto provinciale, contro il lavoro fatto negli ultimi 50 anni per ridargli il posto che merita nel novero dei grandi monumenti della storia dell’arte italiana.
Personalmente, conoscendo la De Filippis, sono sempre rimasto colpito dal suo equilibrio nel tener presenti i fattori artistici, quelli conservativi e quelli devozionali. Per fare un esempio: quando a restauro concluso della cappella della Crocifissione, vero capolavoro dell’arte italiana del 500, venne deciso di chiudere l’accesso al pubblico, la De Filippis studiò un dispositivo che permetteva attarverso alcune bussole di vetro ai visitatori di entrare comunque di qualche metro nella cappella, per non perdere quel senso di partecipazione che è così importante nell’arte di Gaudenzio.Non solo, all’interno delle bussole aveva fatto disporre degli inginocchiatoi proprio per rispettare la natura religiosa del luogo e per venire incontro a chi concepisse la visita come un momento di preghiera: lì ci salgono in ugual misura appassionati e pellegrini. Una scelta che mi sembrò indicativa di una sensibilità non comune.
Ora si azzera tutto. Tra vincitori e vinti, chi esce sicuramente sconfitto è il Sacro Monte. La politica di accorpamento di tutti i Sacri Monti (l’ente regionale è stato affidato a Giacomo Gagliardini, varallino, voluto dal sindaco) è certamente una sconfitta per Varallo, Sacro Monte portato alla para degli altri. Già non capirne l’unicità è sintomo di quanto sia sbagliata questa operazione.
Ps: Intanto per far capire che non è una polemica di parte: qui c’è un elenco degli interventi attuati al sacro Monte negli anni di gestione De Filippis. Giudicate voi

Written by gfrangi

Gennaio 9th, 2012 at 9:19 am

Giacometti, l’uomo (per Bacon) più importante del mondo

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Nella biografia davvero caotica di Francis Bacon scritta da Daniel Farson (Johan&Levi editore), a intermittenza emergono anche particolari interessanti. Ad esempio quello della predilezione – quasi venerazione – di Bacon per Giacometti (ricambiata a quanto sembra). È una stima che colpisce, specie in una persona come Bacon, che certo non era un artista di buone maniere…. Ecco alcuni brani dal libro che penso non abbiano bisogno di ulteriori commenti.

Giacometti e Bacon a confronto alla Fondazione Beyeler di Basilea

Bacon su Giacometti…
Pur affermando di provare un’ammirazione speciale per Alberto Giacometti, Francis si presentò completamente ubriaco a una cena in suo onore organizzata da Isabel (la Rawsthorne, che fu modella per entrambi, ndr) in un ristorante. Via via che si sbronzava sempre di più, il suo discorso sull’arte degenerò, come al solito, in un monologo involuto sulla vita e sulla morte. Giacometti beveva con moderazione e ascoltava, scrollando di tanto in tanto le spalle: «Chi può dirlo?». Rendendosi conto che stava annoiando quello che lui considerava «il più meraviglioso tra tutti gli esseri umani», Francis sollevò silenziosamente il bordo del tavolo, in alto sempre più in alto, facendo scivolare a terra tutti piatti, i bicchieri e le posate. Giacometti parve deliziato «da questo tipo di risposta all’enigma dell’universo e lanciò un grido di gioia».

Un giorno Francis mi presentò Giacometti, dichiarando: «Questo è l’uomo che mi ha influenzato più di chiunque altro».

… preferiva i disegni di Giacometti alle sue sculture «soprattutto quelli a matita o con la fusaggine. Per lui era una grande avventura vedere emergere qualcosa di sconosciuto, ogni giorno, nello stesso volto».

…Giacometti su Bacon
… una volta, mentre si trovavano in taxi a Londra, Giacometti gli battè a sopresa su un ginocchio dicendo: “Quando sono a Londra, sono omosessuale!”».

Written by gfrangi

Gennaio 3rd, 2012 at 9:16 pm

Le dieci mostre da ricordare dell’anno che se n’è andato

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Premessa: Sono dieci mostre che ho visto. Quindi è una classifica fortemente parziale, da cui sono escluse rassegne sicuramente straordinarie come gli Stein a Parigi, De Kooning a New York e la sorpresa Ostalgia di Massimilano Gioni sempre a New York).

Gerhard Richter fotografato da Anton Corbjin

1. Gerhard Richter alla Tate. Una mostra che non si dimentica, esteticamente e moralmente altissima. Ne ho scritto qui.
2. Modigliani scultore al Mart. Un allestimento esemplare, che ha esaltato, contestualizzandola, l’eleganza esagerata delle pietre.
3. Tancredi a Feltre. Occasione centrata per una riscoperta di un grande inquieto capace di grande leggerezza.
4. Leonardo alla National. Per i prestiti ottenuti e perché le due Vergini delle rocce non erano mai state insieme. Per il resto molte riserve.
5. Le Madonne vestite a Sondrio. Vera sorpresa di fine anno. Una mostra che fa leva su un lungo lavoro di ricerca, che ha incrociato storia dell’arte, storia dei materiali e antropologia.
6. Pipillotti Rist per Fondazione Trussardi al Cinema Manzoni di Milano. Su di lei potrei avere qualche riserva, perché il suo mondo è immobile da 15 anni. Ma la qualità e l’impatto dell’operazione è di grande livello.
7. La Transavanguardia a Palazzo Reale di Milano. Una mostra che pensavamo nata morta (come l’analoga celebrativa per l’Arte Povera) invece mi ha preso in contropiede. Con una zampata il vecchio Abo ha dimostrato tutta la vitalità, in parte ancora operante (vedi sala finale di Cucchi), di quel movimento.
8. L’allestimento di Punta della Dogana a Venezia. In un certo senso era un appuntamento scontato. Di spettacolare e abile sistemazione di tante cose già viste: ma Cattelan nella stanza spoglia guadagna in drammaticità. Invece le sorprese non sono mancate:la Sturtevant con la corsa infinita del suo cane, la grinta di Thomas Schütte, la delicatezza piena di nostalgia di Chen Zen, le sorprese di Tatiana Trouvé e dell’etiope Julie Merethu. Poi al suo posto c’era sempre il grande ciclo di Sigmar Polke.
9. L’arte russa al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Ovvero quel senso epico che l’arte del Novecento non ha mai sperimentato. Una mostra pulita e ben fatta, che rende la coralità senza indugiare troppo sulle individualità.
10. Andrea Mastrovito a Casa Testori. Segnalazione in palese conflitto di interesse. Ma non credo di sbagliare: per ambizione, passione, coraggio la prova dio Matrovito (32 anni) nelle 20 stanze della casa è stata una grande prova.

Written by gfrangi

Gennaio 2nd, 2012 at 9:30 am

Un grande dimenticato del 2011, Renato Guttuso

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Il 2011 sono stati cent’anni dalla nascita di Renato Guttuso, ma l’anniversario è passato via in una sostanziale indifferenza. Eppure sarebbe stato interessante riaprire oggi il capitolo che lo riguarda. Guttuso non è un artista a cui si debbano invenzioni o intuizioni di quelle imprescindibili. È sempre stato nella scia dei tempi e di alcune linee maestre aperte da altri (Cézanne, Picasso), senza mai nasconderlo. C’era un fondo irriducibile di sincerità in lui che lo rende ancor oggi umanamente e culturalmente interessante. Ricordo di un’intervista all’Europeo in cui spiegava la sua diffidenza dall’espressionismo, che agiva facendo violenza sulle cose, mentre a lui interessava portare a galla la violenza delle cose, dove violenza non era una categoria affatto negativa, ma alludeva alla vitalità delle cose. “Un artista deve cercare la realtà come essa è, cercare di raggiungere le cose come sono”, diceva. Affermazioni persin banali, ma che lasciano intendere quel suo desiderio di sfilarsi dalle spire del soggettivismo. Che ci sia riuscito è un’altra questione: si può dire che questa intenzione la si scorge sempre davanti a tutte le sue opere più riuscite.
Ma in Guttuso c’è un altro aspetto interessante connesso a questo: è la malinconia, conseguenza di quel senso di fallimento e di inadeguatezza rispetto a quello che avrebbe voluto essere. C’è uno scollamento tra le cose e il modo con cui le cose rifluiscono anche in un’interiorità amica delle cose come la sua. C’è in Guttuso come un’impossibilità di adesione netta e semplice, a cui pur aspira. C’è un’intercapedine che si frappone tra il suo sguardo senza riserve e ciò che poi il suo artista metabolizza. E onestamente Guttuso non censura questa sua difficoltà. Basta vedere i ritratti dei primi anni, tra cui spicca quello ad Antonino Santangelo, del 1942, uno dei grandi quadri del dopoguerra, certamente uno di quelli di più intensa partecipazione umana alla temperie di quella stagione (un quadro, per dirla tutta, umanamente memorabile). C’è in questo quadro così aderente al piano delle cose, un senso di irrimediabile sconfitta, una malinconia che va ovviamente in rotta di collisione con tutte le certezze ideologiche. È questa sincerità squadernata che rende Guttuso un artista irriducibilmente simpatico nel senso più profondo e coinvolgente del termine. Simpatico cioè amico. Cioè innamorato delle cose, ma ferito dalla consapevolezza che quelle stesse cose erano destinate a sfuggirgli (quanto è lontano da lui il prepotente senso di possesso picassiano). Diceva sempre che l’artista vero è uno che va allo sbaraglio. Anche nella coscienza di non portare a casa quel che desiderebbe. Guttuso in fondo è uno che, con tutti i suoi limiti, è andato allo sbaraglio rispetto alla realtà e rispetto anche a se stesso. Per questo sarebbe stato molto salutare riscoprirlo.

Written by gfrangi

Dicembre 29th, 2011 at 9:49 am

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Quel concentrato lombardo nel cuore della National Gallery

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I piedi dell'Angelo annunciante di Moretto. Ben piantati per terra


Una delle fortune del fatto che la mostra di Leonardo abbia un percorso accidentato con l’ultima sala sistemata dalla parte opposta della National Gallery, è che, anche un visitatore di fretta come’ero io, sia “costretto” a passare l’infilata delle sale del Rinascimento italiano. Sale straordinarie, tra le più belle per respiro, coerenza e livello delle opere che esistano al mondo. Quando le si passa in sequenza, alla fine si approda alla grande sala dei lombardi: e lì ogni volta per me è come un colpo al cuore. Primo, perché si ha la sensazione fisica di essere rientrati in casa. Secondo, perché ti accorgi che non c’è nessuna flessione rispetto ai nomi enormi delle sale che precedevano. Voglio presumere che Romanino, Moretto, Savoldo, Moroni e Lotto per quanto grandi valgano Tiziano? Evidentemente no, anche perché i Tiziano delle sale che precedevano sono cose da brividi. Ma quando entri nella sala dei lombardi scopri la tenuta di una visione omogenea, di una lingua comune, di un farsi coro pur nella diversità delle voci (anzi proprio per quello), che davvero conquista cuore e cervello. C’è il rimando dei grandi ritratti dei lombardi malinconici (il Martinengo di Moretto; l’aspirante Lucrezia di Lotto); o dei polittici che resistono ad oltranza senza apparire arcaici: Moretto vs Romanino, uno contro l’altro su pareti opposte. Il primo è intriso di umidità e di umori furiosi (il sant’Alessandro era il manifesto della grande mostra di Brescia che aveva fatto innamorare Pasolini), il secondo acceso di un incredibile cielo azzurro che attraversa tutte gli elementi del polittico e che sembra una vera sfida ai cieli perfetti e senza tempo del Rinascimento con la “R” maiuscola. Un cielo che è il nostro cielo, non un cielo “intellettualmente” lontano ma vicino, sotto il quale ci si sente a casa. E che dire della sfilata dei precursori della buona borghesia lombarda di Moroni? Gente all’opera come il suo sarto; gente dentro la storia, anzi dentro l’ora di una normale giornata. È una grandezza che sale dal basso e non stacca mai i piedi da terra.
Non sarà un caso che i grandi pianificatori della National si siano accorti di questa grandezza d’assieme e abbiano dato ai Lombardi la Central hall… Ecco tutti i quadri che vi sono esposti

L'incredibile Sant'Alessandro di Romanino. Capite perché avesse colpito Pasolini

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Dicembre 25th, 2011 at 11:40 am

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Leonardo a Londra, ma Milano è sparita

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Una giornata londinese, di gran carriera, con visita a Leonardo, Richter e Kiefer.
Prima tappa, Leonardo. La mostra è sotto le aspettative. Provo a elencare una serie di motivi di perplessità. La principale: il titolo evidenzia che è stato messo al centro il lungo e decisivo periodo di Milano. In realtà i riferimenti di contesto, che sarebbero di grande importanza per capire e per approfondire Leonardo, scompaiono: il percorso si cristalizza attorno ad alcune opere totem, frutto di prestiti eccezionali, e ci gira attorno senza proporre addentellati che sarebbero secondo me necessari per capire meglio le opere stesse. Oserei dire che c’è una sorta di feticizzazione dei capolavori che vengono estratti da contestualizzazioni troppo stringenti.
Il caso più clamoroso mi sembra quello delle due Vergini delle rocce, che per la prima volta nella storia si trovano nello stesso ambiente e che non vengono indagate per la loro novità più straordinaria che mi sembra sia la concezione del paesaggio. Leonardo a Milano libera questa nuova visione della natura che cresce nell’osservazione precisa e costante del corso dell’Adda piuttosto che delle prealpi.
Una seconda perplessità è logistica: la mostra è sistemata al piano meno 2 dela Sainsbury Wing: sono sei sale di cui una sola grande, stipate di gente all’inverosimile (bastano a naso 250 persone per fare il full). C’è poi una settima sala al piano più due nel lato opposto della National, dove sono stati raccolti tutti i disegni preparatori per il Cenacolo. Lì ovviamente metà delle persone non ci arriva e così la visibilità è garantita. Tra l’altro è la sala più sorprendente, che inizia con quel micro taccuino su cui Leonardo aveva annotato la celebre descrizione del suo Cenacolo e poi presenta in sequenza una serie di disegni stupefacenti, il san Bartolomeo in particolare. C’è anche un primo abbozzo dell’Ultima Cena, con un san Giovanni che si è abbandonato sul tavolo, con le braccia sotto la testa, come in un cedimento al dolore (immagine in alto).
Al catalogo ho dato per ora solo una breve scorsa. Ma quando mi sono fermato sulla pagina che racconta in modo ultrasommario il dibattito che aveva infiammato la Milano di quegli anni attorno al tema dell’Immacolata Concezione, ho avuto conferma delle mie sensazioni. La questione è chiave per capire il mistero della Vergine delle Rocce, e Ballarin nel suo libro che aleggia un po’ come un fantasma messo in castigo, gli dedica decine di pagine con una ricostruzione che diventa anche un magnifico spaccato della Milano di quegli anni. Ma a Londra oltre che Ballarin hanno fatto sparire anche Milano.

PS: Dovessi portarmi via un’opera mi prenderei il cartone con la Madonna e Sant’Anna (sotto, un particolare). Non avevo mai fatto caso che la Madonna fosse in braccio a sua madre tenendo poi a sua volta in grembo il Bambino. Ma è l’affondo dei neri in quel cartone che dà veramente la vertigine. Guardandoli da vicino ci si perde dentro. Sono magnetici esattamente come il paesaggio della Vergine delle Rocce parigina.

Written by gfrangi

Dicembre 16th, 2011 at 8:05 pm