Robe da chiodi

Lo sguardo ostile di Manet

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Manet, Boulogne, clair de lune, 1868

Manet, Boulogne, clair de lune, 1868

È impressionante l’energia che Manet libera nelle sale di palazzo Ducale. Una mostra scandita con grande chiarezza, allestita in modo sobrio, senza nessun inutile fronzolo.
Manet verrebbe da dire è al posto suo, assai più che non nell’abituale collocazione di gran parte di questi quadri al Musée d’Orsay (una collocazione che qui si capisce quanto gli sia geneticamente estranea). Non voglio dire affatto che Manet sia un pittore retrospettivo; al contrario, è di un oltranzismo che a volte mette quasi paura. Ma a Palazzo Ducale sta bene perché può rimarcare in modo inequivocabile, quasi draconiano, tutta la differenza con i suoi contemporanei, impressionisti in primis.
C’è un dato cromatico che timbra senza possibilità di smentita, l’identità pittorica di Manet: ed è il nero. La mostra di Venezia si svolge come una lunga carrellata di neri, usati nei modi a volte più arbitrari e a tratti anche violenti. Il nero di Manet non è un nero visionario, non ha mai doppi sensi, né echi simbolici; è sempre e solo una nota cromatica usata per una sorta di oltranzismo compositivo, per avvisare che il livello di lettura del quadro non è quello che presumevamo. Con il nero Manet sposta il campo da gioco della pittura. Dice ad esempio che la pittura, nel suo costituirsi materiale, può (anzi deve) essere del tutto indifferente al suo soggetto. È un nero aggressivo quello di Manet: lo si vede in quel meraviglioso quadro del porto di Boulogne sur mer sotto la luce della luna (1868), dove le sagome buie delle vele sembrano come dei tagli inferti alla tela. Lo si vede nel ritratto dei genitori, inchiostrato di un lampo buio, in questo caso funzionale alla cupezza rassegnata della loro condizione. Ma soprattutto è un nero tremendo quello del Bal masqué à l’Opéra (1872), piccola tela che dovendo rappresentare un momento di vita parigina felice e spensierata, invece sembra davvero mettere sotto assedio la tela. Ecco cosa significa che la pittura è indifferente al suo soggetto.

Il nero porta ad un’altra considerazione che può essere considerata anche consequenziale. Se la pittura di Manet è capace di una bellezza da togliere il fiato, ci si deve spiegare perché il suo effetto sia quasi respingente. A volte qualcosa che sfiora il repulsivo: non era semplicemente moralistica la notazione di alcuni suoi detrattori ai tempi dell’Olympia che lo accusavano di aver dipinto la donna con la carne di un morta. È un fatto palese che la costruzione dei quadri di Manet tagliano fuori chi li guarda: lo aveva sottolineato anche Foucault nelle sue lezioni. Il loro sguardo “ci salta”, nel senso o si rivolge a qualcosa che sta alle nostre spalle e di cui è impossibile prendere parte; oppure, se ci fissano, lo fanno con un’assoluta indifferenza, come ignorando il fatto che noi siamo lì davanti a loro. Noi siamo estranei ai quadri di Manet, che anche quando deve concedere qualcosa al gusto dei suoi collezionisti, dipingendo nature morte (infatti dopo il 70, con meno ansie sulla vendita dei quadri, le nature morte si diradano), offre insieme ai fiori trionfalmente belli, infila, gratuitamente, anche l’arnese che li ha recisi. Sono scelte bellicose, di cui ti rendi conto solo quando il quadro ti ha ormai conquistato. E resta l’imbarazzo di cosa volesse dire e indicare Manet con quelle forbici o coltelli. La cosa si fa esplicita nella Natura morta con anguilla e triglia (1864), dove il coltellaccio non se sta affatto appartato, ma incombe minaccioso. E sembra aver già mollato fendenti, provocando così quelle ombre brutali sulla tovaglia.

La sensazione è insomma che Manet ci sia ostile, a dispetto della estrema piacevolezza (apparente) di come dipinge. È una sensazione che corrisponde alla realtà? E se sì, come spiegarla? Una spiegazione ce l’ho, e meriterebbe un approfondimento vero. Mi limito a farne un accenno. Manet è il primo a fare i conti con il “non senso” del dipingere. Dipinge, perché gli vien talmente facile che non può esimersi. Ma non chiedetegli che senso abbia dipingere, perché non avrebbe risposta. Manet è anche il primo che davanti alla tela non vede più un luogo, un rettangolo, dentro cui costruire una visione. Le regole che reggevano da secoli, a iniziare da lui non funzionano più. Oltretutto è cambiato anche la dinamica economica dell’essere artista: non c’è più nessuno che ti dice che cosa dipingere (il committente) ma c’è là fuori tutto un mondo che aspetta che tu dipinga. Il che cosa devi deciderlo tu. E dentro questa libertà le cose o si banalizzano o si fanno maledettamente complicate. Manet lo sa. Sa che lo spazio rappresentato dentro la tela è un’illusione che non tiene più (oltretutto c’è chi lo fa molto meglio e con minor fatica, la fotografia). E che se l’immagine – o la cosa – prodotta su quel rettangolo non è più una rappresentazione che qualcuno guarda, quel rettangolo deve entrare nell’ordine di idee di “vivere” indipendentemente dal fatto che qualche sguardo gli si posi sopra. Deve essere autonomo dal nostro sguardo. E siccome a guidare la mano di Manet è innanzitutto la pittura (nel senso che è come acqua che scende dalle montagne e alimenta i fiumi, il lago, il mare: e chi la ferma?), è la pittura che capovolge se stessa, diventando da meravigliosa, repulsiva. E quindi, dopo averlo attratto, fa calare la saracinesca tra il nostro sguardo e lei.

Manet non fa nessuna resistenza, anzi in quello spazio ambivalente si trova assolutamente a suo agio. Perché intuisce cosa possa essere la pittura una volta che la pittura non ha più forza di bucare il rettangolo, che misura il limite non eludibile di quella superficie piatta, e quindi non è più in grado di offrire visioni credibili a chi guarda. La pittura può essere qualcosa che vive di se stessa, che esiste anche se ci sfugge. Che vive senza essere guardata. Per quel che ci riguarda diventa una cosa che più la indaghi e meno la vedi. Che più ti attrae più si nasconde.

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Luglio 2nd, 2013 at 9:02 pm

Lucca/2. Il Cristo pop di Berlinghieri

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Rapida visita mattutina alle chiese di Lucca. A parte la sorpresa per la bellezza di Matteo Civitali, il genius loci, resto un bel po’ a testa in su davanti alla facciata di San Frediano. Un mosaico enorme, clamoroso come uno stendardo che sventola sui tetti della città, abbagliante per la luce del sole. Lo assegnano alla bottega di Berlinghieri (morto a Luca nel 1235) e rappresenta Cristo nella mandorla, portato in alto da due angeli lievi, ma dalle dimensioni titaniche. In basso, la carrellata dei dodici apostoli a figura intera, messi tutti in riga, ma quanto mai agitati nelle pose e nei gesti. Pensavo che nella sua posizione e nella sua costruzione è un’immagine spavalda; come una manifesto di certezze. Non certezze imposte ma certezze vissute, verificate, condivise. Pensavo anche che è un’immagine che ha l’energia potente e persuasiva della semplicità. In questo è un’immagine assolutamente pop. Andy Warhol a vederla sarebbe impazzito di gioia. E forse anche d’invidia.

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Giugno 18th, 2013 at 5:19 pm

Lucca/1. Il Cristo vivente di Testori

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A Lucca, per vedere Passione, lo spettacolo che Daniela Nicosia ha tratto da Passio Letitiae et Felicitatis di Testori, con i fratelli Crippa, Maddalena e Giovanni in scena. Uno spettacolo straordinario, con un’intelaiatura chiara e un ritmo senza sbavature, che esaltano i picchi di drammaticità e di commozione. La croce è l’epicentro in ogni senso dello spettacolo: è il luogo attorno a cui i due protagonisti ruotano per i 90 minuti in cui sono scena (lo si capisce appieno alla fine, quando la grande croce viene innalzata). Ed è anche l’immagine a cui è legato il momento più folgorante del testo. Felicita guardando il crocefisso della Cappella di Barni lo vede diventar vivo. Mi viene da credere che quelle righe siano l’espressione di ciò che ogni artista desidera nel momento in cui si mette all’opera:
«…sarà stata la lux o luse del sole ‘gonizzante per di dietro le montagne, che vi scarligava sopra e lo faseva parere di una dolcezza mai in de prima veduta; sarà stato che quella medesima lux o luse dava alla carna statuaria la tenerezza d’una carna viventa o viva fin a pochissimi minuti prima che dervisse le labbra et spirasse la sua anima in del grembo del Dio padre; sarà stato che l’istessa lux o luse faseva parer liquido e ‘me sortito all’istante il colare del sangue giù per la corona, i cavelli, la fronte e tutta la faccia; sarà stata la ‘bondanza immensa de quel sangue…»

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Giugno 18th, 2013 at 5:16 pm

Modigliani e l’occhio di dentro

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Modigliani, Ritratto di Leopold Zborowski

Modigliani, Ritratto di Leopold Zborowski

Giovedì visita alla mostra di Modigliani. Non tanto per vedere la mostra ma per gettare uno sguardo sulla triade Utrillo, Modigliani, Soutine (la mostra è un po’ farraginosa nel suo insieme, con un carico di artisti minori che aggiungono davvero poco: meglio sarebbe stato sviluppare anche didatticamente le sezioni dei tre protagonisti; ad esempio avrei portato, magari isolandoli i due Mosigliani stupendi delle raccolte milanesi, molto utili per capire e completare il contesto) . Tutt’e tre praticamente coetanei (1884 il livornese, 1883 gli altri due), tutt’e tre borderline che di più non si può, tutt’e tre disallineati e indifferenti rispetto alle grandi correnti che come scriveva Anna Achmatova, amica di Modì, stavano facendo ribollire il secolo. Ma mentre la biografia incide nel corpo della pittura di Utrillo e Soutine, non così si può dire di Modigliani. La folle irrazionalità che ne contraddistinse la vita, resta ai margini dlele tele, non intacca la sua pittura. Quindi per guardare Modigliani bisogna dimenticare l’infinita aneddottica cresciuta sulla sua figura di deracinés. (abbondantemente coltivata invece nel catalogo della mostra; un catalogo in cui mancando le schede dei quadri, mancano quelle informazioni essenziali che sarebbe giusto e più utile trovare. Ad esempio chi era quel “Lapoutre” – riportato senza neanche nome di battesimo – ritratto da Modì? Ovviamo alla dimenticanza: era Constant Lapoutre un corniciaio che lo aveva anche sostenuto). L’equazione Modì-maudit è da prendere con le pinze.
Tornando al tema dei ritratti, aveva scritto bene Alberto Boatto: «L’unico individuo che vi traspare veramente è sempre solo Modigliani. Nell’Europa uscita distrutta dalla guerra, questo ebreo toscano parigino intende affermare sommessamente che esiste ancora un’aristocrazia dello spirito, affiancata da un’aristocrazia del libero artista». L’aristocrazia di Modigliani passa attraverso la sintesi suprema e insieme assolutamente moderna della linea, come fosse un Pollajolo redivivo. Una linea che ha acquisito anche una energia architettonica, grazie al duro e stupendo noviziato nella scultura (tra le prime cose che Modì espone a Parigi sono sette sculture al Salon d’Automne del 1912). Non a caso Lionello Venturi aveva disegnato un arco della pittura italiana, titolando un suo libro “da Caravaggio a Modigliani”. Insomma siamo completamente dentro l’alveo di una tradizione, che accetta però di confrontarsi senza timori con gli spiriti della modernità. Scrive Venturi: «Questo ritorno alla linea come conduttrice di uno stile è la novità di Modigliani rispetto al gusto dei suoi contemporanei. Si è detto che nel fare ciò si è ispirato ai grandi primitivi italiani, dai Lorenzetti ai Botticelli. Non si può escludere: ma è certo che l’effetto della di Modigliani è tutto diverso da quello della linea antica, proprio perché la soluzione delle esigenze contrastanti è ignota agli antichi maestri. Una volta padrone della sua linea Modigliani crea la serie dei suoi capolavori».
Dentro questo possesso della linea, ovviamente c’è spazio sia per il meraviglioso sguardo incantato sul corpo umano (l’allungamento è adeguamento al senso di vertigine conferito dalla bellezza), sia per lampi profondi ma controllati di inquietudine: è negli occhi che quest’inquietudine s’innesta, pervadendo la pittura senza per altro minarne bellezze e certezza. Notavo che i ritratti in cui Modigliani dipinge gli occhi, rischia di essere più banale, sembra addirittura fisicamente restringersi. Quando invece li cancella, l’immagine sembra dilatarsi con il suo carico di struggimento e di mistero. Gli occhi cancellati sono due fessure verso l’interno non verso l’interno: occhi che si guardano dentro. Ma in quello che è forse il suo capolavoro (per me), il Ritratto di Paul Guillaume, esposto a 100 metri da Palazzo Reale, nel Museo del 900, un occhio c’è e l’altro è vuoto. Quando Guillaume gliene chiese la ragione Modigliani rispose così: «Perché con un occhio guardi il mondo e con l’altro guardi te stesso». Cosa si veda guardando se stessi è la grande questione che Modigliani lascia sospesa, e non sai se sia una spada di Damocle sul destino o non forse una grazia inattesa…

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Giugno 4th, 2013 at 4:50 pm

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Piccola lezione sulla fotografia con Vincenzo Castella

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Vincenzo Castella, Certosa di Pavia, la facciata

Vincenzo Castella, Certosa di Pavia, la facciata

Serata in casa di Vincenzo Castella, napoletano a Milano. È interessante dialogare con lui, perché non conosco fotografo che sappia altrettanto sviluppare ragionamenti. Non a caso nella presentazione della mostra madrilena che si apre sabato 25 (galleria Fucares), scrive «There are no stories to be told but, maybe, discourses to be structured». Strutturare discorsi attraverso le immagini. E ancora: «Photography is its empiric/ investigative/ dubitative character». La fotografia come qualcosa che non appartiene a chi la fa, che svela quel che chi la fa non vede; nella fotografia non è l’occhio che agisce ma la luce che colpisce il materiale sensibile. Racconta Castella: c’è chi ha voluto infilarsi dentro la scatola, per vedere l’istante che nessuno vede, quando l’immagine della realtà entra a disegnare la pellicola. Dopo di che, dice sempre Castella, si va allo “sviluppo”, che è un inglesismo (quindi inficiato di positivismo anglosassone) sostitutivo di una termine francese molto più aderente a quel che in quell’istante accade: lo sviluppatore è “le revelateur”. L’immagine si svela. Aggiunge Castella: fateci caso, tra i pionieri della fotografia c’è una buona dose di massoni (Niepce e Fox Talbot). Questo non gli interessa, perché l’alchimia è una favola (non c’è nulla di esoterico nella sua idea di fotografia: «Therefore, the position of my camera is always: ordinary, shared, mediated, inclusive and often, well visible»).
Non accetta compromessi con il digitale, perché il digitale è il tentativo di chi fa la foto di riprenderne possesso, al punto di poterla poi gestire e trasformare in post produzione. Lo spezzettamento dei pixel è il tentativo di governare il processo dell’immagine. Ma a questo punto non siamo più nella fotografia: il bianco non è più figlio della luce (che passa per il processo del negativo, quindi del nero), ma è solo quello della carta.
Gli chiedo se il processo della fotografia, che va oltre lo spettro dell’occhio, non sia alla radice del tentativo cubista. Mi dice di sì, ma fa una notazione che credo preziosa come poche: il cubismo era figlio di una stagione in cui funzionava ancora l’energia dei simboli. Oggi siamo in un’altra stagione: quella della “metafora”. Mi sembra una chiave perfetta per inquadrare il momento che vive l’arte del terzo millennio. Per questo, tornando alle straordinarie foto del suo lavoro sulle chiese del Rinascimento, lui non è andato in cerca dei simboli, ma è planato sul “pattern” visivo delle superfici rinascimentali. Scrive, sempre nella nota per la mostra madrilena: «I’ve been aiming at an equidistant point among sculpture, painting and dust».

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Maggio 22nd, 2013 at 5:38 pm

Cosa svela la croce di Giotto vista da dietro

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Vincenzo Castella, La Croce di Giotto a Santa Maria Novella

Vincenzo Castella, La Croce di Giotto a Santa Maria Novella

A proposito di quel diceva Bacon, della Crocifissione come “un’armatura”, armatura tanto collaudata da non essercene una uguale, ecco l’armatura a cui si attaccò Giotto. L’immagine straordinaria è di Vincenzo Castella e fa parte della mostra che il fotografo napoletano ha presentato alla chiesa di san Lupo a Bergamo. Si tratta del retro della Croce di Santa Maria Novella, ritagliata nel meraviglioso “pattern” (per usare parola cara a Castella) gotico delle volte e della navata: la geometria risoluta della croce esce ulteriormente rafforzata nel rapporto con le geometrie correnti degli archi. Si capisce cosa Bacon intendesse: la Croce è una struttura salda, che attraversa il tempo, la sola a cui potersi attaccare nel momento in cui c’è da esprimere un vertice di dolore o di sentimento. E fa strano pensare che per esprimere qualcosa che documenta la disintegrazione di un corpo ci si debba appoggiare a una forma che al contrario garantisce solidità formale. Lo si può dire di Bacon, ma anche di Giotto: immaginandolo davanti a queste tavole saldamente incrociate, mentre lo attende quello iato da superare. È lo iato grande che separa quelle forme dall’esperienza di drammatica impotenza che vi deve essere rappresentata sopra. Per ogni grande artista credo sia un’esperienza drammatica, un’esperienza ultimamente di abbandono. Davvero un passaggio per l’Orto del Getzemani.
Ovviamente c’è da ringraziare Castella per tutto ciò che questa immagine, nascondendo, svela.

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Maggio 10th, 2013 at 5:36 pm

La trappola di Bacon

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Francis Bacon, Three studies for figures at the base of a Crucifixion, 1941, particolare

Francis Bacon, Three studies for figures at the base of a Crucifixion, 1941, particolare



«Nel mio caso è davvero questione di riuscire a piazzare una trappola con la quale poter catturare il fatto nel suo momento più vitale».
Lo dice Francis Bacon, una frase che ho citato ieri per presentare il settimo incontro del ciclo sul 900.
È una frase in cui Bacon porta allo scoperto il dispositivo delle sue tele, e lo porta allo scoperto dimostrando una lucidità impressionante: tutto l’impianto del quadro è una “trappola”, che deve scattare per bloccare quei pezzi di pittura/vita che costituiscono sempre l’epicentro e la ragion d’essere essere della sua pittura. Il suo compito da artista è quello di allestire quel contesto neutro, quasi indifferente al fatto convulsivo che invece è atteso. Perché la trappola scatti infatti occorre che non ci siano elementi da destare sospetti nella “vittima”. Tutto deve essere controllato, ordinato e normale. Lui lo spiega anche così: «…si tenta di operare quella costruzione tramite la quale questa cosa sarà catturata cruda e viva e poi lasciata lì e infine fossilizzata».
La metafora è coerente: la trappola serve per catturare. E il momento della cattura è l’unico che non si può prevedere, che arriva quando vuole lui non quando il pittore decide. E il momento della cattura è anche un momento cieco, in cui la mano perde il controllo, in cui il dispositivo messo in campo procede quasi per un automatismo. Bacon dice insistentemente che a quel punto è il caso che governa il farsi del quadro, e c’è da credergli. Quando la trappola scatta nei suoi quadri succede qualcosa che oltrepassa il progetto, che trasforma la pittura in un’entità contigua alla vita; una contiguità che ha risvolti così radicali da apparire terrificanti. Sempre B. ha detto : «Non si vuole forse che una cosa si avvicini il più possibile al dato reale e al tempo stesso sia profondamente capace di suggestioni o di schiudere aree del sentire invece che limitarsi a una semplice illustrazione dell’oggetto che si intende rappresentare? Non è questo in fondo il senso dell’arte?»
(fuor di metafora: la croce, che per Bacon è “l’armatura” «alla quale appoggiare ogni espressione di sentimenti o di sensazioni», è la “trappola”. Un’“armatura” così collaudata dalla storia che, dice lui, non ce n’è un’altra altrettanto efficace. Sarebbe interessante guardare la pittura del passato con la stessa ottica. Ne verrebbero tante sorprese).

Da leggere, un articolo di Maria Teresa Maiocchi, psicanalista lacaniana, che ha affrontato Bacon nel percorso su Rovesciare il 900.

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Aprile 30th, 2013 at 2:34 pm

Manet a Venezia, fantastici confronti

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ManetTiziano
Oggi inaugura la mostra che si prospetta come la più importante del 2013. Manet e l’Italia, a Venezia, frutto del lavoro febbrile di Gabriella Belli (qui il sito della mostra). I prestiti sono eccezionali, a cominciare dall’Olympia. Ma quello che più intriga è la riflessione sul “venezianismo” di Manet. Ci sarà da riflettere, ma certamente a Venezia Manet trova quella pittura scaricata dalla responsabilità ossessiva del disegno che gli permette di fare il balzo. La pittura liberata diventa pittura che parla di se stessa. Il confronto con la Venere di Urbino è fantastico nel rendere visibile il balzo manettiano. Notate come la parete di fondo del quadro di Manet sia allineata visivamente con la parete su cui il quadro stesso è appeso (il colore scelto per l’allestimento agevola questa sensazione di continuità). Il quadro di Manet è tutto di qui, dalla parte dove siamo noi, mentre Tiziano è in fuga dentro lo spazio scavato nella tela. Forse lo scandalo manettiano sta proprio qui: la prostituta Olympia invade, o con questo “svergogna”, lo spazio di chi guarda. È caduta quell’intercapedine protettiva. Ne riparleremo. Intanto ecco un altro fantastico confronto proposto a Venezia: lo Zola da Manet con il Ritratto di Gentiluomo di Lotto dell’Accademia. Il discorso fatto sopra torna anche qui…
Su Manet anche questo pensiero recente.

ManetLotto

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Aprile 24th, 2013 at 8:16 am

Pollock non dipinge carta da parati

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Sesto appuntamento del percorso su Rovesciare il 900. Molto interessante e serrata la lezione di Riccardo Venturi su Pollock e Clement Greenberg. C’è un indicativo ritorno di temi in questo percorso: un secolo in cui cambia lo statuto del dipingere e si scopre come le esperienze più diverse abbiano tanti punti in comune, quanto meno come dati di partenza. Venturi spiega bene come per tutti venga meno il “dramma” della tela pensata come scatola spaziale in cui innestare una costruzione visiva. La tela ora è solo bidimensionale, quindi o si ha la forza di innescare un dramma sulla superficie piatta, o non resta che la decorazione. Con Pollock la linea di demarcazione si fa esile: può essere letto in una direzione o nell’altra. Ma Greenberg, che pur non risparmia le sue perplessità, tralasciando di parlare ad esempio del murales fatto per la Guggenheim, alla fine lo riabilita completamente. Dice che il suo dripping non è figlio di Jung e dell’inconscio liberato. O meglio che al fondo del suo inconscio c’è il deposito della tradizione. Lui è figlio di quella. Scrive Greenberg: «Con sottili variazioni entro una minima illusione di profondità Pollock riesce a iniettare unità drammatica e pittorica in motivi di colore, forma e linea che altrimenti sembrerebbero ripetitivi come in una carta da parati». E ancora: «Pollock aveva una consapevolezza del suo lavoro molto superiore a quella della maggior parte degli artisti». Sul dripping: «Pollock imparò a controllare la vernice gettata e lasciata sgocciolare quasi come controllava un pennello; se la casualità aveva un qualche ruolo era quello di una casualità felice e ben controllata come accade con qualsiasi pittore che tenga conto degli effetti di una rapida esecuzione».
Resta aperta la questione dei dipinti “all over”, cioè integrali perché il loro motivo può teoricamente ripetersi anche oltre la superficie della tela. Monet aveva risolto la questione a modo suo, con una circolarità (nelle Ninfee all’Orangerie) che non ha un inizio e una fine. Pollock invece alla fine accetta la convenzione dei confini della tela: ma questo patteggiamento è quello che dà energia e compressione ai suoi dipinti. Evita lo slabbramento della decorazione. Anche da questo si capisce quanto la tradizione e non il generico inconscio sia la leva decisiva del suo dipingere.

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Aprile 22nd, 2013 at 9:43 pm

Giorgio Morandi sulle strisce pedonali

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Bellissima lezione di Flavio Fergonzi su Morandi per il corso Rovesciare il 900. È stato un approccio da autentico rovesciamento, che allontana la pittura di Morandi dall’approccio naturalistico o architettonico (nel senso della costruzione “astratta” del quadro) che gli viene attribuito. Con Morandi invece accade una sorta di spostamento linguistico, nel senso che cambia lo statuto del quadro: Morandi “dipinge la pittura”, ha detto Fergonzi, nel senso che i soggetti nella loro immobilità e ripetitività diventano strumenti non di una rarefatta rappresentazione ma di una riflessione sulla natura stessa del quadro. A proposito, Fergonzi ha raccontato un episodio datato inizio 1960. Manlio Cancogni era venuto a Bologna per un’intervista da pubblicare sull’Espresso. Terminata la quale, insieme a Morandi era uscito per fare un giro per Bologna. Erano anni di grandi trasformazioni, e le città si adattavano sempre di più alle necessità del traffico automobilistico. Ad esempio comparivano le prime strisce pedonali: vedendo degli operai intenti a dipingerle ad un incrocio, Morandi se ne uscì con questa battuta rivelatrice: «Finiremo a dipingere così noi pittori». C’era ironia e un po’ di disprezzo in quella sua battuta. Ma Morandi ci prendeva: Frank Stella in quegli stessi anni dipingeva i quadri a strisce regolari. Schifano metteva su tela il nero dell’asfalto con il bianco segmentato dello spartitraffico. E lui? Lui, Morandi su un piano più sofisticato, stava muovendosi nella stessa direzione. Nell’apparente immobilità c’è un continuo slittamento linguistico. Forme calme dipinte con pennellate drammatiche; pennellate che a loro volta nel disporsi sulla tela disegnano linee in contrasto con quello che chiederebbe una logica rappresentazione degli oggetti. Spiega Fergonzi: «La stesura dei piani cromatici non segue, inoltre, l’ordine tradizionale (partire dallo sfondo per concludersi col primo piano) ma uno inverso, con lo sfondo dipinto alla fine: Morandi aumenta in questo modo il carattere di sospesa atemporalità della natura morta». Siamo decisamente lontani da ogni prospettiva naturalistica: Morandi lavora infatti sul secondo livello, quello della stesura della pittura. Si inventa una pittura di superifcie, affermando quella grande conquista dell’autonomia della superficie. La superficie era indicazione di qualcosa, con cui Morandi ha fatto i conti prima di tutti del tutto appartato.

Written by gfrangi

Aprile 18th, 2013 at 9:21 pm