Note romane. Ritorno alla mostra di Bellini alle Scuderie del Quirinale. Colpisce la calma con cui Bellini accetta sempre di arrivare secondo. Non ha mai l’ansia di anticipare i tempi, di innovare e però non ha neppure mai paura ad adeguarsi alle innovazioni in corso. Per intenderci: prima è un mantegnesco intenerito, poi antonelliano senza arbitrarietà, infine giorgionesco senza ambiguità. Come se il veicolo “stilistico” sul quale salire, per lui fosse un problema in seconda battuta. In prima battuta c’era sempre una fedeltà di fondo al proprio mondo e al proprio universo morale e poetico. È un caso abbastanza unico, di un ”secondo” a livello di stile, che non è secondo a nessuno a livello poetico. (Per altro la coerenza data dalla poesia è molto più forte di quella data dallo stile).
Registro anche un libretto di Roger Fry, pubblicato lo scorso anno da Abscondita. Un libretto modesto (lo ammette la stessa curatrice), scritto nel 1899, ma che testimonia un amore profondo del critico inglese per Bellini. Tant’è che nell’ultima pagina centra un giudizio bellissimo (anche lui insiste, quasi sorpreso, sulla “costanza” di Bellini in tanto variare di riferimenti stilistici): «I sentiimenti belliniani, nonostante l’intensità, sono controllati da un giudizio squisito e istintivo, da una ragionevolezza che è essa stessa un sentimento più che da una dialettica… in lui il dolore non è mai disperazione, la compassione non è mai effemminata, l’affetto più tenero non approda mai al sentimentalismo».
Per altro alla lettura del libretto di Fry ci si può consolare: certa superficialità dominante nella pubblicistica d’arte di oggi non è una novità. Fry nel suo discorso cita un quadro dimenticandosi di dire di che quadro sta parlando (è la Madonna delle Alberelle di Venezia) e chiama Isabella duchessa di Mantova, quando, ahinoi, la grande Isabella fu solo “marchesana” (leggete lo stupendo Rinascimento privato della Bellonci).