Robe da chiodi

Zeri senza scintille

3 comments

In un’intervista su Repubblica Michel Laclotte, il “creatore” del Musée d’Orsay, ricorda i dieci anni dalla morte di Federico Zeri (verrà commemorato in grande stile a Bologna venerdì 10 ottobre, qui il programma). In realtà gran parte dell’intervista è dedicata ad altro. Laclotte ricorda ad esempio un incontro con Longhi: «Gli faccio vedere la foto di una tela caravaggesca entrata nel museo di Rouen, una Flagellazione di Cristo. Longhi riconosce subito una versione di un quadro appena pubblicato da Denis Mahon come Caravaggio. Si parte immediatamente per Rouen. Lì ho assistito a una scena indimenticabile. Longhi girava intorno al quadro, il suo occhio faceva scintille. In pochi secondi, grazie a lui, il quadro era diventato per noi l’originale di Caravaggio. Soltanto dopo ha fornito le prove, facendo scoprire le tracce lasciate dal manico del pennello, quelle incisioni sulla preparazione della tela che Caravaggio usava come disegno preparatorio. E tutto in allegria e divertimento, con giochi di parole in francese e imitazioni esilaranti».

Sottolineo quell’“immediatamente”. Un’altra epoca, un’altra passione per le cose, un’altra libertà. E poi quelle scintille negli occhi…

(aperta parentesi: forse proprio quelle scintille che mancavano a Zeri, grande conoscitore, ma anche grande livellatore di valori e bellezza; il suo libro per me più bello Pittura e controriforma. L’arte senza tempo di Scipione da Gaeta, è un libro dedicato alla stagione più programmaticamente castigata – anzi, per dirla tutta, stitica – della cultura figurativa cattolica. Una stagione di cattolicesimo intimidito, di controriforma non metabolizzata. Una stagione dominata dalle “regole”. Quanto a quel libro, è un libro magnifico, forse perché dettato da quel sottile gusto punitivo; so che in tanti non non saranno d’accordo, ma io la vedo così…)

Written by giuseppefrangi

Ottobre 8th, 2008 at 10:48 pm

Posted in art today

Bellini in periferia

leave a comment

Mi ha commosso vedere spuntare sull’invito di una mostra che si terrà alla Pinacoteca provinciale di Bari il volto di questo San Pietro Martire di Bellini. La mostra viene organizzata in occasione del restauro della tavola. Dobbiamo immaginarla nelle sue dimensioni ragguardevoli: 194 x 84 cm. Non era la prima volta che Bellini affrontava san Pietro Martire: lo aveva fatto in quel “verde” capolavoro con la rappresentazione della scena del martirio, oggi conservato al Courtauld Institute di Londra. Intorno al 1487 questa tavola di Bari, anche firmata “Ioannes Bellinus”, venne imbarcata da Venezia e raggiunse le coste pugliesi per arrivare alla sua meta, la chiesa di San Domenico a Monopoli (Pietro Martire era santo domenicano). Oggi “riappare”, con questo suo volto di un patetismo solenne, con questa dolcezza potente negli occhi. Come disse Longhi: «Una calma che spazia tra i sentimenti eterni dell’uomo: cara bellezza, venerata religione, eterno spirito, vivo senso».

La mostra apre l’11 ottobre, con tanto di catalogo per illustrare il restauro e di convegno con intervento di Carlo Bertelli, su «Giovanni Bellini dalla laguna all’Adriatico».

La mostra romana di Bellini oggi è oggetto di una bella recensione di Maurizio Cecchetti su Avvenire.  Ancora una volta Mauro Lucco, che avvea già curato la mostra su Antonello sempre alle Scuderie del Quirinale, usa dell’occasione per attaccare la lettura di Longhi («L’argo­mentazione del Lucco è serrata, si abbandona in certi momenti a u­na prosa sarcastica e stucchevole»). Ancora una volta nel mirino è la centralità di Piero della Francesca, affermata da Longhi e già spiegata da Ferdinando Bologna. Scrive Cecchetti: «Ferdi­nando Bologna dava di ciò una spiegazione apparentemente lo­gica, ma certo non meno ipoteti­ca della stessa forza argomentati­va della prosa longhiana: “Il pro­blema dell’orma di Piero non è già di natura appunto morfologica e grammaticale, bensì di ordine sin­tattico e strutturale” . È come so­stenere che Piero rivive in Bellini per un transfert che si palesa nel­la mente dello spettatore quasi per telepatia. Va invece colta la pre­gnanza del discorso longhiano, considerandone le forzature di ta­glio ideologico- critico, come quando per vedere in profondità occorre sfocare il particolare in primo piano».

Written by giuseppefrangi

Ottobre 7th, 2008 at 8:22 am

Giotto, Francesco e Dio

leave a comment

4 ottobre, San Francesco. Dire Francesco è dire Giotto, anche se l’attribuzione degli affreschi di Assisi è ancora al centro di una controversia frontale. Ma il libro recente (bellissimo: un lettura aristotelica di Giotto) di Serena Romano ha messo un bel punto fermo. Questa le genealogia di Assisi: prima le due scene con le storie di Isacco, poi la regia del cantiere con le storie di Francesco. Trait d’union tra le une e le altre sono alcuni elementi compositivi che vengono sul dal profondo di una personalità che è evidentemente la stessa. Tra i punti di contatto uno è importante perché svela, oltre che Giotto, anche Francesco. Scrive la Romano: «È un elemento di strategia narrativa e anche strettamente compositiva: è il modo di rappresentare il punto emozionalmente clou della storia, che ne riassume il significato e si esprime in un unico gesto».

Il gesto dunque. Passate in rassegna gli affreschi di Assisi. Le scene in cui Giotto era senz’altro alla regia sono incardinate attorno a un gesto. Sempre reso manifesto dalla mano. Portato a galla con un certo clamore, perché spesso stagliato sul fondo nudo e azzurro. È la tecnica di un narratore sicuro, che non conosce pentimenti, che tiene con saldezza in mano i fili della composizione. Nella scena della Rinuncia dei beni, una delle più belle, sintesi del Giotto più nitido, la centralità del gesto ha un’esplicitezza persin didascalica. Le mani giunte di Francesco rimasto nudo (e coperto solo dal mantello provvidenzialmente allungato dal vescovo di Assisi) sono tese verso l’altra mano, quella di Dio che sbuca dall’alto, stagliata sullo stesso fondo blu. Tutto il resto è contorno. L’occhio fruga, ma tutti gli altri, protagonisti sino a un istante prima, sono diventati comparse. Impallidiscono. C’è da credere che se potessero, si eclisserebbero. Invece devono stare. E vedere.

La strategia narrativa si ripete in tante scene: la Predica agli uccelli, il Miracolo della sorgente, la Scacciata dei diavoli da Arezzo, la Visione dei troni celesti… Sempre le mani alzate dal corpo, allungate, tese. Mani che domandano.. E chi se non uno della grandezza di Giotto poteva generare una soluzione di questa forza e di questa semplicità?

(L’alleanza tra Giotto e Francesco dura poi nel tempo. Nella cappella Bardi a Firenze, il pittore ormai vecchio, lascia quel capolavoro tutto ocra che sono le Esequie del santo. Tra gli astanti, il frate estatico sulla sinistra, ha una forza icastica degna del frontone del Partenone.)

Written by giuseppefrangi

Ottobre 3rd, 2008 at 11:58 pm

Posted in antichi

Tagged with , ,

100mila lire per Morandi

3 comments

In occasione della bella e sobria mostra di Morandi organizzata a Villa Panza a Biumo da Anna Bernardini (Giorgio Morandi, collezionisti e amici, sino all’11 gennaio), veniamo a riscoprire il profilo di un artista la cui moralità oggi certo sconcerterebbe. Quando Francesco Paolo Ingrao, collezionista sardo, ansioso di avere una sua opera, gli mandò un assegno di 100mila lire, ebbe questa risposta da un Morandi imbarazzato: «Sarà necessario che ci intendiamo perché non mi è possibile accettare tanto denaro per un dipinto». Tanto denaro per un dipinto: e sì che i dipinti erano quasi tutti centellinati e filtratissimi capolavori. Come la serie di bottiglie che animano l’VIII sezione della mostra varesina. Bottiglie lunghe e strette dei vinai e delle trattorie bolognesi, che Morandi colorava di bianco per evitare il disturbo dei riflessi luminosi. Composte in un equilibrio meditato e assoluto, vibrano di una tensione quasi da spasimo. Difficile immaginare un simile equilibrio di pudore e di arditezza.

Sempre nel bel saggio in catalogo (edizioni Skira) di Flavio Fergonzi viene ricordato un episodio che consacrò la fama di Morandi, al di là certamente dei suoi desiderata. Nella Dolce Vita di Fellini, Mastroianni e Steiner dialogano davanti a una natura morta morandiana: «Gli oggetti sono immersi in una luce di sogno… dipinti con uno stacco, un rigore che li rendono quadi intangibili. Si può dire che è un’arte in cui niente accade per caso». Chapeau. (Certo è sorprendente pensare che Fellini sfosse stato stregato da Morandi, così lontano da lui. Sarebbe bello saperne di più).

Written by giuseppefrangi

Ottobre 2nd, 2008 at 11:32 pm

Impressionisti verticali

2 comments

Una piccola trasferta di impressionisti al Mart di Rovereto. Sono quelli del Museo di Gerusalemme. Tutto già visto? No, niente è stato visto abbastanza, neanche i fluviali impressionisti di questi anni. Bella la sala di Renoir, che si conferma un Rubens un po’ stranito e imbambolato (in effetti non ha più attorno a sé re, regine e papi, ma borghesi ben pasciuti e senza ambizione).
Ma il clou sta nel fil rouge che lega i due quadri più forti arrivati per questa trasferta. Lo Stagno con ninfee di Monet (1907) e la Casa di campagna vicino al fiume di Cézanne (1890 ca). Hanno una struttura comune, tripartita. Il cuore è al centro, nell’uno e nell’altro. È la zona dove si condensa la luce. È, per così dire, il luogo dell’evento. Una fascia stretta tra due masse. È impressionismo in verticale (che smentisce l’idea di una pittura costituzionalmente riposata e orizzontale: non si è mai visto abbastanza). Ma il verticalismo di Monet è verticalismo che sprofonda, che si cala nel magma visivo del mondo. Che se ne lascia risucchiare, senza mai perder di lucidità. Quello di Cézanne invece va in direzione opposta, si alza, punta verso il cielo come una cattedrale. Monet man mano che scende si sfalda (scriveva Francesco Arcangeli: «è una specie di campo mirabile di confusione, non è solo una confusione naturale, è una confusione di “risonanza”»). Cézanne man mano che sale si consolida. Si fa più lucido, anzi più logico. Il tema della verticalità lo svela lui stesso in una lettera a Bernard del 1904: «Le linee parallele all’orizzonte danno l’estensione, cioè una sezione della natura, o, se lei preferisce, dello Spettacolo che il Pater Onnipotens Aeterne Deus dispiega davanti ai nostri occhi. Le linee perpendicolari all’orizzonte invece danno profondità. Ora, la natura, per noi uomini, è più in profondità che in superificie…». Più in profondità…

Ovviamente questa è una controprova di grandezza. Monet e Cézanne sono i due più grandi del gruppo. O meglio quelli che hanno un’ansia che li porta sempre oltre.

La mostra è visitabile al Mart sino al 6 gennaio.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 1st, 2008 at 11:14 pm

Posted in moderni

Tagged with , , ,

Il compleanno di Caravaggio

leave a comment

«Adi 30 fu batz.o Michel angelo f. de d. fermo merixio et d. Lutia de oratoribus / compare d. fran.co sessa»

Il 30 settembre del 1571 Michelangelo Merisi veniva battezzato nella chiesa di Santo Stefano in Brolo a Milano. Era nato il giorno prima, festa degli Arcangeli, e per questo venne chiamato da papà Fermo e mamma Lucia (la Lombardia è tutta nella persistenza di certi nomi!) Michelangelo. Chi vuole saperne di più della stupenda scoperta tra i registri della parrocchia fatta da un amatore appassionato (Vittorio Pirami), legga l’articolo di Marco Carminati uscito un paio di anni fa su Il Sole. Sopra, l’autoritratto di Caravaggio che mi piace di più: nella soldataglia della Cattura di Cristo del Museo di Dublino.

Written by giuseppefrangi

Settembre 30th, 2008 at 1:22 pm

Posted in antichi

Tagged with

Bellini vs. Mantegna

6 comments

In un’intervista Giovanni Agosti, principe dei mantegnisti, ammette che per lui Bellini è più grande. I due, si sa, erano cognati avendo Mantegna sposato la sorella di Bellini, Nicolosia. E i due sono d’attualità per le due mostre in corso: Mantegna a Parigi, Bellini alle Scuderie del Quirinale. Il confronto, in effetti, è roba sulla quale si potrebbe scrivere un libro. Roba tra arte e psicoanalisi. Per capire il mondo di Bellini bastano le parole di Longhi nel Viatico (1946): «…accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia, e il manto della natura; accordo tra le masse umane prominenti e le nubi alte, lontane, e cariche di sogni narrati», e così via… (ma su Bellini l’aveva detta giusta anche Marco Boschini a metà ‘600: «Zambelin se puol dir la primavera… e senza lù l’arte in inverno giera»). Su Mantegna valgono gli aggettivi di Agosti: sdegnoso, eroico, di legnosa risoluzione, visionario, pittore di testa, classico moderno. In sintesi: “ne cherchez plus mon coeur”.

Sono due polarità opposte. Mantegna testardo, solitario, furente pur nella glacialità del suo archeologismo. Non sente ragioni né voci fuori da lui. L’arroccamento a Mantova sembra quasi un volersi togliere dal dovere di fastidiosi confronti. La mischia o le contaminazioni non sono cose per lui. Il suo è un orizzonte mentale, ma capace di una energia visiva impressionante.

Bellini è il rovescio. S’imbeve di tutto, senza per questo venir meno alla sua grandezza. È femmineo. È un ricettore senza complessi. È un grande che ha la coscienza di essere relativo. È internazionale senza togliere nulla alla sua provincialità. Da Bellini siamo tutti a casa. Con Mantegna siamo tutti su un ring. Da Bellini carezze, da Mantegna pugni. Bellini è la luce del tramonto. Mantegna ti bombarda con il suo un accecante riflettore mentale. Bellini è tenero come una guancia. Mantegna è come una scorza indurita dal corso dei millenni. Bellini è il fremito del presente, Mantegna ha incatenato il tempo. Bellini è collinare, Mantegna è tellurico…

Chi ne ha più ne metta… Sarebbe da farci un referendum: belliniano o mantegnesco?

Written by giuseppefrangi

Settembre 29th, 2008 at 12:21 am

Il vetro di Ivrea

leave a comment

Ancora un appunto dal sabato eporediense. Un appunto ardito. Eppure c’è un’affinità tra la facciata dell’Ico di Figini-Pollini e la parete di Spanzotti. C’è una stessa dimestichezza con quell’aria semi alpina. Una stessa trasparenza poetica. Una stessa capacità di intercettare la luce senza mai esasperarla. Uno stesso amore per la regolarità, espressa nella geometria molto domestica dei quadrati. C’è quasi un’omogeneità tonale, perché tutt’e due stemperano la luce, Figini nella delicatezza tremolante del vetro, Spanzotti nei suoi interni tersi e rosati. Il filo conduttore, la lingua comune è quella di una poesia con un senso civico innato.

(Tommaso suggerisce un parallelo con la Van Nelle Factory di Rotterdam di Johannes Brinkman, 1925-31, quindi di dieci anni precedenti. Un’affinità nell’uso del vetro, che non taglia fuori ma crea rapporti tra il dentro e il fuori)

Written by giuseppefrangi

Settembre 24th, 2008 at 11:42 pm

Scherzi da Hirst

leave a comment

Noto solo ora la coincidenza. Il 15 settembre mentre la banca Lehman & Brother dichiarava fallimento, Damien Hirst sbancava Londra, con la sua asta personalizzata da Sotheby’s. Alla fine della serata il totalizzatore si è fermato a 111.460.000 sterline. Ironia della sorte, tra i tesori di Lehman c’è (o meglio c’era) anche una grande collezione d’arte moderna, dove non manca nessuno, nemmeno lo stesso Damien Hirst. Ars mea, mors tua.

Written by giuseppefrangi

Settembre 23rd, 2008 at 9:53 pm

Posted in moderni

Tagged with

Spanzotti a cinque navate

leave a comment

Ivrea, 20 settembre. Visita al tramezzo di Spanzotti con Giovanni Romano. Sulla parete divisa in una trentina di riquadri, alcuni riquadri si accorpano in un contesto unico. Ultima Cena e Lavanda dei piedi sono ambientate in unico ambiente e la cornice che  divide le scene coincide con una delle colonne delle navate. Ne risulta un ambiente di un’ampiezza inaspettata per un pittore che agisce in una chiesina francescana in piena provincia piemontese. Stessa cosa accade nella capanna che ospita la Natività e l’Adorazione dei Magi. C’è un bisogno di andare ampio, di stare largo che è la cifra del grande Spanzotti. È un mondo dove c’è posto per tutti e non c’è bisogno di sgomitare.

Seconda sottolineatura. L’idea delle pareti affrescate con le scene della vita di Cristo è tipicamente francescana. Chi predicava aveva bisogno di rendere credibili le proprie parole con continui riferimenti figurati. A Milano esisteva la parete più bella di tutti, a Sant’Angelo, dipinta da chissà chi a fine 400 e distrutta intorno al 1530 perché la chiesa fuori le mura era diventata ricettacolo di nemici. Un viaggiatore francese di inizio 500 ne parla come della più bella cosa di Milano, Cenacolo (ancora in buono stato) compreso.

Terza sottolineatura.  Nella scena del paradiso, Spanzotti mette come sorveglianti i rappresentanti di tutti gli ordini domenicani esclusi. Ci sono benedettini, agostinani, antoniani, francescani. Mancano i domenicani. Il motivo la polemica sull’Immacolata concezione, che i francescani propugnavano e i doemicani osteggiavano. Una polemica feroce e senza mezzi termini.

Written by giuseppefrangi

Settembre 22nd, 2008 at 9:27 pm

Posted in antichi

Tagged with ,