Robe da chiodi

Archive for the ‘antichi’ Category

Il compleanno di Caravaggio

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«Adi 30 fu batz.o Michel angelo f. de d. fermo merixio et d. Lutia de oratoribus / compare d. fran.co sessa»

Il 30 settembre del 1571 Michelangelo Merisi veniva battezzato nella chiesa di Santo Stefano in Brolo a Milano. Era nato il giorno prima, festa degli Arcangeli, e per questo venne chiamato da papà Fermo e mamma Lucia (la Lombardia è tutta nella persistenza di certi nomi!) Michelangelo. Chi vuole saperne di più della stupenda scoperta tra i registri della parrocchia fatta da un amatore appassionato (Vittorio Pirami), legga l’articolo di Marco Carminati uscito un paio di anni fa su Il Sole. Sopra, l’autoritratto di Caravaggio che mi piace di più: nella soldataglia della Cattura di Cristo del Museo di Dublino.

Written by giuseppefrangi

Settembre 30th, 2008 at 1:22 pm

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Bellini vs. Mantegna

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In un’intervista Giovanni Agosti, principe dei mantegnisti, ammette che per lui Bellini è più grande. I due, si sa, erano cognati avendo Mantegna sposato la sorella di Bellini, Nicolosia. E i due sono d’attualità per le due mostre in corso: Mantegna a Parigi, Bellini alle Scuderie del Quirinale. Il confronto, in effetti, è roba sulla quale si potrebbe scrivere un libro. Roba tra arte e psicoanalisi. Per capire il mondo di Bellini bastano le parole di Longhi nel Viatico (1946): «…accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia, e il manto della natura; accordo tra le masse umane prominenti e le nubi alte, lontane, e cariche di sogni narrati», e così via… (ma su Bellini l’aveva detta giusta anche Marco Boschini a metà ‘600: «Zambelin se puol dir la primavera… e senza lù l’arte in inverno giera»). Su Mantegna valgono gli aggettivi di Agosti: sdegnoso, eroico, di legnosa risoluzione, visionario, pittore di testa, classico moderno. In sintesi: “ne cherchez plus mon coeur”.

Sono due polarità opposte. Mantegna testardo, solitario, furente pur nella glacialità del suo archeologismo. Non sente ragioni né voci fuori da lui. L’arroccamento a Mantova sembra quasi un volersi togliere dal dovere di fastidiosi confronti. La mischia o le contaminazioni non sono cose per lui. Il suo è un orizzonte mentale, ma capace di una energia visiva impressionante.

Bellini è il rovescio. S’imbeve di tutto, senza per questo venir meno alla sua grandezza. È femmineo. È un ricettore senza complessi. È un grande che ha la coscienza di essere relativo. È internazionale senza togliere nulla alla sua provincialità. Da Bellini siamo tutti a casa. Con Mantegna siamo tutti su un ring. Da Bellini carezze, da Mantegna pugni. Bellini è la luce del tramonto. Mantegna ti bombarda con il suo un accecante riflettore mentale. Bellini è tenero come una guancia. Mantegna è come una scorza indurita dal corso dei millenni. Bellini è il fremito del presente, Mantegna ha incatenato il tempo. Bellini è collinare, Mantegna è tellurico…

Chi ne ha più ne metta… Sarebbe da farci un referendum: belliniano o mantegnesco?

Written by giuseppefrangi

Settembre 29th, 2008 at 12:21 am

Il vetro di Ivrea

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Ancora un appunto dal sabato eporediense. Un appunto ardito. Eppure c’è un’affinità tra la facciata dell’Ico di Figini-Pollini e la parete di Spanzotti. C’è una stessa dimestichezza con quell’aria semi alpina. Una stessa trasparenza poetica. Una stessa capacità di intercettare la luce senza mai esasperarla. Uno stesso amore per la regolarità, espressa nella geometria molto domestica dei quadrati. C’è quasi un’omogeneità tonale, perché tutt’e due stemperano la luce, Figini nella delicatezza tremolante del vetro, Spanzotti nei suoi interni tersi e rosati. Il filo conduttore, la lingua comune è quella di una poesia con un senso civico innato.

(Tommaso suggerisce un parallelo con la Van Nelle Factory di Rotterdam di Johannes Brinkman, 1925-31, quindi di dieci anni precedenti. Un’affinità nell’uso del vetro, che non taglia fuori ma crea rapporti tra il dentro e il fuori)

Written by giuseppefrangi

Settembre 24th, 2008 at 11:42 pm

Spanzotti a cinque navate

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Ivrea, 20 settembre. Visita al tramezzo di Spanzotti con Giovanni Romano. Sulla parete divisa in una trentina di riquadri, alcuni riquadri si accorpano in un contesto unico. Ultima Cena e Lavanda dei piedi sono ambientate in unico ambiente e la cornice che  divide le scene coincide con una delle colonne delle navate. Ne risulta un ambiente di un’ampiezza inaspettata per un pittore che agisce in una chiesina francescana in piena provincia piemontese. Stessa cosa accade nella capanna che ospita la Natività e l’Adorazione dei Magi. C’è un bisogno di andare ampio, di stare largo che è la cifra del grande Spanzotti. È un mondo dove c’è posto per tutti e non c’è bisogno di sgomitare.

Seconda sottolineatura. L’idea delle pareti affrescate con le scene della vita di Cristo è tipicamente francescana. Chi predicava aveva bisogno di rendere credibili le proprie parole con continui riferimenti figurati. A Milano esisteva la parete più bella di tutti, a Sant’Angelo, dipinta da chissà chi a fine 400 e distrutta intorno al 1530 perché la chiesa fuori le mura era diventata ricettacolo di nemici. Un viaggiatore francese di inizio 500 ne parla come della più bella cosa di Milano, Cenacolo (ancora in buono stato) compreso.

Terza sottolineatura.  Nella scena del paradiso, Spanzotti mette come sorveglianti i rappresentanti di tutti gli ordini domenicani esclusi. Ci sono benedettini, agostinani, antoniani, francescani. Mancano i domenicani. Il motivo la polemica sull’Immacolata concezione, che i francescani propugnavano e i doemicani osteggiavano. Una polemica feroce e senza mezzi termini.

Written by giuseppefrangi

Settembre 22nd, 2008 at 9:27 pm

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Il pulviscolo di Leonardo

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Il Cenacolo secondo Greenaway. Una lettura doppia azzeccata, a conferma dell’imprendibilità e dell’ambiguità suprema di Leonardo. Da una parte l’architettura drammatica, la struttura dell’attimo che segue la rivelazione del tradimento. La frustata di sconcerto. Una costruzione perfetta, tesa, paurosamente oscillante. Quasi una costruzione  “ad onda”. Dall’altra parte il sorvolo della superficie pittorica, la telecamera inghiottita, il precipizio cosmico che si spalanca sotto le particelle di pittura. L’energia della costruzione si dissolve. E riaffiora come pulviscolo condensato per una fragilissima casualità.

Written by giuseppefrangi

Settembre 8th, 2008 at 8:28 pm

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Courbet in marcia. O Courbet ad Emmaus

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Courbet a Montpellier, 22 agosto. Proprio nella terra di Bonjour monsieur Courbet. Il quadro è di una solarità spavalda. c’è il senso di un inizio, di un’epopea personale al via. Sottolineature: C. è l’uomo che cammina, l’uomo in marcia. Il suo orizzonte è il mondo, la sua mente segue. Secondo, l’aspetto epico è rafforzato dal’iconografia in fotocopia con i Discepoli di Emmaus. Con Courbet nelle parti del personaggio principale. Terzo: la forza dell’ombra. Solo C. ce l’ha. come rafforzativo del proprio destino, gli altri assistono, come in una penombra. Quarto: l’effetto cielo, terso, esatto, abbagliante. È una metafora della condizione psichica di C. Infine: da sotto in su. Che fa salire e monumentalizza la scena. È un’istantanea, ma nel senso che immortala l’istante. È transitoria per definizione, ma si cristallizza come concentrato di realtà.

Written by giuseppefrangi

Settembre 2nd, 2008 at 9:34 pm

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Ritratti, tremendi ritratti

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C’è Andrea Doria, dipinto dal Bronzino; c’è Federico da Montefeltro, dipinto da Giusto di Gant; c’è Federico III. Elettore di Sassonia, dipinto da Dürer; c’è Raffaello, che si è fatto il ritratto con a fianco il suo maestro di scherma; c’è Camilla Gonzaga, contessa di San Secondo, immortalata dal Parmigianino; c’è il profilo senza tempo che Piero della Francesca fece a Sigismondo Malatesta. L’elenco potrebbe continuare a lungo, perché la mostra del Ritratto nel rinascimento, in questi mesi al Prado (sino al 7 settembre; poi dal 15 ottobre alla National Gallery di Londra) è certamente una sfilata impressionante di capolavori. Ma è anche un incontro, un vis à vis con un’infinità di personaggi che hanno, poco o tanto, cambiato la storia.
Ricordo l’impressione ricevuta entrando a Palazzo Venezia, a Roma, in occasione della recente stupenda mostra di Sebastiano del Piombo. Nel grande salone dove erano stati raccolti i ritratti del grande pittore (tra gli altri spiccava anche lì un Andrea Doria), si aveva l’impressione prepotente di aver a che fare con uomini che tenevano il mondo nel pugno. Il ritratto nel Rinascimento aveva proprio questa funzione di rappresentazione non tanto di un ruolo quanto di una capacità di dominare la storia. Non era pensato a memoria dei posteri, era un’operazione pensata strategicamente per consolidare l’egemonia e la gloria presente. Così restava poco o nessuno spazio per l’intimismo e la psicologia; il ritratto non era mai un fatto privato, era un’operazione scopertamente pubblica. Tutti dovevano vedere, tutti dovevano sapere. Lo stesso Filippo II, con quel suo carattere ombroso e introverso, con quel volto un po’ troppo flaccido, passato attarverso il pennello e le tele di Tiziano si trasfigura in una sagoma inscalfibile, acquisice una saldezza che intimoriva e riempiva di meraviglia. Il ritratto, nel Rinascimento, è quindi una sorta di consacrazione.
Ma alla mostra di Madrid c’è un piccolo, straordinario capolavoro che sembra andare in controtendenza. E’ un gioiello arrivato da Bruges, dipinto dal più grande pittore fiammingo del 1400, Jan Van Eyck, e rappresenta la moglie dell’artista. Evidentemente si tratta di un quadro privato: la donna, Margaretha, guarda fissa “nell’obiettivo”, cioè negli occhi del marito che la sta dipingendo. Sembra che intrattenga con lui un dialogo esclusivo, che sguardi estreni non siano stati neppure messi nel conto. Ma è davvero così?
Margaretha in quel 1439 aveva 33 anni, anche se obiettivamente ne dimostra qualcuno di più. È vestita con eleganza un po’ troppo sontuosa per essere una ricca borghese delle fiorentissime Fiandre di quegli anni. Ha l’abito bordato di pelliccia, che era un requisito tipico della nobiltà. Tipico, ma evidentemente non più esclusivo. Quel che più colpisce l’occhio è però quell’elaboratissimo copricapo che Van Eyck dipinge con la minuzia implacabile di un miniatore. Tanta è la precisione che verrebbe la tentazione di guardare quei particolari attraverso un microscopio per sorprendere almeno qualche sbavatura. Se lo si osserva con attenzione, si scopre che l’arricciatura di quel velo è fatta di ben sette strati e che Van Eyck l’ha dipinto con una determinazione, quasi volesse ostentare un simbolo. Dovevano essere ben rari veli di quella ricchezza: così alla fine viene il dubbio che quel ritratto così intimo, abbia, come tutti gli altri capolavori che lo circondano nelle sale del Prado, un’identica funzione: rendere pubblico uno status conquistato. Il più grande pittore fiammingo non era più semplicemente un iscritto alla corporazione di un pur nobile mestiere. Era un mattatore del suo tempo. Un protagonista. Un borghese capace di guardare lontano e consapevole di avere il mondo ai suoi piedi. Per questo tutti dovevano guardare, contare e ammirare i stette veli del copricapo di sua moglie Margaretha.
Scritto per Monsieur

Written by giuseppefrangi

Luglio 1st, 2008 at 10:18 pm

Visione di Foppa

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Visita con Giovanni Agosti alla Cappella Portinari.

Legge Longhi, Quesiti caravaggeschi, i precedenti: «Il telaio matematico che i fiorentini ostentavano come idolo artistico è qui di nuovo quasi cancellato, e l’occhio, come fosse già nato nella nuova visione, trascorre empiricamente, per impressione, entro lo spazio naturalizzato e versa, per così dire, in un misticismo mondano, tutto appreso ai particolari della “trista aiuola”»

Un’altra intuizione: la ristrutturazione della cappella, ripulita da tutti i segngi seicenteschi come prova dello “stile Paolo VI”

Written by giuseppefrangi

Maggio 10th, 2008 at 9:11 pm

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Tiziano in arretrato

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Un quadro visto a Venezia, alla mostra dell’ultimo Tiziano, il mese scorso. Groviglio di braccia, tutte in azione. Braccia che artigliano. Decisamente il vecchio non ha pace, e non lascia in pace. La deriva dionisiaca si rivela fonte di illusioni. Sviluppa solo film di crudeltà. Il patetico Apollo, laddietro, sembra scoria di una stagione finita. Non c’è più spazio per dolcezze. Tutt’al più per un’insanabile, corrusca malinconia.

(Ma il capolavoro era messo a fianco dell’immensa Pietà dell’Accademia. Un delitto espositivo)

Written by giuseppefrangi

Maggio 6th, 2008 at 10:39 pm

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500 anni fa

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500 anni fa, in questi giorni, Michelangelo saliva sui ponteggi della Sistina per affrontare la volta. Poche parole rendono l’impresa e l’idea, come queste, ritrovate, di don Giussani.

«…Il nesso tra la parola corpo nel senso solito (identifica una certa sagoma) e l’uso della parola “corpo” nel senso di realtà di personalità compiuta dentro il suo possesso (la sua unità con tutto ciò che da esso nasce), la distinzione tra un uso e l’altro della parola corpo non è giudicabile secondo i parametri della nostra mentalità, perché secondo la nostra mentalità il corpo è quella sagoma. Ma tra i due sensi, quello più ricco, intenso e reale è il secondo. Perché quando Michelangelo produce il Mosé è cosa sua, è se stesso (…) Questo destino per cui la nostra personalità è creata, questo destino di maturazione, di dilatazione di un possesso universale per cui tutto l’universo diventa espressione di sé, insomma questa ricchezza dell’uso del vocabolo corpo implica una forza creativa; o sta all’origine dove uno è creato, oppure non riesce a stare in piedi».
Luigi Giussani, Una presenza che cambia (pag. 256)

Written by giuseppefrangi

Maggio 5th, 2008 at 12:30 pm

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