A proposito delle due Cene in Emmaus di Caravaggio, esposte a confronto a Brera, ho ripescato un breve saggio scritto da un non addetto ai lavori, Luigi Moretti, nel 1951 sulla rivista Spazio. Moretti entra nei quadri di Caravaggio con l’occhio che gli pertiene, quello dell’architetto (è stato un grande architetto: guardate il meraviglioso palazzo-prua “incagliato” in Corso Italia a Milano). Quindi il primo fattore che lo calamita è quello dello spazio. Le differenze, tra le due Cene, anche da questo punto di osservazione si fanno sostanziali. La Cena di Londra (immagine a sinistra): lo spazio qui è condizionato «dall’addensamento allucinante di realtà in alcuni punti… Addensare la realtà vuole dire stringerne la potenza in aree possibilmente limitate e riassuntive. Ed ecco in Caravaggio comparire alcune figure di taglio, si ricordi la Cena di Emmaus di Londra, sulle quali la potenza evocativa trova appoggio e densità più veementemente che nelle figure frontali; in una spalla di taglio si nomina un’intera struttura umana, in breve spazio si concentra un mondo… perforando lo spazio nel senso dello sguardo e non più fermandolo con apposizioni frontali». Sulla Cena di Milano (a destra) invece plana un’idea di spazio che segnerà tutto l’ultimo Caravaggio. Moretti la identifica così: entra in gioco «l’indipendenza, la casualità del perimetro del quadro rispetto all’ordine della figurazione contenuta. Ricordiamo al proposito, la notazione elegantissima del Longhi sulla forma del perimetro del quadro, che vorrei traslare in forme definita da un’equazione che lega il campo magnetico interno al perimetro con il campo del mondo esterno in cui è immerso». Dallo spazio serrato e convulso della Cena londinese, si passa allo spazio calmo e dilagante oltre la tela della Cena milanese. Intuizione davvero profonda.
Archive for the ‘antichi’ Category
Che Prado!
15 capolavori del Prado ad altissima definizione. Andate a vedere che spettacolo sul sito del museo. Qui sotto un assaggio (Raffaello e Dürer). Realizzate con la tecnologia di Google Earth.
Caravaggio, cena contro cena
Con il volano mediatico di Caravaggio si cerca di rilanciare la vecchia e gloriosa Pinacoteca di Brera. È arrivata la Cena in Emmaus dalla National Gallery di Londra ed è stata messa al fianco di quella che dal 1939 fa parte dei tesori del museo milanese. Tra l’una e l’altra ci sono circa sei anni: la prima è stata dipinta a cavallo del cambio di secolo, l’altra (quella milanese) dovrebbe essere il primo quadro dipinto nel 1606 dopo la fuga da Roma per il delitto commesso. Anche l’impostazione della composizione è molto simile. Eppure i quadri sembrano lontani decenni uno dall’altro. La biografia di Caravaggio vive di accelerazioni violente, di strappi implacabili. Nella Cena di Londra siamo davanti a un Caravaggio olimpico, con un passo trionfale. Realista, ma anche teatrale. Con quell’effetto riflettore che alza la tensione sulla scena, e quel cesto in bilico in primo piano, che è una spericolata prova di bravura. È un quadro, che ha un che di clamoroso nel suo dna, che intercetta l’impeto e lo supore di quel momento, che sfonda il velo della normalità. Il discepolo a braccia spalancate è un capolavoro che sullo slancio fa sobbalzare il cuore anche dell’ignaro osservatore di oggi.
Sei anni dopo invece la stessa stanza si è ammutolita. Il punto di vista del pittore è un po’ più ribassato. Il muro è tutto nero. Ogni riflettore è stato spento. L’atmosfera ha la mestizia della normalità, il suo tono polveroso, immutabile nel tempo. Caravaggio si è lasciato alle spalle ogni baldanzosità giovanile e si inoltra nell’ultima cupa e drammatica fase della sua vita. Non è più il tempo degli entusiasmi: è un Caravaggio che non fa più sconti, che non cerca più scorciatoie, che non accende più la tenebra del reale ma sembra subirla. Persino la tavola si è immesirita, e le vivande sono all’essenziale. Quella stessa realtà che aveva incendiato di invenzioni nella galoppata dei suoi anni giovanili e della maturità, ora pesa come il piombo. È una coltre fatta di fatica, e di zone d’ombra impenetrabili. Il destino della storia dell’arte, lui, lo aveva cambiato: ora la partita è solo con se stesso e con il proprio destino. Caravaggio è entrato nella caverna da cui uscirà solo con la morte. Ma quant’è grande, e quanto è vero questo Caravaggio che si lascia alle spalle tutti gli effetti speciali!
Mantegnissima
La mostra parigina di Mantegna si è chiusa superando i 330mila visitatori. Un numero da record.
Nel consueto referendum indetto dal Giornale dell’Arte sul meglio e il peggio dell’anno passato, la mostra di Mantegna è la più votata dagli “addetti ai lavori”: nove preferenze. Secondo Bellini con otto. Terzo Sebastiano del Piombo con cinque. Tra i moderni vince la mostra londinese di Cy Twombly (quattro preferenze). Mantegna tira anche come catalogo (nell’edizione italiana, edizioni Officina Libraria: in vendita scontato sul sito dell’Associazione Testori): è indicato tra le migliori pubblicazioni d’arte dell’anno. Vediamo di tener conto di tutto questo…
Bellini pittore non dialettico
Note romane. Ritorno alla mostra di Bellini alle Scuderie del Quirinale. Colpisce la calma con cui Bellini accetta sempre di arrivare secondo. Non ha mai l’ansia di anticipare i tempi, di innovare e però non ha neppure mai paura ad adeguarsi alle innovazioni in corso. Per intenderci: prima è un mantegnesco intenerito, poi antonelliano senza arbitrarietà, infine giorgionesco senza ambiguità. Come se il veicolo “stilistico” sul quale salire, per lui fosse un problema in seconda battuta. In prima battuta c’era sempre una fedeltà di fondo al proprio mondo e al proprio universo morale e poetico. È un caso abbastanza unico, di un ”secondo” a livello di stile, che non è secondo a nessuno a livello poetico. (Per altro la coerenza data dalla poesia è molto più forte di quella data dallo stile).
Registro anche un libretto di Roger Fry, pubblicato lo scorso anno da Abscondita. Un libretto modesto (lo ammette la stessa curatrice), scritto nel 1899, ma che testimonia un amore profondo del critico inglese per Bellini. Tant’è che nell’ultima pagina centra un giudizio bellissimo (anche lui insiste, quasi sorpreso, sulla “costanza” di Bellini in tanto variare di riferimenti stilistici): «I sentiimenti belliniani, nonostante l’intensità, sono controllati da un giudizio squisito e istintivo, da una ragionevolezza che è essa stessa un sentimento più che da una dialettica… in lui il dolore non è mai disperazione, la compassione non è mai effemminata, l’affetto più tenero non approda mai al sentimentalismo».
Per altro alla lettura del libretto di Fry ci si può consolare: certa superficialità dominante nella pubblicistica d’arte di oggi non è una novità. Fry nel suo discorso cita un quadro dimenticandosi di dire di che quadro sta parlando (è la Madonna delle Alberelle di Venezia) e chiama Isabella duchessa di Mantova, quando, ahinoi, la grande Isabella fu solo “marchesana” (leggete lo stupendo Rinascimento privato della Bellonci).
Immaginando il Mantegna estremo
La mostra di Mantegna a Parigi si chiude naturalmente con l’ultimo capitolo della parabola del grande Andrea. È un capitolo drammatico, quasi punteggiato di angoscia. C’è tra l’altro uno straordinario risvolto aneddottico: Mantegna aveva scelto la cappella di San Giovanni Battista, nella colossale chiesa mantovana di Sant’Andrea, come luogo della propria sepoltura. Nell’atto di concessione datata 11 agosto 1504 si dà via libera al pittore di recintare all’esterno della cappella una piccola zona di terreno, per ricavarsi uno spazio dove costruirsi una cella e poter meditare vicino a luogo che ne avrebbe accolto le spoglie per il resto dei tempi. Nel contratto si dice che a Mantegna era concesso di coltivare, su quel fazzoletto di terreno, anche un orto. Insomma, lì ci viveva, la tomba diventa già la sua casa: una scelta in cui anche la biografia sembra allinearsi, sintonizzarsi alla grandezza creativa di Mantegna.
Vien da immaginarlo, meditare solitario sul suo declino, sul venire meno delle forze che gli avevano permesso per tutta la vita di tenere teso sino allo spasimo l’arco della propria energia creativa. Ciò che mi affascina di Mantegna è questa sua oltranza espressiva, a volte così determinata feroce da farcelo sentire straordinariamente contemporaneo. È un artista sempre ad altissimo voltaggio mentale: per questo emoziona il pensarlo in quei mesi di rapido declino sentire l’affievolirsi progressivo del segnale creativo, con la mano che trovava dietro di sé input sempre più flebili e offuscati.
Lo straordinario Battesimo per la cappella di San Giovanni Battista nella sua magrezza quasi scheletrica è un quadro fantasma, un lacerto fantastico, con quell’idea del dialogo teso tra Giovanni e Gesù e la figura misteriosa in primo piano con secchiello e corde. La vita sfiancata, vien meno, e intanto il grande Andrea se ne stava lì fuori, nella celletta improvvisata a familiarizzare con il proprio sepolcro.
Caravaggio, rapito dalla realtà
Fa specie vedere una coda permanente di gente davanti a Palazzo Marino, a Milano, per vedere l’opera sola di Caravaggio, la Conversione di Saulo. Fa specie anche il silenzio che accompagna l’ultimo tratto di coda, una volta entrati nel grande salone dell’Alessi. È un quadro che inchioda, per la sua logica elementare. Affascina per quel troppo di realtà che riesce a contenere in quei suoi due metri per due. Caravaggio è un grande “svelatore” di realtà, nel senso che la porta a galla con un’energia che non ci si immaginava potesse essere. Dirada le nebbie dagli sguardi, fa scattare la memoria di sguardi sperimentati e poi perduti.
In questo quadro, tanto pieno di energia da risultare quasi convulso e scomposto il Caravaggio sembra proprio lasciarsi divorare dalla realtà. Basta scorrere i particolari per rendersene conto: la torsione violenta del cavallo, con l’occhio saettato di paura; il fogliame acceso d’una evidenza così fisica da venir fuori dal quadro; e poi il mantello rosso di Paolo, di un rosso così goloso che ti vien voglia di arraffarlo. E le mani plebee del santo, impacciate perché desuete a quel gesto di timore e debolezza. E invece la mano di Cristo che scende giù, sicura, a palmo aperto, emblema di un umano al massimo del suo compimento e della sua speranza.
C’è un qualcosa di irresistibile in questo quadro, che lascia la gente in silenzio, a guardare. È la realtà riacciuffata nella sua condizione ed energia originaria. Qualcosa di deflagrante, di inatteso, di sempre vivo.
(Se la gente sta in coda, alla fine si può capire bene il perché. E lasciamo da parte per una volta le spiegazioni schizzinose e snobistiche. E che ciascuno se ne torni a casa con le cartoline messe a disposizione gratuitamente è comunque una bella cosa)
Sgarbi copia. Ma copia bene
Francamente non capisco tanta indignazione nei confronti di Vittorio Sgarbi. Ha copiato un saggio su Botticelli, scritto da Mina Bacci per i mitici Maestri del Colore nel 1963 e lo ha riproposto a nome suo per la collana di Skira, allegata qualche anno fa al Corriere della Sera. L’operazione è stata oggettivamente spericolata, perché come mi ricorda Davide Dall’Ombra, i Maestri del Colore vennero tirati in 71milioni di copie, e, a differenza di tutta la mediocre valanga di editoria divulgativa che è seguita, restano ancora orgogliosamente nelle librerie e fanno la loro bellissima figura nelle bancarelle di mezz’Italia. I Maestri del Colore sono un esempio di cultura civile vera. Dalla semplicità della loro formula, alla qualità davvero stupefacente delle immagini e della grafica, sino alla scelta degli autori chiamati a scrivere i testi introduttivi. Un giorno farò l’indice degli autori, e ci sarà da restare a bocca aperta.
Sgarbi quindi è stato infantile a pensare che il numero 8 della serie diretta da Dino Fabbri, dedicato a un pittore tanto amato come il Botticelli non fosse ancora in circolazione in migliaia di copie. Ma a merito di Sgarbi dobbiamo dire ha copiato bene e che paradossalmente ci ha fatto riscoprire il testo… di Mina Bacci, allieva di Longhi: un testo cristallino, che aderisce magnificamente al profilo di Botticelli, «questo malinconico, squisito “décadent” del Rinascimento italiano».
O ancora sulla Giuditta degli Uffizi oggi in singolare trasferta a Milano: «La crudele determinazione dell’eroina biblica si è sciolta, nel ritorno al campo, in quell’incedere lento del corpo falcato cui nemmeno il fluttuare delle vesti riesce a conferire un tono drammatico». Ridiamo alla Bacci quel che è suo.
Giovanni alias Bonvicino
Blu più argento. Gioco incrociato tra Giovanni (mio fratello, al tempietto di san Lupo, a Bergamo, con Mt 24 25) e Alessandro Bonvicino detto il Moretto. Qui sotto, a destra il cielo delle ante di Lovere; a sinistra il cielo di San Lupo. In basso, a sinistra, il mantello della Madonna di Paitone; a destra, la terra splendente del tempo finale, sempre a san Lupo. Esprit di Lombardia, intercettato in zone profonde.
L'icona della Pietà. Ovvero Bellini concettuale
Ancora Bellini. Ho riletto il libretto di Hans Belting sulla Pietà di Brera (uscito in Germania nel 1985 e in Italia, da Panini, nel 1996). Una lettura molto utile perché riporta, per così dire, Bellini per terra. Non che lo diminuisca, anzi. La sua tesi è che Bellini sia un pittore intellettualmente molto più strutturato di quanto una lettura un po’ d’inerzia non abbia fatto pensare: s’è detto tanto del suo afflato sentimentale da perdere di vista invece questa sua quadratura intellettuale. Dice Belting che la pittura di Bellini si poggia su un archetipo, che il suo genio trasforma in un’idea compiuta. L’archetipo è quello dell’icona (nel caso la Imago Pietatis di Santa Croce in Gerusalemme a Roma), da cui deriva le sue variazioni sul tema della Pietà. L’idea è quella di recuperare l’unità compositiva e concettuale che era della vecchia icona, dentro un linguaggio moderno. Dice Belting: «Bellini coniuga lo stile espressivo della narrazione pittorica (il nuovo, ndr) con la potenza dell’immagine dell’icona-ritratto». In sostanza è una concezione figurativa nuova: «Si potrebbe parlare di un’icona drammatizzata e più riccamente orchestrata».
Sono belle le pagine in cui Belting rivive il passaggio di Antonello a Venezia. La lettura a livello profondo delle immagini, fa venire a galla una differenza radicale con Bellini. Il soggettivismo spinto della Pietà di Antonello, così fortemente patetica e programmaticamente anti iconica, irrita Bellini che spinge ulteriormente avanti la sua “idea” negli esemplari di Londra e di Berlino.
Conclusione: ideale religioso e ideale estetico si fondono. La sintesi è nella meravigiosa scritta alla base della Pietà milanese: «Haec fere cum gemitus turgentia lumina promant Bellini poterat flere Joannis opus». (Come questi occhi gonfi di pianto emettono quasi gemiti così l’opera di Giovanni Bellini potrebbe piangere). Che cosa chiedere di più a un quadro?