Fa specie vedere una coda permanente di gente davanti a Palazzo Marino, a Milano, per vedere l’opera sola di Caravaggio, la Conversione di Saulo. Fa specie anche il silenzio che accompagna l’ultimo tratto di coda, una volta entrati nel grande salone dell’Alessi. È un quadro che inchioda, per la sua logica elementare. Affascina per quel troppo di realtà che riesce a contenere in quei suoi due metri per due. Caravaggio è un grande “svelatore” di realtà, nel senso che la porta a galla con un’energia che non ci si immaginava potesse essere. Dirada le nebbie dagli sguardi, fa scattare la memoria di sguardi sperimentati e poi perduti.
In questo quadro, tanto pieno di energia da risultare quasi convulso e scomposto il Caravaggio sembra proprio lasciarsi divorare dalla realtà. Basta scorrere i particolari per rendersene conto: la torsione violenta del cavallo, con l’occhio saettato di paura; il fogliame acceso d’una evidenza così fisica da venir fuori dal quadro; e poi il mantello rosso di Paolo, di un rosso così goloso che ti vien voglia di arraffarlo. E le mani plebee del santo, impacciate perché desuete a quel gesto di timore e debolezza. E invece la mano di Cristo che scende giù, sicura, a palmo aperto, emblema di un umano al massimo del suo compimento e della sua speranza.
C’è un qualcosa di irresistibile in questo quadro, che lascia la gente in silenzio, a guardare. È la realtà riacciuffata nella sua condizione ed energia originaria. Qualcosa di deflagrante, di inatteso, di sempre vivo.
(Se la gente sta in coda, alla fine si può capire bene il perché. E lasciamo da parte per una volta le spiegazioni schizzinose e snobistiche. E che ciascuno se ne torni a casa con le cartoline messe a disposizione gratuitamente è comunque una bella cosa)