Ha fatto bene l’amico No Name a mettere in fila le cinque versioni dei Giocatori di Carte di Cézanne, per meglio far capire l’importanza del quadro che è stato comperato dalla famiglia reale del Qatar, per 250milioni di dollari, record assoluto mai pagato per un quadro.
Siamo agli inizi degli anni 90: Cézanne, alle soglie della sua ultima grandiosa stagione, inizia a pensare rigorosamente per motivi, che di studio in studio vuole portare sempre più vicini all’immagine che ha in testa. I Giocatori di Carte sono uno di questi motivi a cui lavora nella prima metà del decennio. Il percorso è lineare: si parte dalla versione più grande, quella conservata alla Barnes di Filadelfia in cui l’ambiente è quello riconoscibile dell’atelier con il grande tendone e le pipe appese al muro; i giocatori sono tre, cui si aggiungono un uomo e una ragazza che assistono al gioco. La seconda versione è quella del Metropolitan: le dimensioni si riducono, sparisce la ragazza, l’interno si spoglia di alcuni elementi occasionali. Lo stacco delle tre successive versioni è invece netto: a partire da quella Courtauld non restano che due giocatori e la funzione compositiva che veniva svolta dal giocatore frontale, viene assegnata da Cezanne a una bottiglia di vino, messa al centro. Il fatto che sul tavolo non ci siano bicchieri toglie ogni dubbio sul senso di quella bottiglia. Stessa costruzione per l’esemplare finito in Qatar e per l’ultima versione oggi al Musée d’Orsay.
Ma la vera differenza tra queste due serie è più profonda e radicale. Nei primi esemplari il punto da cui Cézanne sta guardando la scena è chiaro e tranquillo: come qualcuno ha detto giustamente è un Cézanne che ha un punto di vista ancora “courbettiano”.
Con le ultime tre versioni invece avviene un vero terremoto dello sguardo; il punto di vista ormai è destabilizzato: è frontale ma nello stesso tempo anche dall’alto. La linea del tavolo non è più orizzontale ma viene intaccata da quel senso “obliquo” che è la cifra dell’ultimo Cézanne. La costruzione tanto più si mostra capace di concepirsi solida (le curve “giottesche” delle schiene dei due giocatori, collaudate in alcuni straordinari disegni, ne sono la testimonianza) tanto più si trova a rischiare una precarietà degli equilibri, a sperimentare l’ansia del quadro che non si chiude mai in una forma raggiunta. È come se una grandiosa e drammatica incrinatura avesse spalancato le immagini. Ma è proprio qui la grandezza dell’ultimo Cézanne, pittore “aperto”, magistrale nel concepire geometrie ma destinato a non poterle mai poggiare su terreni che tengano. Il percorso dei Giocatori di Carte da questo punto di vista è di un’esemplarità quasi didascalica.
PS: una curiosità. Ci si è chiesti in quale gioco siano impegnati i paesani di Cézanne (il contadino Pére Alexander, a sinistra, e il giardiniere Paulin Paulet a destra). Visto che i giochi da fare in due non sono molti c’è chi ha pensato ad una specie di gin rummy (per altro inventato qualche anno dopo). La cosa più verosimile è quella suggerita da Meyer Shapiro: «Sono impegnati in un solitario collettivo». Del resto è provato che Cézanne facesse posare i suoi modelli uno alla volta. Quindi uno giocava la partita solo con se stesso. Proprio come il genio che stava al cavalletto…