Robe da chiodi

Archive for the ‘antichi’ Category

Il capolavoro cooperativo di Treviglio

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Visita guidata da Simone Facchinetti al Polittico di Treviglio, per l’Associazione Testori, sabato 22 novembre.

Una volta nella vita bisogna vederlo il Polittico “cooperativo” di Treviglio (1485 circa). Butinone e Zenale, i due Bernardini, lavorano a quattro mani e oggi per la critica districare le parti di ciascuno è diventato un gioco pressoché irrisolvibile. Cosa ha fatto uno e cosa l’altro? Meglio arrendersi, davanti alla tenuta e al “flusso continuo” dell’insieme. La struttura del Polittico è quella della facciata di un palazzo, con tanto di riminiscenze classiche, come il timpano in alto o i medaglioni monocromi nelle lesene. Che fosse la «più lucida struttura spaziale» della seconda metà del 400 in Lombardia lo aveva già detto Longhi nel 1958: sotto un grande spazio porticato, con tanto di archi in fuga; sopra, al primo piano stanze non alte ma dolcemente sontuose con affaccio a balcone sui devoti (cioè noi). Il prodigio sta nel tenere insieme questa lucidità che sente già di Bramante, con il fragoroso rullare degli ori. È una lucidità che non espugna il sentimento, anzi lo struttura. Il soffitto a cassonetti al primo piano, contro il quale quasi vanno stamparsi le teste dei santi, è una meraviglia di invenzione spaziale, che si afferma sul filo di quegli ori quasi arrembanti. È tutto un doppio passo, quello largo del palazzo nelle sue armonie e nella sua dolce enfasi, e quello stretto dei santi che vanno a occupare tutta l’aria a disposizione.
Poi c’è il particolare – un’idea pre manettiana – dei balconi con le «roste in ferro battuto» (Longhi). Perché lo spazio conserva comunque una persistenza gotica, un che di precipitoso, quasi che i santi, che pure svettano, eleganti e teneri, potessero cadere di sotto.

Written by giuseppefrangi

Novembre 24th, 2008 at 7:59 am

Le pagelle di Jean Clair

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«Tutto dipende dalla qualità. Attualmente a Parigi la mostra di Mantegna è di grande valore, mentre quella su Picasso e i maestri, concepita come un “prodotto” di lusso, come un blockbuster, non porta nessun contributo». Lo dice Jean Clair in un’intervista a Il Giornale. Condivido.

Written by giuseppefrangi

Novembre 20th, 2008 at 3:26 pm

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Bellini, carne e pane

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bellini31Ho contato 23 quadri di Madonne con il Bambino alla mostra di Bellini a Roma alle Scuderie del Quirinale. 23 su 62 opere esposte. In tutto ne ha dipinte più di una cinquantina. L’arte non è questione di numeri, ma in questo caso è difficile non pensare che i numeri non abbiano invece a che fare con l’arte. Una tale frequentazione ha portato Bellini ad avere una tale familiarità con il tema, da lasciar stupiti e commossi ogni volta. La ripetizione infatti non produce stereotipi. E questo è un dato che deve far pensare.

Se si guardano con attenzione queste infinite varianti, si possono notare alcune costanti. La prima è che la Madonna sembra sempre porgere il Bambino, tant’è vero che alcune traslitterano direttamente nella scena della Presentazione al Tempio senza dover cambiare posa. Ogni volta c’è poi il gioco delle mani, che proprio per quanto detto qui sopra, è sempre un gioco delicatissimo: sono mani che proteggono, ma non trattengono. Che toccano il Bambino quasi solo sfiorandolo. Mani amorose e insieme adoranti. Mani trepidanti, ma senza darlo a vedere. Sono mani piene di cautele, consapevoli di quel che stanno toccando. Protettive ma affatto escludenti. La terza costante di questa lunga serie bellinana è il corpo del Bambino. Tantissime volte nudo. Sempre di una tenerezza che non è fuori luogo definire di “un altro mondo”. Se Dio si è fatto carne, Bellini sembra aver avuto il privilegio di sentire il calore di quella carne («per lo cui caldo…», Dante, Paradiso XXXIII). Il privilegio di esserne accarezzato dal fiato. Per questo non teorizza ma testimonia con la sua pittura. La sua è pittura che si fonde con quella certezza percepita, incontrata, riconosciuta. Pittura che si fa carne, allo stesso modo del farsi del pane (“pane disceso dal cielo”, Gv 6,51). Bellini non si sovrappone mai con le sue intuizioni intellettuali. Si lascia ogni volta prendere per mano. In questo è davvero inarrivabile.

La mostra di Roma (ci tornerò) è bella soprattutto per questa straordinaria serialità. Un appunto: Mauro Lucco, il curatore,  nella sua furiosa (e a volte persin divertente) vis antilonghiana, accusa Longhi di aver attribuito a Bellini una matrice neobizantina. Ma se questa serialità avesse invece proprio una radice bizantina? Queste Madonne sono come icone tolte dalla teca, scongelate e riportate alla vita. Icone strappate all’apnea ma mantenute nella loro dimensione d’assoluto (non lo dico io, lo dice in una scheda nel catalogo Peter Humfrey, uno dell’equipe del furioso Lucco…).

Ho la presunzione di pensare che questa sia la migliore chiave critica (cioé intellettualmente affidabile) per approcciare Bellini. Oppure datemene voi un’altra…

Nell’immagine, Madonna che regge il Bambino in grembo, Roma Galleria Borghese (n.60 del catalogo della mostra romana)

Written by giuseppefrangi

Novembre 19th, 2008 at 1:55 am

Citati, Mantegna e Bellini

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A proposito del “duello” tra i due cognati Mantegna e Bellini, ho rintracciato queste righe di Pietro Citati, dalla recensione alla mostra belliniana di Roma.

«Al contrario di Mantegna, non inseguiva nessuna immagine fantastica di sé stesso e della propria pittura. Nei quadri di Mantegna, “l’ uomo abita – così si usa dire – un universo di pietra”: con un furore indemoniato Mantegna assale la pietra, la frantuma, la spezza, la scheggia, la trasforma in apostoli o soldati romani: colpisce san Sebastiano con decine di aguzze frecce mortali; e la capigliatura dei suoi eroi, diceva Proust, “ha l’ aria insieme di una nidiata di colombe, di una fascia di giacinti e di una treccia di serpenti”. Giovanni Bellini fu sempre intimorito e pauroso, fino ai suoi ultimi anni, davanti a quella violenza crudele, che avrebbe potuto sconvolgere il suo regno di riflessi e lontane montagne azzurre. Proprio per questo cercò di imitarla, e di assimilarla. All’improvviso, nei quadri di Bellini, i volti diventarono fragili e freddi come ceramica: il gelo fece rabbrividire il suo mondo: i mantelli ricevettero pieghe innaturali come fossero stati segnati da colpi di frusta: le rocce dei monti assunsero forme scandite, squadrate, spezzate, geometrizzate: le figure furono viste di scorcio; mentre piccoli cherubini rossi indossarono ali rosse attorno al collo invisibile. Ma gli occhi di diamante di Mantegna erano lontani; e a poco a poco, con una accorta diplomazia di piccoli tocchi, Bellini insinuò la dolcezza nel mondo di Mantegna, che aveva sempre ignorato o ucciso la dolcezza».

Written by giuseppefrangi

Novembre 17th, 2008 at 11:14 am

Il Caravaggio autorifiutato

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Arriva a Milano il Caravaggio girovago, la prima Conversione di Saulo, unica sua opera conservata su tavola ( e che quindicaravaggio-conversionofstpaul sarebbe augurabile viaggiasse un po’ meno (era approdata a Bergamo solo quattro anni fa). Le esposizioni “one painting show” centrate solo su un’opera sono una ricetta che piace sempre di più: i costi sono moderati, l’organizzazione semplice, il pubblico non si stressa. In tempo di usa e getta sembra la soluzione più consona.
Caravaggio. Ovviamente scatena le interpretazioni più insulse e i racconti più antistorici. Come le baggianate riproposte da Dario Fo, in apertura delle quattro pagine, pagate dallo sponsor, che il Corriere ha dedicato alla mostra. Il quadro Odescalchi (dal nome della padrona attuale) non è figlio di un rifiuto della committenza, per il semplice motivo che il committente, come ha dimostrato Luigi Spezzaferro, aveva visto e approvato un bozzetto dell’opera (di “specimina” si parla nel contratto) e che era morto poco dopo la firma del contratto. C’è quindi un inghippo di cui non conosciamo i contorni, ma che è stupido pensare non abbia anche qualche risvolto di carattere stilistico: non è un caso che Longhi portando il quadro alla grande mostra di Milano, lo avesse anticipato di date, quasi non c’entrasse con la committenza Cerasi. Tra l’altro dalla tavola (che era prevista dal contratto) Caravaggio passa poi alla tela per la versione definitiva. Spezzaferro sintetizza dicendo che doveva essere trattato di un caso di “autorifiuto” da parte di Caravaggio.
Ma è bello rileggere le parole del critico romano, morto improvvisamente lo scorso anno: «…Caravaggio rappresenta il momento in cui Saulo appena colpito e caduto da cavallo, sta ancora tentando (con il gesto istintivo di ripararsi gli occhi nonché con il movimento altrettanto istintivo del busto che cerca di risollevare le spalle da terra per rovesciare il corpo a pancia sotto) di difendere la propria umana fisicità e di opporre così l’ultima e istintivamente naturale possibilità di resistenza all’incomprensibile e insopportabile forza che l’ha colpito».
Nella seconda versione, quella oggi nella cappella di Santa Maria del Popolo, Cristo scompare, Paolo è colto nell’attimo successivo e sembra abbracciare la luce che gli viene addosso. Ma non è una versione edulcorata. Come dice sempre Spezzaferro: «Merisi sembra comprendere che il simbolo della luce, mondanamente parlando, o lo si accetta nella sua corporea fisicità –nella sua epifania naturalistica – o non ha senso».

Written by giuseppefrangi

Novembre 15th, 2008 at 5:47 pm

Caravaggio, questione di sguardi

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Dopo tanti anni di nuovo a Genova, a Palazzo Bianco, davanti all’Ecce Homo di Caravaggio. Dell’allestimento delicato e perfetto di Franco Albini restano solo poche reliquie, ma una di queste tocca proprio al capolavoro: la parete con lastre di granito che gli fa da sfondo. Dobbiamo a Roberto Longhi e a Caterina Marcenaro, la mitica direttrice delle Bella Arti a Genova, la riemersione di quest’opera abbandonata tra uffici, magazzini e sottotetti e tenuta in condizioni penose sino al 1954. La Marcenaro si accorse che non era un quadro qualunque. Longhi la pubblicò, senza incertezze sull’autografia caravaggesca, su Paragone nel febbraio 1954. Il quadro ha un’evidenza clamorosa nella sua semplicità: tre personaggi, su tre piani, dietro a una balaustra. C’è un Pilato senza tentennamenti che mostra al popolo (che siamo noi, aldiqua della balaustra), un Cristo di struggente dolcezza e remissività. Dietro lo sbirro regge il mantello e guarda la vittima con l’abitudinario disprezzo. Ma basta una lettura epidermica del quadro per accorgersi come Caravaggio condensi genialmente la scena nel gioco degli sguardi. C’è lo sguardo di Pilato, sgranato, potente, aggressivo. Lo sguardo di uno che sa quel che vuole e che ruba la scena (nel senso letterale, perché a differenza dell’iconografia tradizionale conquista il primo piano). E c’è il non-sguardo di Cristo. Che sta con la testa china e le palpebre abbassate, un passo indietro. Non li vediamo gli occhi di Cristo, emblema di innocenza. E a memoria non ricordo un’immagine simile. La voracità di Pilato contro il silenzio denso d’obbedienza di Cristo. Non si poteva pensare nulla che potesse restituire con più definitività l’Ecce Homo.

Longhi poi aggiunse un’altra ipotesi tremendamente suggestiva. Pensò che nel Pilato Caravaggio si fosse rappresentato, e portò una serie di credibili analogie somatiche con effigi note del pittore («la somiglianza profonda delle orbite incassate, delle palpebre spesse come di cuoio, delle sopracciglia rialzate quasi per orrore fisso…»). Portò allo scoperto un altro particolare che poteva confermare la sua ipotesi: le mani di Pilato sono nella posizione di un pittore che si fa un autoritratto, la sinistra che tiene la tavolozza, la destra che con il pennello s’appresta a dipingere il «torso di Cristo che sboccia intatto e virginale, come dal mallo, una scultura arcaica». Il tutto senza una briciola di compiacimento. Chiude Longhi: «Anche per noi oggi, è pur questa l’iilusione di realtà intrepida e straziante che promana dall’Ecce Homo ritrovato a Genova»

Written by giuseppefrangi

Novembre 4th, 2008 at 12:04 am

Mantegna strepitoso

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La prima immagine di Mantegna che s’incontra arrivando a Parigi sono gli immensi cartelloni pubblicitari della mostra nel metro. Il Cristo dell’Orazione nell’orto, scelto come manifesto, s’arrampica su per i soffitti a volta delle banchine, e conferma subito che Mantegna è uno scapestrato in grado di tener testa al bombardamento pubblicitario e mediatico che lo circonda. È un primo sguardo non casuale: Mantegna ha l’energia, l’occhio elettrico di un contemporaneo, anche se la mostra che lo riguarda è ospitata nel museo dei musei, il Louvre. È un classico intemperante.
Una mostra strepitosa, senza una battuta a vuoto, densa di storie, di idee, di colpi di scena. Esatta nel percorso filologico, ma ugualmente piena di sussulti: ad ogni passaggio lascia intravvedere nuove ipotesi di lavoro (a cura di Dominique Thiebaud e Giovanni Agosti, sino al 5 gennaio. Fate un giro sul bellissimo sito allestito).
A simbolo della mostra è  stata presa l’Orazione dell’orto, predella del polittico di san Zeno, “rubata” da Napoleone e ora conservata a Tours. Uno degli apostoli dorme, sulla pietra, un sonno di pietra. Scxhiantato dal sonno, si potrebbe dire senza tema di mentite. Sdraiato supino, con il mantello che ha perso i colori, si mimetizza come fosse una lucertola, allungata in uno scorcio quasi irridente. C’è un che di sfrontato in questo suo dormire, che non è frutto di spossatezza, ma di una beata incoscienza giovanile.
È un mondo senza ambiguità quello di Mantegna, intagliato con la nettezza di un cristallo. È un mondo ricostruito al netto di sentimenti e della psicologia. La realtà sfreccia, come una scheggia che non lascia il tempo a doppi pensieri. Mantegna tanto è archeologico nell’apparenza, quanto è invece futuribile nella sostanza. È pietroso  e robotico insieme. Tanto è infinitesimale nei dettagli, quanto è centrifugato nell’effetto complessivo. Tanto è cristallizzato nell’istante, quanto è esplosivo per l’energia che trattiene.

Per tutte queste ragioni più che belliniano io  mi sento sinceramente del partito di Mantegna.
(mostra vista sabato 11 ottobre, con la guida cortese ed esperta di Arturo Galansino)
(1. continua)

Written by giuseppefrangi

Ottobre 17th, 2008 at 1:11 pm

Appuntamento con Daniele

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Sabato 18/10, ore 15, visita guidata da Cristina Terzaghi alla Certosa di Garegnano e agli affreschi di Daniele Crespi con le storie di San Bruno (e quelli di Simone Peterzano). Un’occasione da non perdere per la bellezza intatta degli affreschi e per la qualità di chi guida la visita. Sul sito dell’Associazione Testori, tutti i particolari per iscriversi.

Personalmente ho un legame quasi di sangue con questi affreschi di Daniele, essendo che sono stati l’argomento della tesi di mia mamma Lucia. Una vocazione artistica potentemente sostenuta dal grande fratello Gianni, ma poi arenatasi negli impegni famigliari… Ma il legame resta, e quel tono cronachistico e tutto in prosa di Daniele lo sento un po’ mio.

Naturalmente Gianni (Testori) su Daniele ha invece continuato a indagare. E le sue righe sono un magistrale viatico: «Da quel romanziere che tentò d’essere egli snodò i gorghi in cronaca, li spianò fino a svuotarli della loro stessa seduzione; indicò agli spettatori i piani effettivi delle vicende; enucleò le misure sociali, anziché i rapimenti mistici e spettrali delle vite dei Santi e di Cristo medesimo; rimeditò i martirii come fatti di costume; cercò di legare ogni fatto, anche i più truci, a ragioni precise e precisabili. Ma, a parte che una talquale remora languida gli rimase addosso sempre, il suo limite fu di restar legato, in quell’operazione, a una parte sola, quella della Controriforma: uno Stendhal senza la necessaria obiettività e il necessario cinismo; uno Stendhal, insomma, sconfitto. Questo è quanto si desume dalla sua opera in proposito più chiara, che è poi anche il suo capolavoro: il ciclo certosino di Garegnano, dipinto tra l’altro alla vigilia della morte (1629)».

(Come nota Davide Dall’Ombra nella sua tesi di laurea, la stessa prosa si Testori finisce con il “planare” sullo stile di Daniele: «Testori sembra adattare il suo linguaggio critico a quello che ritiene essere il temperamento del pittore: se con il Procaccini s’era fatto setoso, con Daniele si fa storico, dettagliando i rapporti di influenza sulla Spagna degli altri manieristi e i debiti del Crespi verso Zurbaràn e la pittura genovese così come Daniele fu pittore attento ai meccanismi della storia ma con tutti i limiti di un pittor cronista»).

Nella foto, la scena maestra del ciclo di Daniele, il  Risveglio dai morti di Raimondo Diocrès.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 15th, 2008 at 1:44 pm

Bellini in periferia

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Mi ha commosso vedere spuntare sull’invito di una mostra che si terrà alla Pinacoteca provinciale di Bari il volto di questo San Pietro Martire di Bellini. La mostra viene organizzata in occasione del restauro della tavola. Dobbiamo immaginarla nelle sue dimensioni ragguardevoli: 194 x 84 cm. Non era la prima volta che Bellini affrontava san Pietro Martire: lo aveva fatto in quel “verde” capolavoro con la rappresentazione della scena del martirio, oggi conservato al Courtauld Institute di Londra. Intorno al 1487 questa tavola di Bari, anche firmata “Ioannes Bellinus”, venne imbarcata da Venezia e raggiunse le coste pugliesi per arrivare alla sua meta, la chiesa di San Domenico a Monopoli (Pietro Martire era santo domenicano). Oggi “riappare”, con questo suo volto di un patetismo solenne, con questa dolcezza potente negli occhi. Come disse Longhi: «Una calma che spazia tra i sentimenti eterni dell’uomo: cara bellezza, venerata religione, eterno spirito, vivo senso».

La mostra apre l’11 ottobre, con tanto di catalogo per illustrare il restauro e di convegno con intervento di Carlo Bertelli, su «Giovanni Bellini dalla laguna all’Adriatico».

La mostra romana di Bellini oggi è oggetto di una bella recensione di Maurizio Cecchetti su Avvenire.  Ancora una volta Mauro Lucco, che avvea già curato la mostra su Antonello sempre alle Scuderie del Quirinale, usa dell’occasione per attaccare la lettura di Longhi («L’argo­mentazione del Lucco è serrata, si abbandona in certi momenti a u­na prosa sarcastica e stucchevole»). Ancora una volta nel mirino è la centralità di Piero della Francesca, affermata da Longhi e già spiegata da Ferdinando Bologna. Scrive Cecchetti: «Ferdi­nando Bologna dava di ciò una spiegazione apparentemente lo­gica, ma certo non meno ipoteti­ca della stessa forza argomentati­va della prosa longhiana: “Il pro­blema dell’orma di Piero non è già di natura appunto morfologica e grammaticale, bensì di ordine sin­tattico e strutturale” . È come so­stenere che Piero rivive in Bellini per un transfert che si palesa nel­la mente dello spettatore quasi per telepatia. Va invece colta la pre­gnanza del discorso longhiano, considerandone le forzature di ta­glio ideologico- critico, come quando per vedere in profondità occorre sfocare il particolare in primo piano».

Written by giuseppefrangi

Ottobre 7th, 2008 at 8:22 am

Giotto, Francesco e Dio

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4 ottobre, San Francesco. Dire Francesco è dire Giotto, anche se l’attribuzione degli affreschi di Assisi è ancora al centro di una controversia frontale. Ma il libro recente (bellissimo: un lettura aristotelica di Giotto) di Serena Romano ha messo un bel punto fermo. Questa le genealogia di Assisi: prima le due scene con le storie di Isacco, poi la regia del cantiere con le storie di Francesco. Trait d’union tra le une e le altre sono alcuni elementi compositivi che vengono sul dal profondo di una personalità che è evidentemente la stessa. Tra i punti di contatto uno è importante perché svela, oltre che Giotto, anche Francesco. Scrive la Romano: «È un elemento di strategia narrativa e anche strettamente compositiva: è il modo di rappresentare il punto emozionalmente clou della storia, che ne riassume il significato e si esprime in un unico gesto».

Il gesto dunque. Passate in rassegna gli affreschi di Assisi. Le scene in cui Giotto era senz’altro alla regia sono incardinate attorno a un gesto. Sempre reso manifesto dalla mano. Portato a galla con un certo clamore, perché spesso stagliato sul fondo nudo e azzurro. È la tecnica di un narratore sicuro, che non conosce pentimenti, che tiene con saldezza in mano i fili della composizione. Nella scena della Rinuncia dei beni, una delle più belle, sintesi del Giotto più nitido, la centralità del gesto ha un’esplicitezza persin didascalica. Le mani giunte di Francesco rimasto nudo (e coperto solo dal mantello provvidenzialmente allungato dal vescovo di Assisi) sono tese verso l’altra mano, quella di Dio che sbuca dall’alto, stagliata sullo stesso fondo blu. Tutto il resto è contorno. L’occhio fruga, ma tutti gli altri, protagonisti sino a un istante prima, sono diventati comparse. Impallidiscono. C’è da credere che se potessero, si eclisserebbero. Invece devono stare. E vedere.

La strategia narrativa si ripete in tante scene: la Predica agli uccelli, il Miracolo della sorgente, la Scacciata dei diavoli da Arezzo, la Visione dei troni celesti… Sempre le mani alzate dal corpo, allungate, tese. Mani che domandano.. E chi se non uno della grandezza di Giotto poteva generare una soluzione di questa forza e di questa semplicità?

(L’alleanza tra Giotto e Francesco dura poi nel tempo. Nella cappella Bardi a Firenze, il pittore ormai vecchio, lascia quel capolavoro tutto ocra che sono le Esequie del santo. Tra gli astanti, il frate estatico sulla sinistra, ha una forza icastica degna del frontone del Partenone.)

Written by giuseppefrangi

Ottobre 3rd, 2008 at 11:58 pm

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