Ancora Bellini. Ho riletto il libretto di Hans Belting sulla Pietà di Brera (uscito in Germania nel 1985 e in Italia, da Panini, nel 1996). Una lettura molto utile perché riporta, per così dire, Bellini per terra. Non che lo diminuisca, anzi. La sua tesi è che Bellini sia un pittore intellettualmente molto più strutturato di quanto una lettura un po’ d’inerzia non abbia fatto pensare: s’è detto tanto del suo afflato sentimentale da perdere di vista invece questa sua quadratura intellettuale. Dice Belting che la pittura di Bellini si poggia su un archetipo, che il suo genio trasforma in un’idea compiuta. L’archetipo è quello dell’icona (nel caso la Imago Pietatis di Santa Croce in Gerusalemme a Roma), da cui deriva le sue variazioni sul tema della Pietà. L’idea è quella di recuperare l’unità compositiva e concettuale che era della vecchia icona, dentro un linguaggio moderno. Dice Belting: «Bellini coniuga lo stile espressivo della narrazione pittorica (il nuovo, ndr) con la potenza dell’immagine dell’icona-ritratto». In sostanza è una concezione figurativa nuova: «Si potrebbe parlare di un’icona drammatizzata e più riccamente orchestrata».
Sono belle le pagine in cui Belting rivive il passaggio di Antonello a Venezia. La lettura a livello profondo delle immagini, fa venire a galla una differenza radicale con Bellini. Il soggettivismo spinto della Pietà di Antonello, così fortemente patetica e programmaticamente anti iconica, irrita Bellini che spinge ulteriormente avanti la sua “idea” negli esemplari di Londra e di Berlino.
Conclusione: ideale religioso e ideale estetico si fondono. La sintesi è nella meravigiosa scritta alla base della Pietà milanese: «Haec fere cum gemitus turgentia lumina promant Bellini poterat flere Joannis opus». (Come questi occhi gonfi di pianto emettono quasi gemiti così l’opera di Giovanni Bellini potrebbe piangere). Che cosa chiedere di più a un quadro?