È impressionante l’energia che Manet libera nelle sale di palazzo Ducale. Una mostra scandita con grande chiarezza, allestita in modo sobrio, senza nessun inutile fronzolo.
Manet verrebbe da dire è al posto suo, assai più che non nell’abituale collocazione di gran parte di questi quadri al Musée d’Orsay (una collocazione che qui si capisce quanto gli sia geneticamente estranea). Non voglio dire affatto che Manet sia un pittore retrospettivo; al contrario, è di un oltranzismo che a volte mette quasi paura. Ma a Palazzo Ducale sta bene perché può rimarcare in modo inequivocabile, quasi draconiano, tutta la differenza con i suoi contemporanei, impressionisti in primis.
C’è un dato cromatico che timbra senza possibilità di smentita, l’identità pittorica di Manet: ed è il nero. La mostra di Venezia si svolge come una lunga carrellata di neri, usati nei modi a volte più arbitrari e a tratti anche violenti. Il nero di Manet non è un nero visionario, non ha mai doppi sensi, né echi simbolici; è sempre e solo una nota cromatica usata per una sorta di oltranzismo compositivo, per avvisare che il livello di lettura del quadro non è quello che presumevamo. Con il nero Manet sposta il campo da gioco della pittura. Dice ad esempio che la pittura, nel suo costituirsi materiale, può (anzi deve) essere del tutto indifferente al suo soggetto. È un nero aggressivo quello di Manet: lo si vede in quel meraviglioso quadro del porto di Boulogne sur mer sotto la luce della luna (1868), dove le sagome buie delle vele sembrano come dei tagli inferti alla tela. Lo si vede nel ritratto dei genitori, inchiostrato di un lampo buio, in questo caso funzionale alla cupezza rassegnata della loro condizione. Ma soprattutto è un nero tremendo quello del Bal masqué à l’Opéra (1872), piccola tela che dovendo rappresentare un momento di vita parigina felice e spensierata, invece sembra davvero mettere sotto assedio la tela. Ecco cosa significa che la pittura è indifferente al suo soggetto.
Il nero porta ad un’altra considerazione che può essere considerata anche consequenziale. Se la pittura di Manet è capace di una bellezza da togliere il fiato, ci si deve spiegare perché il suo effetto sia quasi respingente. A volte qualcosa che sfiora il repulsivo: non era semplicemente moralistica la notazione di alcuni suoi detrattori ai tempi dell’Olympia che lo accusavano di aver dipinto la donna con la carne di un morta. È un fatto palese che la costruzione dei quadri di Manet tagliano fuori chi li guarda: lo aveva sottolineato anche Foucault nelle sue lezioni. Il loro sguardo “ci salta”, nel senso o si rivolge a qualcosa che sta alle nostre spalle e di cui è impossibile prendere parte; oppure, se ci fissano, lo fanno con un’assoluta indifferenza, come ignorando il fatto che noi siamo lì davanti a loro. Noi siamo estranei ai quadri di Manet, che anche quando deve concedere qualcosa al gusto dei suoi collezionisti, dipingendo nature morte (infatti dopo il 70, con meno ansie sulla vendita dei quadri, le nature morte si diradano), offre insieme ai fiori trionfalmente belli, infila, gratuitamente, anche l’arnese che li ha recisi. Sono scelte bellicose, di cui ti rendi conto solo quando il quadro ti ha ormai conquistato. E resta l’imbarazzo di cosa volesse dire e indicare Manet con quelle forbici o coltelli. La cosa si fa esplicita nella Natura morta con anguilla e triglia (1864), dove il coltellaccio non se sta affatto appartato, ma incombe minaccioso. E sembra aver già mollato fendenti, provocando così quelle ombre brutali sulla tovaglia.
La sensazione è insomma che Manet ci sia ostile, a dispetto della estrema piacevolezza (apparente) di come dipinge. È una sensazione che corrisponde alla realtà? E se sì, come spiegarla? Una spiegazione ce l’ho, e meriterebbe un approfondimento vero. Mi limito a farne un accenno. Manet è il primo a fare i conti con il “non senso” del dipingere. Dipinge, perché gli vien talmente facile che non può esimersi. Ma non chiedetegli che senso abbia dipingere, perché non avrebbe risposta. Manet è anche il primo che davanti alla tela non vede più un luogo, un rettangolo, dentro cui costruire una visione. Le regole che reggevano da secoli, a iniziare da lui non funzionano più. Oltretutto è cambiato anche la dinamica economica dell’essere artista: non c’è più nessuno che ti dice che cosa dipingere (il committente) ma c’è là fuori tutto un mondo che aspetta che tu dipinga. Il che cosa devi deciderlo tu. E dentro questa libertà le cose o si banalizzano o si fanno maledettamente complicate. Manet lo sa. Sa che lo spazio rappresentato dentro la tela è un’illusione che non tiene più (oltretutto c’è chi lo fa molto meglio e con minor fatica, la fotografia). E che se l’immagine – o la cosa – prodotta su quel rettangolo non è più una rappresentazione che qualcuno guarda, quel rettangolo deve entrare nell’ordine di idee di “vivere” indipendentemente dal fatto che qualche sguardo gli si posi sopra. Deve essere autonomo dal nostro sguardo. E siccome a guidare la mano di Manet è innanzitutto la pittura (nel senso che è come acqua che scende dalle montagne e alimenta i fiumi, il lago, il mare: e chi la ferma?), è la pittura che capovolge se stessa, diventando da meravigliosa, repulsiva. E quindi, dopo averlo attratto, fa calare la saracinesca tra il nostro sguardo e lei.
Manet non fa nessuna resistenza, anzi in quello spazio ambivalente si trova assolutamente a suo agio. Perché intuisce cosa possa essere la pittura una volta che la pittura non ha più forza di bucare il rettangolo, che misura il limite non eludibile di quella superficie piatta, e quindi non è più in grado di offrire visioni credibili a chi guarda. La pittura può essere qualcosa che vive di se stessa, che esiste anche se ci sfugge. Che vive senza essere guardata. Per quel che ci riguarda diventa una cosa che più la indaghi e meno la vedi. Che più ti attrae più si nasconde.