C’è Andrea Doria, dipinto dal Bronzino; c’è Federico da Montefeltro, dipinto da Giusto di Gant; c’è Federico III. Elettore di Sassonia, dipinto da Dürer; c’è Raffaello, che si è fatto il ritratto con a fianco il suo maestro di scherma; c’è Camilla Gonzaga, contessa di San Secondo, immortalata dal Parmigianino; c’è il profilo senza tempo che Piero della Francesca fece a Sigismondo Malatesta. L’elenco potrebbe continuare a lungo, perché la mostra del Ritratto nel rinascimento, in questi mesi al Prado (sino al 7 settembre; poi dal 15 ottobre alla National Gallery di Londra) è certamente una sfilata impressionante di capolavori. Ma è anche un incontro, un vis à vis con un’infinità di personaggi che hanno, poco o tanto, cambiato la storia.
Ricordo l’impressione ricevuta entrando a Palazzo Venezia, a Roma, in occasione della recente stupenda mostra di Sebastiano del Piombo. Nel grande salone dove erano stati raccolti i ritratti del grande pittore (tra gli altri spiccava anche lì un Andrea Doria), si aveva l’impressione prepotente di aver a che fare con uomini che tenevano il mondo nel pugno. Il ritratto nel Rinascimento aveva proprio questa funzione di rappresentazione non tanto di un ruolo quanto di una capacità di dominare la storia. Non era pensato a memoria dei posteri, era un’operazione pensata strategicamente per consolidare l’egemonia e la gloria presente. Così restava poco o nessuno spazio per l’intimismo e la psicologia; il ritratto non era mai un fatto privato, era un’operazione scopertamente pubblica. Tutti dovevano vedere, tutti dovevano sapere. Lo stesso Filippo II, con quel suo carattere ombroso e introverso, con quel volto un po’ troppo flaccido, passato attarverso il pennello e le tele di Tiziano si trasfigura in una sagoma inscalfibile, acquisice una saldezza che intimoriva e riempiva di meraviglia. Il ritratto, nel Rinascimento, è quindi una sorta di consacrazione.
Ma alla mostra di Madrid c’è un piccolo, straordinario capolavoro che sembra andare in controtendenza. E’ un gioiello arrivato da Bruges, dipinto dal più grande pittore fiammingo del 1400, Jan Van Eyck, e rappresenta la moglie dell’artista. Evidentemente si tratta di un quadro privato: la donna, Margaretha, guarda fissa “nell’obiettivo”, cioè negli occhi del marito che la sta dipingendo. Sembra che intrattenga con lui un dialogo esclusivo, che sguardi estreni non siano stati neppure messi nel conto. Ma è davvero così?
Margaretha in quel 1439 aveva 33 anni, anche se obiettivamente ne dimostra qualcuno di più. È vestita con eleganza un po’ troppo sontuosa per essere una ricca borghese delle fiorentissime Fiandre di quegli anni. Ha l’abito bordato di pelliccia, che era un requisito tipico della nobiltà. Tipico, ma evidentemente non più esclusivo. Quel che più colpisce l’occhio è però quell’elaboratissimo copricapo che Van Eyck dipinge con la minuzia implacabile di un miniatore. Tanta è la precisione che verrebbe la tentazione di guardare quei particolari attraverso un microscopio per sorprendere almeno qualche sbavatura. Se lo si osserva con attenzione, si scopre che l’arricciatura di quel velo è fatta di ben sette strati e che Van Eyck l’ha dipinto con una determinazione, quasi volesse ostentare un simbolo. Dovevano essere ben rari veli di quella ricchezza: così alla fine viene il dubbio che quel ritratto così intimo, abbia, come tutti gli altri capolavori che lo circondano nelle sale del Prado, un’identica funzione: rendere pubblico uno status conquistato. Il più grande pittore fiammingo non era più semplicemente un iscritto alla corporazione di un pur nobile mestiere. Era un mattatore del suo tempo. Un protagonista. Un borghese capace di guardare lontano e consapevole di avere il mondo ai suoi piedi. Per questo tutti dovevano guardare, contare e ammirare i stette veli del copricapo di sua moglie Margaretha.
Scritto per Monsieur