Iniziava (nella sigla) con un richiamo ad un’opera famosa di Maurizio Cattelan The Young Pope di Sorrentino. Un Cattelan (quello della Nona ora) animato, perché la scultura è “completata” con la caduta del meteorite che arriva a colpire papa Wojtyla. Un inizio tra scanzonato e choc, per un film che senza darla troppo ad intendere alla fine prende terribilmente sul serio quell’opera-metafora. In sostanza: neanche papa Wojtyla con il suo esercizio di potenza mediatica e con la sua autorevolezza planetaria sarebbe riuscito a restituire una ragion d’essere alla chiesa davanti agli occhi degli uomini di questo tempo. Una chiesa costretta ad esercizi di autoccupazione per darsi la certezza di esistere. Si chiede allora Sorrentino, che papa potrebbe riuscire nell’impresa? Di qui l’invenzione della figura di un pontefice assolutamente improbabile. Che entra in scena quasi per un errore della storia, un americano che prende il nome di Pio XIII, la cui ipotesi di lavoro è quella di tornare a rinchiudersi dentro la roccaforte del passato, vista la distanza incolmabile con la modernità. Pio XIII azzera la mediaticità di cui GPII si era servito per di colmare quella distanza. Azzera in realtà anche l’attenzione sociale, la visione della chiesa a “porte aperte” che è invece la forza e la novità di Papa Francesco. Si chiude nel recinto, non per difendersi, ma essere fedele a se stesso. Eppure nell’improbabilità di questa figura poco alla volta si fanno largo elementi che riaprono un’apparenza di relazione con il mondo. Pio XIII non nasce papa ma matura questo suo destino passo dopo passo, facendo i conti con tutti i buchi neri della sua storia personale (emblematica nell’ultima puntata la scelta consapevole di prendere un segretario omosessuale: se te lo chiedo, gli fa capire Pio XIII, è perché anch’io sto cambiando). In questo suo non essere papa a priori, ma di diventarlo senza fare sconti alle proprie inquietudini, c’è qualcosa che lo riporta dentro il nostro tempo e che soprattutto gli restituisce un’imprevista libertà. Il film di Sorrentino (un grande film, non c’è dubbio) non guarda e non giudica il cattolicesimo da fuori, ma lo segue e cerca di capirlo da dentro. Da dentro i suoi dubbi, le sue paure, le sue incertezze. Allo stesso modo, in fondo, anche l’opera di Cattelan non era affatto un’opera ostile. Era un pensiero libero e drammatico sull’ardito conpito di essere papa nei tempi moderni.
(Ma bisogna ricordare che chi era arrivato per primo a metter a tema il grande dramma dell’essere papa oggi, senza infingimenti e senza buone maniere, era stato Francis Bacon…)
Cattelan, Sorrentino e il destino dei papi
Brera, un passo incauto su Caravaggio
Alcuni ragionamenti sulla questione della versione della Giuditta presunta di Caravaggio a Brera.
Il quadro viene presentato in occasione del nuovo allestimento della Cena di Emmaus, giustamente riportata in posizione frontale rispetto al percorso del museo e non più di spalle come accadeva sino ad ora. La presenza della Giuditta è motivata (come pure le repliche delle Maddalene) dalla coincidenza di cronologia, attestata dalle fonti. Anche la presenza delle copie delle Maddalene è motivata da questa coincidenza cronologica indicata dalle fonti. La cosa però non viene segnalata nell’apparato di testi in mostra, che invece sono dominati dalla preoccupazione di giustificare il senso dell’operazione, mettendo in rilievo il valore del lavoro attribuzionistico.
Il quadro è presentato, com’è noto, come Caravaggio (la perizia del quadro era stata fatta da Nicola Spinosa, che è anche curatore della mostra di Brera) per condizione posta dal prestatore, che è un mercante e titolare di casa d’asta parigino, Eric Torquin. La cosa ha creato una serie di situazioni d’imbarazzo a catena, a partire dall’asterisco con cui Brera giustifica la sua posizione. Altra cosa un po’ anomala: al prestatore viene concesso un saluto istituzionale ad inizio catalogo, quasi come co-promotore della mostra (cosa per altro concessa anche agli altri tre prestatori).
La Giuditta è presentata a fianco della copia sino ad ora attribuita a Finson, nelle raccolte di IntesaSanPaolo a Napoli. Com’è documentato Finson è l’artista con cui entrò subito in contatto Caravaggio appena arrivato a Napoli nel 1606, colui che avrebbe portato in Olanda sia il capolavoro della Madonna del Rosario (rimasto invenduto alla partenza di Caravaggio per Malta nel 1607 o forse rifiutato dalla committenza), sia la seconda versione della Giuditta. Se come la maggior parte degli studiosi sembra propenso a credere, la Giuditta trovata in Francia è copia da riferire a Finson, questo significa che viene automaticamente declassata anche l’opera di IntesaSanPaolo, di qualità evidentemente molto inferiore. «D’altra parte Ferdinando Bologna ha ipotizzato che l’opera di Napoli vada assegnata al cosiddetto “Maestro dell’Emmaus di Pau” (per lo studioso da identificare forse con lo stesso Vinck), pur mantenendo fermo il carattere di copia dal perdutoCaravaggio. Non si ritrovano tuttavia nella tela che si espone quei caratteri»: sulle relazioni di Finson con Caravaggio rimando agli studi di Cristina Terzaghi, importanti per capire quanto la società di Finson con l’amico Vinck fu importante nella diffusione del caravaggismo a nord.
L’altro quadro che era girato tra le mani del duo Finson e Vinck era la Crocifissione di Sant’Andrea oggi a Cleveland: ma mettere in relazione la vecchia sotto la croce con Abra, la vecchia che accompagna Giuditta, sembra un po’ ardito. In mostra si è poi aggiunto anche il Sansone e Dalila, altra tela di finson proveniete da Marsiglia, la cui brutalità sopra le righe richiama i toni della Giuditta ritrovata. Ma sono solo impressioni…
Le epifanie di Andrea Di Marco
Una mostra bellissima vista a Milano. Sotto il titolo di “Dialogo non intercorso” la Galleria Giovanni Bonelli ha costruito un percorso che mette in parallelo Andrea Di Marco, artista di Palermo morto prematuramente nel 2013, e Luigi Ghirri. I due come dice il titolo non hanno avuto relazioni, e se Di Marco ha certamente visto Ghirri, non può essere stato viceversa. Angela Madesani ha montato dei rapporti di immagini molto serrati, per cui il dialogo riesce a decollare soprattutto in alcuni casi. Ma più che altro mi sembra che il gioco funzioni per far capire come le immagini di Di Marco tengano per equilibri, per istintiva poesia compositiva con quelle di Ghirri. Ma poi Di Marco viaggia benissimo in autonomia, con quello sguardo puro che contrassegna la sua pittura. La sua è pittura bagnata da una luce che è certamente luce tersa del sud, ma è anche luce figlia di una pulizia mentale. C’è una schiettezza di pennellata che richiama Guttuso, ma Di Marco ha addosso un’ansia come si attendesse dalla pittura qualcosa di più, come un’epifania del reale. Le placche di bianco che contraddistinguono e illuminano ogni sua tela sono il timbro di questa attesa.
Il terremoto e la storia dell’arte
Questo articolo di Alessandro Delpriori, sindaco di Matelica e sotrico dell’arte, è uscito su Il Manifesto il 31 ottobre. Lo pubblico qui perché è la dimostra quale profonda forza civile abbia in dote la storia dell’arte.
di Alessandro Delpriori
Nel 1977 uscì il primo Manuale del Territorio della Regione Umbria, un progetto ambizioso che doveva descrivere in maniera capillare il patrimonio materiale e immateriale dell’intera Regione. Era dedicato alla Valnerina. Esattamente la porzione di Italia che in questi giorni, nuovamente, è tornato alla ribalta per il violento sciame sismico che l’ha distrutta.
Quel volume descriveva una enorme quantità di materiale allora semisconosciuto ma che solo sfogliando le pagine si intuiva essere di qualità spesso sorprendente.
Negli stessi anni Giovanni Previtali andava studiando la sua «Umbria alla sinistra del Tevere» in cui, partendo dalle aperture sulle aree minori di Roberto Longhi, sintetizzava figure critiche sconosciute come il Maestro della Santa Caterina Gualino o il Maestro della Croce di Visso. Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg nella storia dell’arte Einaudi, studiando il rapporto tra centro e periferia prendevano ad esempio proprio la Valnerina come regione cerniera e laboratorio per un linguaggio artistico specifico e singolare.
C’era allora un entusiasmo particolare nello studiare le valli alle pendici del Monte Vettore, ricche di un patrimonio straordinario per quantità e, a volte, per qualità. Oggi tutto questo rischia di non esserci più. Il crollo della Basilica di San Benedetto a Norcia è il segno più eloquente di un disastro che potrebbe avere dimensioni inimmaginabili. C’è da chiedersi se saranno recuperabili le pale d’altare di quella chiesa, il Filippo Napoletano o anche il piccolo Michelangelo Carducci, pittore manierista figlio dell’esperienza romana ultimo erede di una dinastia nursina di artisti, gli Sparapane, che lavorò almeno dalla metà del Quattrocento.
Il Cristo di Giovanni Teutonico, da poco celebrato in una splendida monografia di Sara Cavatorti, conservato nella chiesa di Santa Maria Argentea, i marmi di Duquesnoy, la pala del Pomarancio, saranno mai recuperabili?
La lista potrebbe essere davvero infinita. Tutta quella zona d’Italia che da Spoleto risale lo scorrere del Nera fino alle Marche e, scavalcando il Vettore, va verso il mare seguendo la Salaria e la Flaminia è una zona sostanzialmente omogenea culturalmente, dove a partire dal XII secolo si sintetizza un linguaggio peculiare e identitario. A partire da Alberto Sotio il linearismo tutto superficiale delle pitture romaniche che sembrano discendere dalla scultura borgognona, si pone come uno dei vertici più alti dell’arte in Italia e crea una sacca di resistenza alle novità toscane, come Giunta Pisano ad Assisi, che resiste fino all’arrivo di Cimabue e Giotto nella stessa Basilica di San Francesco. Il Trecento si apre con artisti che declinano quelle novità in caratteri tutti personali e che concepiscono la spazialità e la narrazione ma che ricercano l’emozione e il dialogo espressivo con lo spettatore, tanto che si trovano enormi calvari affrescati con tonanti rappresentazioni della morte di Cristo. È anche il caso della chiesa di San Salvatore a Campi di Norcia, chiesa di una poesia infinita, una doppia navata foderata di affreschi e che presentava ancora conservati tramezzi e pontile, a descrivere l’allestimento della chiesa medievale. Mercoledì sera si è sventrata totalmente.
Quando Roberto Longhi pensava al Rinascimento umbratile si riferiva in particolar modo al Quattrocento di queste valli, dove Bartolomeo di Tommaso, folignate, ma anconetano di adozione, costruiva uno stile a metà tra la bellezza di Gentile da Fabriano e le prime attrazioni della «pittura di luce». Sintomatico di tutto il XV secolo è il famoso documento del 1442, pubblicato da un ricercatore instancabile e raffinato, Romano Cordella, che descrive lo stesso pittore di Foligno a capo di una brigata, che comprendeva Nicola di Ulisse da Siena, Andrea de Litio, Lorenzo di Luca Alemanno e Giambono di Corrado, impegnata a decorare la chiesa di Sant’Agostino e che troviamo attiva anche a Santa Scolastica. È l’inizio di una storia nuova che già negli anni venti Van Marle aveva chiamato Norcia Style e che oggi rischia di essere cancellata quasi nella sua totalità. Parallelamente, nelle Marche più profonde si compiva la parabola di un pittore delicatissimo e spesso commovente, Paolo da Visso, allievo forse dello stesso Bartolomeo di Tommaso che ha decorato la collegiata del suo paese, oggi al centro di un paese in ginocchio, completamente a rischio crollo.
Negli stessi anni, dall’altra parte dell’Appennino, a Camerino, fiorisce l’esperienza straordinaria dei pittori della corte dei Da Varano, Giovanni Boccati e Giovanni Angelo d’Antonio portano dentro il cuore della Marca la cultura prospettica che avevano potuto vedere a Firenze e a Padova. Affreschi, tavole e polittici sono oggi in pericolo. Sono l’alternativa alla grandiosa civiltà del polittico di Carlo Crivelli. Allo stesso modo Luca di Paolo da Matelica e Lorenzo d’Alessandro da San Severino, nei musei e nelle chiese di quelle città testimoniano la propaggine più bella e più tarda della grandissima onda gotica che informa in un Rinascimento alternativo tutto l’Appennino.
Sarebbe da verificare lo stato della piccola e meravigliosa Madonna di Carpineto in cui un allievo camerinese di Donatello, Battista di Barnaba, ha lasciato un rilievo di terracotta che solo da poco era stato scoperto, studiato e restaurato.
Un viaggio tra le Marche e l’Umbria alla ricerca di opere d’arte può stupire anche per le presenze esterne. È una fortuna che i due Valentin de Boulogne di Santa Maria in Via a Camerino siano migrati temporaneamente al Metropolitan Museum per la stupenda mostra monografica su questo caravaggista francese, ma saranno da capire le condizioni della pala di Giacinto Gimignani nella stessa chiesa. Lo stesso vale per i due Crocifissi lignei di Benedetto da Maiano ad Ancarano di Norcia e a Todiano di Preci, due minuscoli castelli della Val Castoriana, una remotissima sottovalle del Nera che ospita in maniera inaspettata una lunga serie di opere fiorentine. Le due sculture sono in compagnia di Francesco Furini, di Giovanni del Biondo, di Francesco di Simone Ferrucci e di molte altro ancora.
Nel 1979 la terra tremò, nel 1997 lo fece di nuovo e tutto questo patrimonio fu in qualche modo riscoperto e salvato, oggi è la risorsa più grande di tutta la grande area geografica e metterlo in salvo significa non solo tutelare il passato, ma anche e soprattutto garantire un futuro.
*storico dell’arte e sindaco di Matelica, colpita dal sisma
Nuovi pensieri sulla pittura
Un pensiero di Per Kirkeby, letto alla bellissima mostra del Museo di Mendrisio
«Verso la fine degli anni Settanta ho deciso di diventare un pittore serio, un grande pittore, e non lo dico in senso ironico. Lo pensavo davvero. Avevo dedicato tanti anni alla sperimentazione, al minimalismo, è molto altro. Con tutte quelle esperienze al mi attivo, volevo lanciarmi nella frazione di grandi, folli coraggiosi dipinti. Spesso ho avuto la sensazione che con l’aiuto della pittura, riesco veramente a vedere il mondo in tutta la sua realtà. In genere il mondo sta davanti a noi come nascosto da un velo. È questa cortina è costituita dalla lingua,. Diciamo “ecco un albero”. In realtà quello che abbiamo di fronte è un albero molto particolare. Ma ci sono attimi in cui riusciamo a vedere con una chiarezza incredibile che quello è un albero, una cosa particolarissima. Il termine “albero” non corrisponde affatto all’albero che abbiamo di fronte».
Da un’intervista ad Achille Bonito Oliva (di Domenico Gnoli su Repubblica)
Cosa vuoi dire?
«Fino al Rinascimento l’artista si predisponeva frontalmente rispetto ai valori, con il Manierismo diventa una figura laterale. È come se guardasse la scena del mondo senza la necessità di intervenire. Traditore è chi non accetta il mondo che osserva, vorrebbe modificarlo. Ma alla fine non fa niente, non agisce. Resta nella sua riserva mentale»
E questa roba ti è servita per progettare la Transavanguardia?
«C’è una continuità. La Transavanguardia è stata il superamento edipico delle avanguardie che hanno sempre avuto il bisogno di uccidere il padre»
Tu al massimo avresti soppresso lo zio.
«No, la violenza è il linguaggio del Novecento. Diceva Argan che il Novecento era passato dagli oggetti ai concetti”.
Lo pensi anche tu?
“Negli anni Settanta l’oggetto artistico scompare e prevalgono le forme di pensiero. La Transavanguardia propone il recupero dell’oggetto e del soggetto artistico»
Con un occhio al passato?
«Non solo un occhio. L’attenzione fu alla memoria storica di un Paese come il nostro, memoria che non ha eguali al mondo, e che contribuì in modo determinante al successo internazionale della Transavanguardia “.
Come hai vissuto quel successo?
«I meccanismi mediatici diedero enorme visibilità al gruppo e al critico che lo aveva teorizzato. Il successo l’ho vissuto con naturalezza».
A un certo punto hai proclamato: “La Transavanguardia c’est moi”. Te la sei intestata in un momento di delirio?
«No, no. Diciamo un richiamo ironico a Flaubert».
I tuoi artisti come hanno reagito? E a proposito come li hai scelti?
«Li ho scelti sulla base delle loro spiccate individualità. Hanno inventato un certo linguaggio pittorico. Per me invece è stata una sintonia con il nostro e il loro tempo. Volevo capovolgere l’idea che l’artista fosse un genio incompreso».
Vuoi ricordare i loro nomi?
«Francesco Clemente, Sandro Chia, Maurizio Cucchi, Mimmo Paladino, Nicola De Maria. Furono loro gli artefici del movimento. Io ho solo creato una famiglia di artisti che non sono parenti. Erano gli anni in cui dominava l’Io assembleare, l’ideologia del noi. La Transavanguardia mostrò attenzione all’Io dei singoli».
Da un’intervista a Frank Stella (La lettura, a cura di Vincenzo Trione)
«Ho confessato, solo a me stesso, che vorrei essere il miglior pittore italiano dell’epoca di Tiepolo».
«Che senso avrebbe rifare nuovamente la pittura come è stata fatta per secoli? Ma non mi piace la parola reinventare: si è già abbastanza fortunato se si reinventa qualcosa. Conta solo quello che si fa, quel che si impara è quel che ciò implica. E si va avanti. La pittura? Una superficie piana con strati di vernice: niente di più. Le sculture? Dipinti che si sorreggono per conto proprio»
«L’ho ripetuto tante volte: l’attrazione può significare tante cose. Può, in un certo senso, raccontare una storia. Anche se, alla fine, è una storia pittorica».
La prima bomba di Masaccio
Da più di dieci anni non venivo da queste parti. E dieci anni fa il trittico 1422 di Masaccio era custodito nell’abisidiola sinistra della pieve di San Pietro a Reggello. Dal 2007 gli hanno costruito attorno un piccolo museo: sono il visitatore 34.341. La porta è ancora chiusa. Chiamo al cellulare che è indicato e mi viene aprire don Ottavio Failli, il parroco. Di questo “suo“ Masaccio sa tutto. Mi racconta. Allunga le mani per indicarmi i dettagli (il polittico è protetto da un vetro). L’allarme suona a raffica… Gli piace l’idea che questo sia davvero il primo Masaccio. Più che un quadro, una bomba esplosa nel mondo dell’arte. «Deve aver fatto l’effetto di una bomba atomica», dice. In effetti quel trono di scorcio, ha i braccioli che disegnano un arco rovesciato che sembra largo come un viadotto. Lo spazio non è semplicemente bucato, è conquistato a mano armata. Il trono sconfina sino a sbattere lo spigolo contro il limite della tavola e apre uno spazio davvero generoso per accogliere la Madonna. Dettaglio imprevedibile, il disco dell’aureola ha un motivo di chiara impronta islamica: la scritta non è stata decifrata, ma indica certamente che le relazioni erano buone e redditizie. Il Bambino pesa, e quanto pesa… è di una solidità quasi fosse di carne e di pietra. È un piccolo gigante, tutto d’un pezzo, a cui l’innocenza non evita una certa qual terribilità. S’infila due dita in bocca per assaggiare l’acino di uva, e si potrebbe misurare di quanto sono entrate…
A destra tra i santi solo Giovenale regge il confronto psicologico con quel Bambino. Ha una rudezza senza incertezze e sembra pronto a prendere a testate quello spazio troppo esiguo in cui si trova rinchiuso. Tiene in mano un quaderno manoscritto con il Salmo 110: ed è la perizia calligrafica ad aver dato la conferma che davvero di Masaccio si tratta (stessa scrittura della dichiarazione al catasto del 1427).
Il Trittico di San Giovenale è piccolo, per certi aspetti ancora arcaico, tenero in tanti dettagli, con un’apparenza quasi innocua. Eppure è da qui che partì un domino destinato a provocare un vero terremoto… un terremoto che ha una data precisa: 23 aprile 1422 (alla base del trono).
Detto questo, che meraviglia scoprire che da angoli di piccola e isolatissima Italia possano emergere forme e immagini destinati a scuotere le fondamenta… Questa è la straordinaria anomalia italiana.
Ai Weiwei, il simbolo di questi nostri anni
Volenti o nolenti Ai Weiwei è l’artista simbolo di questi anni. Lo dimostra la mostra curata da Artutro Galansino è aperta in questi giorni a Palazzo Strozzi. Una mostra impeccabile, completa, che nella sua ossessione per una pulizia formale dal punto di vista allestiti o riesce anche ad emozionare (impressiona il silenzio con cui le persone visitano la mostra).
Perché Ai Weiwei può essere ritenuto artista simbolo? Provo a rispondere. Innanzitutto per quanto sia “personaggio”, lui si muove in una dimensione collettiva. Le sue opere sembrano sempre nate più da un noi, che ogni volta muta, che da un io. È un artista in perenne relazione con “altri”. È questa relazione è il fondamento di ogni sua creazione artistica. È artista sociale, sulla scia di Joseph Beuys: l’opera non è nell’oggetto ma nella coscienza che determina in chi la vede. In questo è anche un artista molto empatico, che sa tramettere conoscenze attraverso le emozioni. «È diventato una cosa simbolica essere artista», dice. «Seguendo Duchamp mi sono reso conto che essere un artista è più uno stile di vita è un atteggiamento che non la produzione di qualche oggetto».
Ai Weiwei poi è un artista che gioca allo scoperto. È in un certo senso perennemente collegato con il mondo. Racconta tutto di se stesso. È artista pubblico per antonomasia. Si sa sempre tutto di lui. E anche nelle opere molto warholianamente sono tutte in superficie. Hanno significati che è facile scoprire e anche memorizzare (prendete le opere realizzate dopo il terremoto di Sichuan che causò stragi di bambini per le scuole mal costruite).
Per questo Weiwei è una artista tutto esposto sul presente (la tradizione, dice, è un punto di partenza per compiere un gesto nuovo). Il titolo dell’installazione con i gommoni appesi sulla facciata di Palazzo Strozzi è emblematico: “Reframe”. Il passato ha bisogno di una nuova cornice, che parli all’oggi. Una cornice che rispetti le misure della tradizione ma che apra finestre sul presente.
Sono tutti fattori che rendono sempre molto “umane” le sue opere. Si avverte che il suo operare artistico è sempre mosso da una grande simpatia verso i propri simili. Ed è questa simpatia che lo induce ad essere sempre così “social”. La simpatia è qualcosa che va oltre la denuncia. Se ha appeso i gommoni da salvataggio sulle facciate di Palazzo Strozzi lo ha fatto non per «una provocazione ma per un invito ad un altro modo di sentire l’umanità». Questa è una dimensione che si “respira” in ogni sua opera, che diventa la sua ragion d’essere.
C’è teatralità, c’è scaltrezza, c’è una straordinaria abilità sartoriale nei suoi lavori. Ma alla fine quello che resta è soprattutto un segno umano, semplice, che è difficile dimenticare. Poi si possono fare tutte le obiezioni del mondo su di lui, ma è difficile negare che Ai Weiwei ci abbia considerati tutti ogni volta un po’ suoi “fratelli”.
Ps: Ai Weiwei è architetto. E lo si vede da come ha allestito questa mostra, che esalta come non è mai accaduto gli spazi meravigliosi di Palazzo Strozzi. Si può dire che si vedono due mostre in una: Ai Weiwei e gli interni del palazzo.
Lugano, il caso scuola della Via Crucis su rotaia
A Lugano nell’ambito di uno degli atelier dell’Accademia di Architettura, quello condotto da Riccardo Blumer, gli studenti sono stati chiamati a realizzare una Via Crucis “su rotaia”: le stazioni infatti sono state posizionate sul percorso della funicolare in disuso che parte al fianco della chiesa di Santa Maria degli Angioli. L’esperimento funziona per tanti motivi: la scalinata ripida che corre parallela ai binari permette di seguire il percorso con una salita che richiama quella tradizionale dei Sacri Monti, quindi proponendo una corrispondenza anche topografica con la tradizione. In secondo luogo, il concept prevedeva la realizzazione di strutture in legno come “cappelle”; la loro funzione non era solo quella di far da contenitori, ma anche espressiva: il disegno progettuale di ciascuna è parte costitutiva del contenuto di ogni singola stazione. In terzo luogo la chiesa contigua è quella che custodisce lo stupendo tramezzo affrescato da Bernardino Luini, con una grande Crocifissione che sullo sfondo lascia spazio al racconto della passione e della via Crucis. In questo modo i 14 studenti – casualmente il numero coincide con quello tradizionale delle stazioni della Via Crucis – hanno potuto attingere da quel patrimonio iconografico e poetico per immaginare il loro lavoro. L’aspetto esemplare di questa esperienza sta proprio in questo rapporto rivitalizzato con il patrimonio del passato. Gli affreschi del Luini infatti vengono richiamati in tutte le 14 stazioni, sotto forma di riproduzioni di dettagli, senza nessun obbligo di rispettare la scala dimensionale. Le “cappelle” quindi si presentano come strutture in legno dal disegno molto contemporaneo, che integrano spezzoni di immagini di Luini, in un dialogo che “mette in scena” il tema della stazione.
L’approccio è stato filologicamente molto serio, supportato da lezioni di storia dell’arte e di iconografia (tra l’altro ha collaborato Giovanni Agosti, che aveva realizzato a Palazzo Reale di Milano una grande mostra sul Luini). Ma poi ai ragazzi è stata lasciata una grande libertà. Il percorso trova così la sua unità nel materiale, il legno, e negli spezzoni di immagini, quelle dell’affresco di Luini; per il resto ognuno ha potuto progettare, mettendo in campo la propria sensibilità.
Sono tanti i “plus” di un’esperienza come questa. È un esempio di riuso di una struttura urbana situata in una zona molto importante e sostanzialmente dimenticata: la funicolare portava all’Hotel Bristol è ferma dal 1986. Salendo lungo la scalinata tra l’altro si apre uno stupendo panorama sulla città e sul lago (questo è un merito del direttore della Divisione eventi e congressi della Città di Lugano Claudio Chiapparino). C’è poi l’aspetto religioso, perché la Via Crucis su rotaia rappresenta un tentativo riuscito di aggiornare un gesto importante della nostra tradizione. Il sacro torna a “mischiarsi” con la vita della città.
In realtà le 14 stazioni sono anche un’interpretazione libera che i ragazzi hanno fatto, pur restando dentro l’alveo della narrazione della Passione (ad esempio una stazione è dedicata alla Maddalena, un’altra al diavolo). Forse l’esperimento sarebbe stato ancor più incisivo se gli studenti fossero stati “costretti” a stare fedeli alla scansione canonica e tradizionale delle 14 stazioni. Non è un caso che le stazioni che funzionano meglio (come quella del Cristo Portacroce realizzata da Piero Graziani, nella foto sopra), siano quelle che con più semplicità aderiscono alle tappe della Via Crucis.
Comunque è un tentativo molto bello, coinvolgente e riuscito di gettare uno sguardo (e uno spirito) contemporanei su una commovente eredità del nostro passato.
A proposito di Michelangelo (del piccolo Michelangelo)
Non è di “quel” Michelangelo che voglio parlare, ma di questo Michelangelo. Non di quel gigante, ma di questo piccolino. La foto gliel’ha scattata suo papà Matteo, marito di Carolina, mia figlia, qualche minuto dopo che era nato. Domenica 21 agosto alle 20,54, garantisce l’ora di whatsapp. Non so perché ma da quando mi è arrivata sul cellulare mi trovo spesso a guardare e a pensare a questa immagine. Ha qualcosa che travalica anche il motivo bellissimo per cui è stata scattata: la felicità dei nuovi genitori di far vedere il loro figlio. Sono i dettagli che colpiscono e che vanno “oltre”. Michelangelo il piccolo ha già gli occhi aperti. Sono anche un po’ umidi, come per il luccicore di una commozione che è visceralmente connaturata al vivere. Non solo: guarda anche verso l’obiettivo del cellulare; sembra quasi cercare un altro sguardo, come a voler da subito stabilire un legame, oltre a quello stabilito con le mani dell’ostetrica. Nella tenerezza della sua fragilità sembra già guidato da un desiderio buono; buono ma già potente, che quasi sovrasta il pochissimo del suo corpo. È una foto che attiva una catena continua di pensieri. Il primo, il più banale e quasi infantile, è quello di provare a immaginare cosa vedono quei suoi occhi in quel primo minuto. Sapere se dopo il buio caldo dei nove mesi le prime briciole di luce fanno già breccia sulla retina. Se attivano il primo neurone della meraviglia. Mi viene da pensare a quale scia questo sguardo lascerà sulla vita che verrà. Quando e in che modo riaffiorerà…
C’è anche un po’ di spavento in Michelangelo. Naturalmente quello per il bing bang della nascita appena sperimentato. A cui è seguito il primo sporgersi alla vertigine della vita. È impressionante pensare di quale densità di esperienza siano fatti quei primi istanti… Sono i momenti in cui il destino si palesa con una pienezza forse irripetibile, senza che ci sia bisogno di capire (capire, cioè illudersi di “saperlo”, di possederlo). È un momento in cui, nel poco che si è, si avverte la carezza infinita del tutto. È un momento dì familiarità totale con chi ha voluto che lui, Michelangelo, fosse. Un tutto che riempie la vita; che fa trattenere il respiro: e lui sembra per un istante davvero tenerlo dentro, il respiro.
Mi viene poi da pensare che anche il grande Michelangelo è stato un giorno così piccolo (nell’immagine sotto, dettaglio del Tondo Pitti). Che ha vissuto anche lui tutto questo. Che nel tutto di quell’istante ci deve essere stato il tutto di quello che sarebbe stata la sua vita. Forse l’arte, quando arriva al punto, deve avere a che vedere con questo istante da cui siamo passati. È quasi un rinnovare la totalità di coscienza di quell’istante. Un nascere nella forma di un lasciar nascere. Uno sguardo gettato, ogni volta, per la prima volta sulla vertigine della vita. Uno sguardo che si abbandona a lasciar essere quello che non c’era. Forse è per questo si finisce per amare così tanto l’arte. A sentirne fisicamente bisogno. Almeno io.
Buona vita, piccolo Michelangelo.
Sobbalzi a Basilea, tra Giacometti e Picasso
In crisi di astinenza per via di un’estate un po’ stanziale, settimana scorsa ho preso la macchina e sono andato a Basilea a vedere l’ampliamento del Kunstmuseum appena inaugurato e firmato dallo studio Christ & Gantenbein. Un ampliamento molto enfatico, allineato a quella insistita retorica con cui si guarda all’arte contemporanea. Musei che sembrano un po’ dei templi, pur nell’indubbia qualità architettonica e delle rifiniture. All’interno ci sono cose stupende, come la prima sala dove Barnett Newman, Mark Rothko, Clifford Still e Franz Kline dialogano con tre opere tutte del 1957. Anno decisamente stregante per tutti. Li sfida tutti, nella sua piccolezza, la Piazza di Giacometti. Ovvero quel che resiste dell’Europa contro l’arrembante America. Più avanti due grandi Wharol con la serie degli incidenti stradali, una serie di Cy Twombly, tra cui lo strepitoso, delicatissimo Nini’s painting del 1971, dedicato a Maria Antonietta Pirandello, moglie del suo gallerista Plinio De Martis. Poi un vitalissimo Boetti (anche nel titolo: “Tutto”). È uno dei più bei Robert Ryman che abbia mai visto.
Al piano meno uno c’è una sala davvero meravigliosa dei due Becher, dove davvero si capisce il senso potente della loro serialità: la capacità di usare lo sguardo per cogliere le costanti nelle strutture industriali, che assurgono a qualcosa di umilmente monumentale nella loro reiterazione. Un modo diverso di guardare alla modernità, non come mito, né come potenza ma come pratica che assomma pazienza, saperi, e anche audacia, pur nella ripetitività.
Si chiude con un immenso salone in cui Frank Stella, Donald Judd e Sol Lewitt vengono trattati come se fossero Michelangelo. Qui la retorica, anche un po’ zoppicante, prende il decisamente il sopravvento.
Che dire al confronto con gli spazi serrati, così tradizionali in cui il 900 dà il suo straordinario spettacolo all’ultimo piano dell’edificio storico? Una sequenza di sale con continui soprassalti, che danno la misura della grandezza di un secolo, che non aveva bisogno di sforare le misure e di avere spazi para religiosi per mostrarsi. L’elenco è lungo, ma quel secondo piano del vecchio Kunstmuseum, nel suo insieme è davvero un’esperienza con pochi paragoni. È raro avere una percezione così continua e ravvicinata della potenza di cui gli uomini sono stati capaci nel reinventare le forme e il modo di guardare il mondo. È stato un secolo vorace il 900, insaziabile, e capace anche di una grandezza che nessuno aveva messo nel conto. Un secolo che non è il secolo passato.
Personalmente, quelle sale sono una vera esperienza di pienezza e di vastità, anche se gli spazi sono angusti e la sequenza delle sale non fa leva su nessuna teatralità architettonica. Un’esperienza fisica, di forme che suggeriscono a ripetizione visioni appassionanti sull’umano. Intuizioni visive nelle quali oggi ci troviamo immersi e che incontri nel momento del loro scaturire (Mondrian, Klee, Van Doesburg, Arp, Delaunay).
Un meraviglioso Giacometti, Portrait d’Annette en blouse jaune (1964), duella con la selvaggia Femme au chapeau assise dans un fauteuil di Picasso (1946). La prima penetra lo sguardo sin nelle fibre dell’infinito; uno sguardo che con pazienza, pennellata per pennellata, ha agguantato un suo “per sempre”. La seconda invece divarica la vita, come se Picasso l’avesse dipinta non con un pennello ma con un forcipe. È il volto della vita che si “spacca” nell’atto di dar vita ad altra vita.
È un’esperienza, un impatto umano vero, trovarsi faccia a faccia con due quadri così, messi a pochi metri uno dall’altro; due quadri che ti fanno sobbalzare tra due dimensioni opposte ma ugualmente vere dell’essere.
In alto, dettaglio di Picasso; sotto, dettaglio di Giacometti.