Robe da chiodi

Fontana, lo spazio come amico

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Chi è milanese avrà notato il manifesto di questa strana mostra intitolata Il grande gioco,  disposta su tre sedi (Lissone, Milano, Bergamo)  e dedicata all’arte italiana tra 1947 e 1989. Sotto il titolo della mostra c’è un quadro di Fontana 1951. È esposto nella sezione di Lissone, nel piccolo e ordinato Museo di arte Contemporanea della cittadina brianzola. Spunta in cima alla scala del secondo piano, come un disco volante dorato, di una misteriosa preziosità. Questa tela di Fontana mi ha fatto percepire in modo lampante qualcosa che mi era sfuggito sino ad ora. Provo a spiegare. La forza di Fontana non è una forza di rottura ma semmai è esattamente il contario. Fontana ricuce con mondi che sembravano perduti o dimenticati. Li riporta alla nostra portata, li rimette sul nostro orizzonte. È come se ci restituisse una dimensione di infinito che ci erano stati ostruiti. Per farlo osa, rompe la routine, buca, lascia spazio allo spazio. La rottura sul piano estetico e formale è funzionale a una conquista. In sintesi: Fontana, togliendo dà.

La seconda percezione discende da questa. Il quadro di Lissone mi ha comunicato, non so perché, una grande sensazione di dolcezza. Quello di Fontana è un approccio totalmente amicale allo spazio. È come una carezza, data a una dimensione che abitualmente non sembra alla portata di carezza. E che al contrario dovrebbe incutere il timore di ciò che è ignoto. L’oro che rotea sulla tela nera, è un infinito del tutto affidabile. Non ha mai nulla di pretenzioso o di prevaricante.

(questo spiega perché un artista “assoluto” come Fontana in realtà fosse così disponibile alle arti applicate; e perché non facesse troppe distinzioni tra un mestiere – quello di artista – e quello di artigiano di lusso).

Written by giuseppefrangi

Marzo 11th, 2010 at 7:13 pm

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La carambola di Caravaggio

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Tra i quadri esposti alla mostra caravaggesca di Roma ce n’è uno che mi ha sempre molto affascinato. È l’Incoronazione di spine proveniente da Vienna. Un quadro che viene dalla collezione Giustiniani e che da lì approdò nelle raccolte imperiali nel 1809 (i fortunati che iscrivendosi all’Associazione Testori hanno avuto il calendario dedicato a Caravaggio e commentato da Longhi, per tutto il mese di marzo hanno davanti proprio questo capolavoro). È un quadro perfetto nella composizione, ma con combinazioni di triangoli che vanno in collisione l’uno nell’altro scambiandosi energia. Una vera carambola, che crea un effetto vorticoso sorprendente dentro un’immagine strutturata e “bloccata” come una grande immagine classica (non ve li enumero i triangoli: se provate a guardare il quadro con un occhio che filtra le linee direttrici della composizione ne scoprirete un’infinità). Una «geometria non euclidea», l’aveva definita Longhi. In questo modo l’Incoronazione fa emergere con un fattore decisivo per “decifrare” Caravaggio; ed è probabilmente il fattore che cattura in modo sorprendente l’occhio così “straniero” dell’uomo di oggi: i suoi quadri hanno un dna cinematografico. Lo aveva intuito per primo Longhi. Lo aveva scritto Pasolini. Ma la formulazione più persuasiva l’ho trovata nell’introduzione di Giovanni Previtali al Caravaggio di Longhi di Editori Riuniti. Previtali cita un libro di Béla Balázs, poeta e sceneggiatore ungherese cinema, che nel suo libro Il film scrive a proposito dell’«identificazione cinematografica»: «è come se vedessimo ogni cosa dal di dentro, come se fossimo circondati dai personaggi del film… Ci identifichiamo mediante lo sguardo con i personaggi del film… Osserviamo ogni cosa con la loro prospettiva, non possediamo più un nostro punto di vista». Nell’Incoronazione l’energia sprigionata dai triangoli coincide con il dinamismo del cinema, quello che risucchia e fa vedere ogni cosa «dal di dentro». Il genio di Caravaggio poi riesce a far convivere questo con l’icasticità dell’immagine propria del capolavoro. Tempo in movimento continuo e tempo fermato coesistono. La chiave sintetica di questa condizione è nelle parole di Longhi: «Il dirompersi delle tenebre rivelava l’accaduto e nient’altro che l’accaduto». Spero di aver reso l’idea…

Post scriptum: La prima settimana Caravaggio ha avuto 35.794 visitatori. Proiettato sulle 15 settimane si arriva oltre i 530 mila visitatori. Non male. Record della mostra del 1951 sfiorato. Ma mi chiedo: perché la mostra deve aprire alle 10? Non si può fare lo sforzo di aprire i battenti alle 8,30?

Written by giuseppefrangi

Marzo 5th, 2010 at 11:14 pm

Cattelan o Viola? Io non ho dubbi

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Ieri, per una coincidenza, i due maggior quotidiani italiani hanno pubblicato due interviste a due star dell’arte mondiale: il Corriere, Maurizio Cattelan e Repubblica, Bill Viola. Io sono di parte, e tra i due non esito a stare dalla parte di Cattelan: più netto, più trasparente, più aperto al mondo. Comunque il confronto mi sembra interessante e emblematico, perché propongono due modi di mettersi davanti all’arte opposti. Cattelan è centrifugo, Viola è centripeto. Cattelan cerca un pieno, Viola insegue un vuoto. Cattelan è alla luce del sole, Viola gioca sull’oscurità. Per dirla tutta: le parole di Viola non aggiungono quasi nulla a quello che sappiamo e abbiamo capito di lui. Quelle di Cattelan invece svelano una fatica per capire il senso del proprio fare. In questo senso umanamente sono molto più interessanti. Anche la provocazione dei bambini impiccati all’albero di 24 maggio, dalle parole di Cattelan viene restitutio in maniera diversa e comprensibile. Ecco una breve antologia perché anche voi possiate giudicare (anche se il ritratto di Cattelan firmato da Francesca Bonazzoli è bello da leggeer in integrale).

Maurizio Cattelan dixit

«Ma io non provoco! La mia aspirazione è fare lavori che siano il massimo della sintesi: il libro perfetto dovrebbe avere sole cinque pagine e allo stesso modo io voglio fare lavori che parlino alla gente e però non siano popolari. Un’ opera funziona se ti attira e poi quando sei vicino e disarmato ti tira un cazzotto. Per esempio nello scoiattolo suicida, il sangue non si vede: alla prima occhiata può sembrare una fiaba, ma poi ti dà il cazzotto. Così per i bambini impiccati. La forza di quel lavoro stava proprio nel fatto che era esposto in una piazza. Insomma è importante quello che riesci a smuovere nelle persone, ma io non mi dico mai: adesso devo inventare una provocazione. Una volta esposta l’ opera, io stesso divento uno spettatore incosciente di come le altre persone l’accoglieranno. Sono un tramite di qualcosa che non è sotto il mio controllo».

«Farò un monumento di marmo contro tutte le ideologie e sarà l’ occasione per confrontarmi con un tema classico della storia dell’ arte, così come già ho fatto con le statue del cavallo e del papa. Mi interessa mettermi in relazione con questi micromovimenti della storia; il provocatore, al contrario ti aspetta con la sua aggressività per tirarti giù, ma io non ho quel progetto».

«Vedo gli amici soprattutto col computer, via Skype: sono per lo più persone disordinate, squilibrate come me. Qui a New York incontro un artista che è veramente fuori di testa; di recente sono stato all’ Outsider fair, una fiera di sconosciuti al sistema dell’ arte. Molti di loro sono geniali e mi piace sostenere i loro lavori, ma spesso non ce l’ hanno fatta perché hanno dietro storie di malattie mentali e alcuni sono morti in ospedali psichiatrici».

Che cosa vorrebbe dunque ancora dalla vita? «Trovare la serenità dentro di me. L’ unica cosa con la quale te ne vai da questo mondo. Più invecchi più ti rendi conto che le cose non ti proteggono: possono indurti a credere che ti aiutino, ma non ti salvano».

Bill Viola dixit

«Cerco di portare in superficie qualcosa che esiste già. È già lì. Solo che non la vediamo. L’ arte per meè rivelazione».

«Anche se non lavoro con il pennello ma con il video, mi sento un pittore che realizza immagini».

«L’ idea è nata quando ho visitato la Cappella degli Scrovegni a Padova, sono rimasto folgorato. Giotto è uno dei miei eroi. Penso abbia fatto il primo dipinto virtuale. Quando ho visto lo spazio sono rimasto sopraffatto. Dopo il primo impatto, quando mi sono ripreso, ho riflettuto sul fatto che ogni superficie era affrescata, è stato come entrare in una realtà virtuale. Così ho iniziato a progettare un grande ciclo di immagini, connesse ma indipendenti. Quello che mi ha affascinato era entrare in uno spazio e camminare dentro le immagini. È quello che ho fatto in Go Forth by Day. Entri in un luogo illuminato solo dai bagliori delle proiezioni per camminare, come in un sentiero, in questa lunga stanza e attraversare il ciclo eterno della vita e della morte, della creazione e della distruzione. Il titolo deriva dal Libro dei Morti dell’ antico Egitto, e si riferisce al momento del trapasso in cui dal buio si passa nella luce. È incredibile osservare come l’ idea della luce intesa come rivelazione sia presente indistintamente in tutte le tradizioni religiose».

«Erano gli anni della guerra del Vietnam e della contestazione», ricorda Bill Viola, «in America la cultura e la religione orientale erano un simbolo. Volevamo andare a vedere di persona. Quel viaggio ci ha cambiato la vita. Siamo rimasti in Giappone diciotto mesi, fra il 1980 e il 1981, e abbiamo avuto la fortuna di incontrare un maestro zen straordinario: Tanaka Daisen. Praticavamo con lui quasi tutti i giorni, eccetto quando lui viaggiava. Era un uomo magico. Mi diceva “devi imparare a essere vuoto”. Se lo immagina? Avevo studiato anni per imparare a essere pieno, di idee, progetti, immagini, e ora quest’ uomo mi diceva che dovevo essere vuoto, e perso, e imparare a lavorare da una posizione di fragilità. Era pazzesco, ma aveva ragione».

Written by giuseppefrangi

Marzo 1st, 2010 at 3:38 pm

Gerstl, più che Schiele

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Alla mostra di Egon Schiele che apre domani a Milano c’è un quadro che merita da solo il biglietto. Poco importa che non sia di Schiele. È infatti di Richard Gerstl, il figlio “sfortunato” della secessione viennese. Ebbe infatti una vita brevissima (1883-1908: 25 anni). Morì suicida dopo un amore sfortunato con la moglie di quello che era stato il suo grande amico ed estimatore: Arnold Schoenberg. Quando Mathilde dopo una breve fuga con lui decise di tornare in famiglia, lui si uccise nel suo studio. Di lui naturalmente ci resta pochissimo: 60 oli in tutto. E il più straordinario è forse quello che arriva a Milano dal Leopold di Vienna, un Autoritratto del 1904. Gerstl è un ragazzo di poco più di 20 anni ed emerge da un blu profondo come un corpo fattosi sottile e impalbabile, quasi in realtà puntasse a fare l’autoritratto della propria anima. È un’apparizione spiritata, che lievita dal basso, con quell’asciugamano bianco a coprire ventre e gambe e le mani che cadono come in un abbandono. Mi ha sempre colpito quest’immagine perché annuncia il rovello (un po’ compiaciuto) dei professionisti della Secessione, ma allo stesso tempo se ne sfila. C’è un vortice di luce, che gli “aureola” il volto ed rende ancor più profondo e “inchiodante” il suo sguardo. È un uomo che si mette a nudo con i suoi tormenti, e che concentra il “fuoco“ della vita tutto nello sguardo. È un uomo che arde di un fuoco freddo. È il fuoco di un’attesa: del resto lo vediamo in piedi, composto, come se aspettasse il turno di una chiamata.

(dedicato a Paola, che come me e più di me ha “fame” di immagini)

Written by giuseppefrangi

Febbraio 25th, 2010 at 7:29 pm

Trento, un museo sì e uno no

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Appunti da un viaggio lampo a Trento (ovvero come girando per musei si capisce una città, e non solo il suo passato).

• A Trento visita alla mostra di Andrea Pozzo (ci tornerò sopra). È ospitata nel museo diocesano: molto ben tenuto, coerente nel percorso e nella raccolta. È una full immersion in quell’imprescindibile evento che fu il Concilio di Trento. Si vedono gli arazzi con le storie di Cristo con cui era stato allestito il coro della Cattedrale dove stavano i padri conciliari. Ci sono immagini del concilio, alla fine si approda a una finestra che si affaccia a perpdendicolo proprio sul coro della Cattedrale. È un’esperienza che non si dimentica. (Poi in Cattedrale ci si ferma davanti al Crocefisso, manifattura norimberghese un po’ rozza, che in tutte le incisioni si vede sovrastare i padri conciliari; e per le strade di Trento c’è la sfilata dei palazzi stupendi da rinascimento alpino: in ognuno alloggiavano uno o più ospiti da novanta del dibattito conciliare: fa effetto pensare a tutte le teste pensanti della chiesa – e allora la chiesa era una miniera di teste pensanti – trasferirsi in blocco tra le montagne per discutere di dogmi e verità). Il Museo Diocesano ve lo raccomando.

• Vi raccomando meno il nuovissimo museo storico delle gallerie, ricavato da due gallerie della tangenziale dismessa. Un’idea che poteva essere formidabile (300 metri di doppio tunnel), ma che si è ridotto a autocelebrazione un po’ malinconica delle civilità trentina. Il tunnel bianco è ancora a destinazione un po’ indefintia; quelle nero invece accoglie Storicamente ABC. L’invenzione di un territorio. Mostra didattica e di esperienze umane, tutta retrospettiva. Ne viene l’impressione di una società chiusa. Di un’enclave dolce. Su mezzo milione di abitanti, la metà sono soci di cooperative: c’è da aggiungere che il 35% del prodotto interno della provincia passa per la politica. Insomma la sensazione di una comunità tranquilla, certamente solidale ma sotto controllo. Comunque, per stare a miei temi, dal punto di vista espositivo si poteva e si doveva osare di più. Ho in mente l’allestimento fatto da Studio Azzurro per i 150 anni  della battaglia di Magenta: ci voleva una cosa così.

• Infine omaggio al mio amato Moroni. Al Museo Diocesano c’è un suo quadro che mi ha sempre commosso. Una gigantesca Santa Chiara appoggiata a una balaustra fuori scala. La sua è una posa unica: come di una vecchia badessa che controvoglia si fosse messa in posa per il fotografo di paese. Con la sua sagoma domina tutta la tela, ed essendo vestita di grigio, potete ben pensare quale sia la dominante della tela. Mi colpisce la libertà che uno come Moroni si prendeva rispetto a un soggetto sacro: una libertà nel segno del vero. Me lo immagino pensare: “Meglio lasciare la fantasia a casa sua: se ci si appoggia sulla realtà è difficile sbagliare”.

Written by giuseppefrangi

Febbraio 21st, 2010 at 8:41 pm

Un po' di veleni su Caravaggio

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25. anzi 24 perché all’ultimo Il seppellimento di Santa Lucia se ne è rimasto a casa sua a Siracusa. Anzi 23 perché adesso scopriamo che uno dei curatori della mostra ha qualche dubbio sull’autenticità della Cattura di Cristo di Dublino. Anzi 22 e mezzo perché la Flagellazione di Napoli arriverà a metà mostra, in quanto fa parte di un’altra mostra, quella del Barocco a Napoli.

Si apre la mostra mainstraiming su Caravaggio a Roma. La mostra del centenario (morì nel luglio 1610). La mostra da mezzo milione di persone (furono anche di più nel 1951 a Milano, nella grande rassegna che consacrò Caravaggio, organizzata da Roberto Longhi). Inutile cercare un filo conduttore: sono stati portati i quadri che si potevano rastrellare. Quindi in gran parte sono quelli che fanno parte della compagnia di giro che in questi anni abbiamo visto spuntare nelle più disparate sedi espositive. C’è la Cena in Emmaus di Londra, che alla National Gallery devono ormai essersi dimenticati di possedere. C’è il Concerto giovanile del Met, che attraversa l’Oceano per la terza volta negli ultimi cinque anni. Tra i quadri “mai” visti nelle infinite rassegne caravaggesche dal 2000 in qui, ci sono l’Annunciazione di Nancy e l’Incoronazione di spine di Vienna (più i Bari di Fort Worth).

Hanno detto che il criterio è quello di lasciare le opere romane al loro posto, ma in mostra ci sono ad esempio la Deposizione dei Vaticani e di nuovo la Giuditta e Oloferne Barberini. Insomma è stato rastrellato il rastrellabile. Così nella coscienza comune continueranno a “non esistere” i capolavori inamovibili. Tre esempi: la Santa Caterina di Madrid, la Coronazione di spine di Rouen, la Madonna del Rosario di Vienna.

Staremo a vedere l’allestimento. Le Scuderie del Qurinale sono una bella sede ma vincolante per la conformazione degli spazi. Solo i locali del primo piano sono alti, così gli organizzatori sono “costretti” a mettere all’inizio del percorso le opere grandi, mandando a patrasso qualsiasi sequenza cronologica e seminando confusione nei visitatori. Speriamo di non trovarci la Deposizione (3 metri di altezza) o, peggio ancora, la conclusiva Annunciazione (2,85 cm) ad inizio mostra (era successo così disgraziatamente con il Bellini due anni fa: pronti via con la Pala di Pesaro).

Infine. Noto che nell’introduzione di Claudio Strinati non ricorre mai il nome di Roberto Longhi. Continua quindi l’assurdo accanimento di questa sede espositiva contro il più grande critico d’arte del 900 (era successa la stessa cosa, in modo molto più scoperto, con Antonello e con Bellini). E allora ricordiamo a tutti coloro che vogliono capire Caravaggio che i testi di Longhi sono ancora attualissimi e non sono per nulla superati. Che lui, marxista, arrivò molto vicino a intuire il segreto della grandezza di questo genio: un cattolicesimo spavaldo, aperto, entusiasta della realtà e della carne. Del resto Caravaggio era cresciuto nella Milano di San Carlo. Ed era arrivato a Roma negli anni finali di san Filippo Neri. Il quale aveva un motto: «state buoni se potete». «Se potete»: in questa raccomandazione paterna ma fluida sta lo spazio in cui Caravaggio costruì la sua appassionata (innamorata e drammatica) parabola.

Written by giuseppefrangi

Febbraio 19th, 2010 at 9:07 am

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Un'irresistibile Cleopatra

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Mettiamola così: alla fine il costume di scena di Arianna Scommegna sembra una tela, per cui mi sento un po’ legittimato a uscire dal seminato. Ma di teatro in realtà si parla. È la Cleopatràs di Giovanni Testori portata in scena al Teatro della Ringhiera di Milano da Arianna Scommegna con la regia di Gigi Dall’Aglio. Ne parlo qui, perché non posso fare a meno di suggerirvi di andarlo a vedere: una cosa davvero da non perdere. Grandioso e travolgente il testo (pensare che Testori l’abbia scritto sul letto d’ospedale poco prima di morire, fa capire quante risorse la vita a volte riservi…) Grande anche lei, l’attrice sola in scena con il ragazzo-ragazza violoncellista (Chiara Torselli). Entra in scena con il grande abito “regale” color panna tutto lindo. Poi, mentre il testo insegue la geografia dell’alta Brianza testoriana, traccia le strade e i paesi su se stessa, intingendo le mani nel verde, nel rosso e colandosi l’azzurro dei laghi. Strade e luoghi diventano una geografia sul corpo. Sino all’epicentro, Lasnigo, là dove tutto nasce: l’origine del mondo…

Non perdetela.

Resta a Milano sino al 28/2 (02.58325578 / 02.87390039: www.atirteatro.it/

Written by giuseppefrangi

Febbraio 18th, 2010 at 10:37 am

Quel volto di Lourdes, Picasso e Godard

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È un piccola storia affascinante quella chi vi propongo e che devo ad un amico che sta sempre all’erta, Marco Dotti. Si torna a parlare di Lourdes per il film che è arrivato in questi giorni nelle sale, ma su Lourdes c’è un episodio che pochi conoscono. Bernadette Soubirous non aveva mai voluto riconoscere somiglianze tra l’immagine della figura (“Aquero”, l’aveva chiamata nelgli interrogatori, che nel dialetto occitano significa “quella là”) che le era apparsa e le Madonne dipinte dai grandi pittori che aveva potuto vedere riprodotte. Nel 1905 monsignor Delannoy, vescovo di Dax, riferì che Bernadette (morta nel 1879) una volta cedette alle richieste di un religioso che le sottopose un album con delle immagini. Sfogliando si fermò sull’icona bizantina di Notre Dame de Cambrai. Una piccola tavola del XIV secolo, probabilmente di origine dalmata, che rappresenta il tipo della Vergine della tenerezza («voilà ce que je trouve le plus ressemblant», avrebbe detto). Ed è proprio negli Annali del santuario francese che si trova traccia di questa testimonianza di monsignor Delannoy.

Ora, si può guardarla e poi cercare di capire quale fosse il tratto che avesse in particolare avesse richiamato Bernadette. Ma la cosa curiosa è che questo “identikit” ha suscitato l’attenzione di due grandi insospettabili del secolo scorso.

Uno è Picasso , al quale sottopose la cosa André Malraux che così riferisce il dialogo in un articolo pubblicato su Le Figaro Littéraire nel 1974:
«… Le ho detto, la Vergine di Cambrai è un’icona. Ridipinta, ma nessun movimento, nessuna profondità, nessun illusionismo. Il sacro. E Bernardette non aveva mai visto un’icona.
E Picasso prese a riflettere: – Lei ne è sicuro?
– Le lettere del Vescovo sono state pubblicate. E a chi sarebbe servita la menzogna?
– Un intrigo di cubisti!… Veramente vorrei vederla, la sua Vergine…
– Si trova sempre a Cambrai. Le manderò la foto…
– Che la ragazza l’abbia riconosciuta è strano… Ma che i Bizantini l’abbiano inventata, ciò stupisce davvero… – osservò Picasso -. Bisogna riflettere. È interessante. Da dove viene?»

L’altro è Jean-Luc Godard, che fa cadere la questione in modo inatteso e sorprendete in un suo film poco noto ma molto intrigante, girato a Sarajevo nel 2003, Notre Musique. Durante una lezione sulle immagini davanti ad un gruppo di ragazzi, Godard nelle vesti di professore rievoca l’episodio e la sorpresa. Ma l’immagine che mostra è un volto di vergine di un  affresco screpolato. E il commento sobrio, con la voce profonda del regista le parole di Malraux: «Nessun movimento, nessuna profondità, niente illusionismo, è il sacro».
Cosa insegna questo episodio? Conferma la potente, travolgente attrazione che porta l’esperienza religiosa a rovesciarsi in immagini. A trovare un riscontro visibile. Sottolineo in particolare la battuta di Picasso: «…ma che i Bizantini l’abbiano inventata stupisce davvero…» (c’è un filo di nostalgia in quelle sue parole; come ammettesse che a lui una simile “fortuna” non era toccata…)

Written by giuseppefrangi

Febbraio 14th, 2010 at 1:50 pm

Cosa avrebbe fatto Rothko in Vaticano

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Bella sorpresa quella che ci ha fatto l’amico Luca Fiore nel suo blog No Name: in una pagina dei Ricordi di un collezionista di Giuseppe Panza, ha scovato questa notizia inedita sull’ultimo Mark Rothko. Scrive Panza: «L’ultima volta che ci vedemmo, non molto prima della sua malattia, chiese a mia moglie di contattare il Vaticano per fare una Cappella a Roma. Non prendemmo iniziative, avendo molti dubbi sull’accoglienza della proposta, conoscendo le difficoltà del Vaticano di capire l’Arte Astratta».  Quindi non se ne fece nulla, ma resta l’affascinante interrogativo di capire che cosa avesse in testa Rothko, per arrivare ad esporsi su una richiesta simile. Lui con la sue radici ebraiche, lui con quel suo precipitare calmo, tragico e solenne verso una pittura di tomba, che punto di contatto poteva intravvedere con la tradizione ridondante e carnale della cattolicità romana? Non ci sono molti indizi per capirlo. Tuttavia ricordo che alla recente mostra romana, m’avevano sopreso delle grandi carte azzurre, datate 1969: cioé l’anno prima di darsi la morte. Erano del tutto anomale rispetto alla sua parabola che sembrava con implacabile coerenza andarsi a chiudere dentro quegli immensi orizzonti neri. C’era un che di sorprendentemente tenero in quelle opere, come un balbettio di un senso aspirato e intravisto. Forse dopo la Black chapel di Houston, luogo di meditazione per eroi disperati, nel cuore di Rothko era baluginata l’immagine di una cappella tutta azzurra. Quasi un lampo di paradiso. Prendiamoci la libertà di pensare che fosse proprio così…

(Post scriptum: c’è un aspetto di Rothko che andrebbe scavato ed esplorato in tutte le sue potenzialità: è il richiamo imponente alla “frontalità”. Qualcosa che richiama Ravenna e Bisanzio. È un pensiero da sviluppare…)

Written by giuseppefrangi

Febbraio 9th, 2010 at 12:01 am

Giacometti, genio fratello

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Ho sempre avuto un debole per Giacometti. Un po’ perché viene da un paese e da montagne stupente come quelle di Stampa e della Val Bregaglia. Un po’ perché l’ho sempre stimato il suo modo di rapportarsi con le persone, a cominciare da sua madre e da sua moglie Annette (stimata per quanto tradita). Un po’ perché ha il pregio raro di essere solidale con le attese acute degli uomini del suo tempo. Giacometti è un genio fratello.

Per questo sono contento che abbia stabilito un incredibile record di asta con il suo Uomo che cammina (75 milioni di euro a Sotheby’s di Londra). Chi non si sente soggetto di quell’opera? “Bronzo a taglia umana” è stato definito nella scheda di presentazione per l’asta londinese. Quell’uomo è ciascuno di noi, per una volta considerato più caro e di maggior valore di tutti i capolavori dei saltimbanchi del 900. Giacometti è roba “nostra”  (guardatelo mentre cammina, alla Biennale 1962, a fianco del suo Uomo che cammina, fotografato dall’occhio folgorante di Cartier Bresson; ha la stessa inclinazione, che è anche la nostra). C’è dentro un impeto in quel passo; una decisione presa, un’inquietudine che non ferma l’azione ma semmai la alimenta. È l’uomo che non si accontenta di sé, il suo stare consiste in un andare. Cartier Bresson lo ha capito e ha preso la scultura dal lato giusto: cioé non frontale. Dell’Uomo che cammina è fondamentale quell’inclinazione del busto, quel suo proiettarsi in avanti.

Sentite come rispose a una domanda di André Parinaud: « Perché troviamo bella una cosa? Perché un albero, o il cielo, o un volto, ci sembra bello e non banale? Qualcuno ritiene che la realtà sia banale, che le opere d’arte siano più belle. Per me non è più così! Un tempo andavo al Louvre e i quadri o le sculture mi davano un’impressione sublime… Le amavo nella misura stessa in cui mi davano più di quello che vedevo della realtà. Le trovavo veramente più belle della realtà stessa. Oggi, se vado al Louvre, guardo la gente che guarda le opere. Il sublime oggi per me è nei volti più che nelle opere… Tutte quelle opere hanno un’aria così misera, così precaria, un percorso balbuziente attraverso i secoli, in tutte le direzioni possibili, ma estremamente sommario, ingenuo, per circoscrivere un’immensità formidabile – la vita. Ho capito che mai nessuno potrà coglierla compiutamente… È un tentativo tragico e risibile». (qui la trovate in integrale)

Written by giuseppefrangi

Febbraio 4th, 2010 at 6:53 pm