Robe da chiodi

La filatrice di Ceruti: l'energia del bene

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La definitiva donazione ai musei di Brescia di questo capolavoro di Giacomo Ceruti (La filatrice), che faceva parte del ciclo di Padernello, mi ha smosso un pensiero che se ne stava sopito e non adeguatamente messo a fuoco. Che questa tela sia un capolavoro, ci sono pochi dubbi: un quadro che sprigiona una simpatia umana come pochi. Un quadro fatto di niente, com’è fatta di niente la vita della filatrice. Eppure che cuore, che densità affettiva, che positività calma e irriducibile, che senso sano della vita sprigiona questo Ceruti! Inutile “dirne” perché quest’immagine parla con una decisività e con una evidenza che non ha bisogno di nessun supporto interpretativo. Piuttosto la domanda da fare è questa: su che cosa poggia un capolavoro come questo? Che tipo di struttura intellettuale lo ha generato? Perché la spontaneità non basta a spiegare, non basta dire che Ceruti era un pittore di natura “buona”. Ecco perciò il concetto che volevo mettere a fuoco: questo quadro è generato dall’energia del bene. È una categoria a cui non si dà mai dignità culturale.  Che si relega alla sfera dei comportamenti. Invece il bene è anche una categoria intellettuale, che quindi genera forme e immagini, che determina una coerente visione del mondo. Questo quadro di Ceruti è una quintessenza di questo senso del bene. Ma non è certo un quadro che si tira indietro, che accetta di farsi da parte nel segno di una docilità malintesa. Direi che la sua bellezza sta in una potenza mai prevaricante, eppure certamente in azione. Una potenza che ha nella travolgente persuasività la sua forza.

Il paragone immediato è a quel capolavoro assoluto che sono i Promessi sposi: li ho appena riletti e non ho finito di contare quante volte ritorna la parola “bene” tra quelle pagine. Ma vi dico che siamo vicini alle 500 occorrenze! Il bene come struttura del mondo, come motore della conoscenza, come energia generatrice dei rapporti che reggono la quotidianità. Forse  sarebbe l’ora di sdoganarlo…

Written by giuseppefrangi

Maggio 10th, 2010 at 10:59 pm

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Caravaggio non ci sta più nello scaffale

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Ho contato tra gli scaffali nella mia libreria. E ho scoperto di avere 42 libri su Caravaggio (solo Picasso lo batte con 51). Dovessi tenermi aggiornate con quel che sta uscendo dovrei uscire di casa e aprire un mutuo… Ma sinceramente non ce n’è bisogno. Basta sfogliare i volumoni in libreria per capire che si tratta sempre di ricicciamenti delle cose che si sanno. Le nuove uscite non sono mia il frutto di ricerche, ma alambiccamenti di operazioni editoriali. Oltrettutto non sono neppure buone la campagne fotografiche (il volume di Electa, di Francesca Cappelletti – 90 euro – ad esempio ha immagini magnifiche che si alternano a cadute di qualità scandalose, tipo la Resurrezione di Lazzaro). Tutti si piccano di dare chiavi ermeneutiche sulla pittura e sul personaggio. Ma sono in genere interpretazioni che lasciano tutti il tempo che trovano. Francamente l’ultimo libro che mi sia capitato tra le mani nel quale abbia trovato cose che non si sapevano è quello di Cristina Terzaghi dedicato al rapporto tra C. e i Costa («Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le ricevute del banco Herrera & Costa», 2007) . Lì troverete ad esempio tutta la ricostruzione del caso che portò alla realizzazione della Giuditta (con il nesso straordinario con il dramma di Beatrice Cenci e il ritrovamento del corpo di santa Cecilia: Roma, 1598). Certo nel panorama di chi lavora e indaga su Caravaggio si sente il vuoto lasciato da un personaggio come Luigi Spezzaferro.

Per cui a chi mi chiede suggerimento su cosa leggere, Longhi a parte, raccomando l’utile e precisa biografia di Helen Langdon uscita nel 2002 da Sellerio. Sono 490 pagine a 24 euro. Ho molto attinto da questo libro poco spocchioso per realizzare una biografia di Caravaggio fatta per gli amici di 30Giorni. Leggete qui se volete…

Written by giuseppefrangi

Maggio 8th, 2010 at 3:01 pm

Enzo Cucchi ha la mira giusta

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Bella, davvero bella l’intervista ad Enzo Cucchi firmata da Alain Elkan (“Il talento è un vizio assurdo”. La Stampa, 25 aprile. Non è archiviata purtroppo dal sito del quotidiano). Cucchi non si lascia mai prendere. Ci infila, e scappa via, secco, all’istante. Il modo di comunicare di un artista difficilmente è logico. Il meccanismo mentale è come quello di un bambino: arriva sulle cose e non capisci come abbia fatto. Azzecca immagini inimmaginate. Cucchi è così.

Domanda: Lei che artista è? Risposta: Sicuramente il migliore. Lo sanno gli artisti e sfido qualcuno a dire il contrario. Domanda: Che cosa vuol dire il migliore? Risposta: Il più pericoloso, il più fortunato e talentuoso. Oggi gli artisti sono garantisti, consociati in qualcosa che rassicura. Io ho dei pensieri senza giudizio, quello che accade è necessario ma ingiudicabile. Gli artisti esercitano vetrinismo, i musei sono pieni di casalinghe dell’arte. Gli artisti sono consenzienti.

Domanda: Lei disegna molto? Risposta: Faccio solo quello, e non disegno per narrare e raccontare quello devono farlo gli scrittori e gli illustratori. Il disegno è un’idea di un giorno… Domanda: Quanti disegni diventano poi quadri? Risposta: Non è importante quanti quadri ci saranno dopo un disegno. Un disegno seleziona un altro disegno. Dietro ogni grande autor c’è il disegno gli altri sono decoratori. Domanda: Come si impara a disegnare? Risposta: Non si impara. La cosa necessaria è l’istinto per le proporzioni. È come la mira, c’è chi sa mirare e chi no. Domanda: Bisogna esercitare molto la mano? Risposta: Non è fondamentale, una mano può essere perfetta ma non vuol, dire nulla.

Domanda: Il talento non finisce mai? Risposta: Io sono vittima. Sono un portatore sano, come se fosse un pregiudizio e un vizio assurdo.

Domanda: Lei lavora tanto? Risposta: Soprattutto quando striscio i muri.

Written by giuseppefrangi

Maggio 4th, 2010 at 11:35 pm

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1 maggio, da Pellizza sino a Jeff Koons

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Giustamente tempo fa l’amico Flaviano Zandonai dal suo Blog lamentava il fatto che quando  un giornale pubblica un articolo di riflessione sul tema del lavoro il corredo iconografico sia sempre il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Non è possibile che l’arte in oltre un secolo non abbia sviluppato un’altra immagine del lavoro efficace ed emblematica quando quella? Il lavoro rappresentato da Pellizza sembra aver poco a che vedere con la realtà del lavoro di oggi.

Qualche esempio in realtà c’è. Ma è sparuto. Ho in mente le opere di Fernand Leger, prima metà del 900, con i suoi operai costruttori: un inno un po’ sognante alle “magnifiche sorti e progressive”. Ma nessuno, a mia conoscenza, che abbia sviluppato un’immagine capace di diventare “simbolo” della stagione del lavoro flessibile e immateriale.

È come se questo lavoro non avesse più una sua immagine, una sua energia identitaria, ma fosse una specie di buco nero nella coscienza collettiva. Più che per una sua presenza, il lavoro parla in assenza. Ho in mente le stupende foto di Gabriele Basilico, tra le Milano delle fabbriche dismesse. Monumenti di una stagione eroica, di una cultura industriale con tante contraddizioni dentro ma una grande energia umana che le aveva fatte essere.

Oggi il lavoro è anonimo, è muto, senza un volto. E l’arte che non ha il coraggio di entrare nel merito di questa sfida, rischia di ridursi a essere la ciliegina su una società pensata e modellata come un grande parco giochi.

In una recente intervista a Jeff Koons, uno dei più ricercati e quotati artisti viventi, si può trovare una ragione di questa disatnza tra l’arte e il lavoro. Koons spiegava, con grande sincerità, come è organizzata la produzione delle sue opere: «Il lavoro artistico è il gesto, l’idea. Creo le immagini delle mie opere al computer e i miei assistenti le realizzano al mio posto. Vengono create delle mappe molto elaborate e preparati i colori in modo che non debbano prendere nessuna decisione: sono la mia estensione». Il lavoro ormai è una dimensione eterea e immateriale. È un’idea non un azione. È uno stato e non un agire.

PS. Come immagine del lavoro ho una preferenza assoluta e forse poco moderna. Ma credo che commuova chiunque. È il San Giuseppe falegname di Georges De La Tour. La fatica di Giuseppe è una fatica lieta. Gesù ragazzino gli fa luce in una complementarietà che racchiude tutta la bellezza della vita. (anche il “lavoro” di Jeff Koons avrebbe bisogno di una presenza così…)

Written by giuseppefrangi

Aprile 30th, 2010 at 3:47 pm

Il Paradiso di Giuseppe Panza

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Giuseppe Panza di Biumo, morto ieri a 87 anni, era un uomo pacifico: non c’è bisogno di averlo conosciuto per capirlo. Basta guardare le opere che raccoglieva. Se c’è un filo conduttore che lega le migliaia di quadri della sua collezione nella sua vita probabilmente è quello di un’arte in cerca di armonie più profonde con la vita. L’arte per Panza era risonanza di un assoluto, eco di un equilibrio che andasse oltre la drammatica dialettica della storia. Tra gli antichi amava Beato Angelico ed è una preferenza molto coerente. Gli autori con cui ha rempito partei ed ambienti della magnifica villa di Biumo, si muovono tutti su registri con spostamenti infinitesimali. Monocromi che vibrano di differenze impercettibili, quadri o installazioni che hanno il suono misterioso del silenzio. Che sono incorporei come i pensieri.

Certamente nella testa e nel cuore di Panza queste erano immagini riflesse di un paradiso; echi di un bello che oggi dovrebbe sperimentare nella sua pienezza. In realtà mi permetto di fargli un altro augurio: di aver scoperto oggi che il Paradiso è molto meglio, che non è un vuoto ma un pieno. Che la purezza non è un’assenza ma una presenza. Soprattutto che il Paradiso è pieno di quei corpi (lassù redenti) che per coerenza con la propria sensibilità e il proprio cuore, ha lasciato sempre fuori dalla porta delle sue straordinarie collezioni.

Qualche numero di Panza: 150 opere al Moca di Los Angeles (tra cui tutti i Rothko e i Rauschenberg); 350 al Guggenheim; 200 al museo Cantonale di Lugano; 60 a Rovereto; 133 più 45 ambienti a Villa Panza.

Written by giuseppefrangi

Aprile 25th, 2010 at 10:02 pm

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Pippa Bacca, la lavanda dei piedi per il terzo millennio

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M’ha commosso sfogliare il libro che documenta l’ultima performance di Pappa Bacca. Vestita da sposa, con un abito “cipolla” che strato per strato, in tante tasche, conteneva il necessario per vivere, era partita in autostop per la Turchia («La scelta del viaggio in autostop è una scelta di fiducia negli altri esseri umani, e l’uomo, come un piccolo dio premia chi ha fede in lui»). Com’è finita lo sappiamo. Ma adesso, se proviamo a “smontare”  la logica di questa avventura ci si accorge come tutte le scelte avessero una loro tenace coerenza. È una coerenza che suggerisce un’idea di estrema purezza. Una coerenza intuitiva, leggera, senza pretese. L’abito da sposa che è l’abito puro di un giorno, diventa l’abito che dura (puro) per tutta un’esperienza. Con l’abito bianco Pippa attraversa territori che sono stati insanguinati da guerre recenti. E sembra che il rito di purificazione non riguardi solo lei ma anche i paesi che attraversa.

Questa performance vagante è scandita da un rituale ripetuto ad ogni tappa: Pippa si fermava nei reparti di ginecologia e e faceva la lavanda dei piedi ad un’ostetrica. Si era portata da Milano una bacinella; inginocchiata lavava i piedi della prescelta e poi li asciugava con la mantellina che era parte del suo vestito. Infine li ungeva di profumi. Durante il “rito” faceva domande sull’esperienza del vedere nascere, sul partorire, sulla maternità. Chiedeva il racconto sul primo bimbo fatto nascere. In questo modo l’arte chinata rendeva umilmente omaggio alla vita (l’immagine qui a fianco mi pare renda questa idea, nell’intreccio delicato di carni e di bianco)

Bella anche la poesia di Edoardo Sanguineti con cui Pippa Bacca spiegava il senso del suo progetto:

«Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire»

(La Ballata delle donne: qui la trovate completa).

Written by giuseppefrangi

Aprile 23rd, 2010 at 10:09 pm

La bella transitorietà del design

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Mi ha colpito e divertito l’effervescenza che per qualche giorno ha acceso Milano in ogni angolo per il Salone e il Fuori Salone. È bella l’estemporaneità ed è bello il fatto che tutto d’improvviso svanisce in un batter d’occhio. Il design per sua natura non è supponente. È un’espressione che per vocazione è transitoria, è legata ad un momento e incorpora in sé, senza nessun dramma, la consapevolezza che ad un certo punto si deve smontare e uscire di scena.  Il grande design è sempre ironico, anche quando diventa un classico e da qualcuno viene (disgraziatamente) rinchiuso in un museo. È ironico perché vive di continue mediazioni con i bisogni di chi lo usa oppure con gli innesti azzeccati o no di chi lo produce: oggi mi sono seduto su una Lc2 di Le Corbusier; oggi ho visto le bizzarre varianti di colori che Cassina propone 70 anni dopo della Lc2 di Le Corbusier.  (“Tout pas, tout lasse, tout se remplace”, recita un bel detto francese…).

In quattro giorni Milano si è riempita di queste idee leggere, che tante volte però si sviluppano da passioni profonde e da un lavoro pervicace. La sintesi più chiara l’ho travata in questa breve nota autobiografica di Alessandro Mendini, che dall’alto della sua storia e dei suoi 80 anni svela un’altra caratteristica del design: quello di essere sempre giovane.

«Io mi chiamo Mendini che deriva dalla parola “rammendini”, che designa un mestiere medievale – spiega con ironica pacatezza – anche in inglese to mend vuol dire “aggiustare le cose rotte”. È un termine perfetto per me: io lavoro sul lavoro degli altri, io metto a posto. Quando penso a un eventuale autoritratto, mi raffiguro con il vestito di Arlecchino, che è appunto un patchwork di vecchi vestiti altrui».

Infine, il design aiuta a scoprire punti di vista straordinari di Milano (città molto meno rodinaria di quanto siamo abituati a credere): guardate questa foto, con l’angolo del Cortile del Filarete  su cui s’innesta il cappello cubico della Velasca.  Un rapporto di forme imprevisto e strepitoso, con cinque secoli di gap (in primo piano l’installazione di Jacopo Foggini).

Written by giuseppefrangi

Aprile 21st, 2010 at 10:54 pm

Sull'omosessualità del Caravaggio

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Caravaggio era omosessuale? Una battuta scherzosa di Roberto Maroni, mentre rivendicava al proprio ministero (attraverso il Fondo edifici di culto) la proprietà della chiesa di Santa Maria del Popolo, ha rilanciato la questione: «Caravaggio era gay e lumbard», ha detto. Sulla cosa in realtà c’è da discutere. In passato cera stato uno scontro tra Bernard Berenson e Roberto Longhi sulla questione. Berenson, che rera omosessuale, aveva tirato dalla sua parte Caravaggio. Longhi lo aveva strapazzato con un saggetto dal titolo davvero irrispettoso: «Novelletta del Caravaggio “invertito”» (pubblicato su Paragone nel 1952). Erano tempi in cui la cultura di sinistra era rigorista e poco propensa a derive radicali e Longhi ne è piena espressione. Nel saggetto si diverte a demolire una prova sull’omosessualità di Caravaggio (la notizia, molto tardiva, di una sua opera che avrebbe rappresentato 30 uomini «ignudi che si abbracciano lubricamente»). Poi Longhi perfidamente fa capire qual è la questione: che Caravaggio più che essere omosessuale, piace agli omosessuali. Ed elenca gli intellettuali che bussavano alla sua porta per godersi l’immagine del Ragazzo morso dal ramarro. Tra gli altri ricorda Giuseppe Ungaretti (che fece un elegante e anche doloroso outing in una bellissima intervista concessa a Pier Paolo Pasolini: riguardatela).

Oggi il partito negazionista dell’omosessualità ha in Maurizio Calvesi il più ostinato paladino. Ma, premesso che la cosa non è molto importante a capire Caravaggio, bisogna dire che i quadri di più scoperto tenore omosessuale, sono quelli dipinti nei primi anni romani: ma quanto quei soggetti sono indotti dall’esplicita omosessualità del committente (il cardinale Del Monte) e quanto invece “parlano“ delle preferenze di Caravaggio? Con il passare degli anni questi riferimenti in effetti si diradano. E d’altra parte bisogna riconoscere che Caravaggio ha una capacità a volte prorompente nell’interpretare la fisicità femminile: ne sono testimonianza la bellezza a tutto tondo della Madonna dei Pellegrini o di quella dei Palafrenieri.

Ci sarebbe poi da parlare del suo rapporto con le più ambite prostitute romane come quella Fillide Melandroni che posò per la Santa Caterina (Thyssen) e a cui fece un ritratto distrutto sotto le bombe a Berlino (ma il ritratto era destinato all’amante di Fillide, Giulio Strozzi; foto qui sotto). Era quello il tipo di donna che funzionava per Caravaggio; Geronima Giustiniani, che posò come Giuditta e come Maddalena, non era molto diversa.

E se risolvessimo la questione ipotizzando che Caravaggio fosse bisex?

Written by giuseppefrangi

Aprile 17th, 2010 at 10:10 pm

Al Louvre, a caccia di soffitti

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Al Louvre, settimana passata, non ho mancato di andare a vedere il nuovo soffitto di Cy Twombly per la sala dei Bronzi (ala Sully). Sinceramente una cosa non memorabile. Un cielo olimpico un po’ imbolsito, nel quale rotolano pianeti palloni e scandito da belle scritte in greco che sembrano degli eleganti fumetti. Ma la cosa che mi ha colpito è che nella sala precedente, in un sontuoso soffitto cinquecentesco si vedevano tre riquadri con altri bellissimi cieli riempiti da voli di grandi ed eleganti uccelli. Erano cieli di un blu schiantante, su cui si ritagliavano le sagome “matissiane” dei volatili. Tanto il nome di Cy Twombly era sontuosamente annunciato da cartelli indicatori e da grandi targhe fisse agli ingressi dalle Sala, tanto l’autore di questa sala invece risultava misterioso. Per capirlo ho dovuto rivolgermi a un guardiano che mi ha indicato un lungo pannello illustrativo della sala. Nelle ultime righe c’era indicato il nome di Georges Braque, che aveva dipinto i tre riquadri nel 1953. Braque, mica l’ultimo dei maestri del Novecento… A volte sembra proprio che il contemporaneo dia alla testa. Quasi una forma di idolatria che rende un tutti un po’ beoni… o non è così?

Comunque godetevi Braque.

Written by giuseppefrangi

Aprile 13th, 2010 at 10:37 pm

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Cinque buoni pensieri domenicali

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Gillo Dorfles (sul Corriere della Sera, articolo alla vigilia dei suoi 100 anni). «Non  rimpiango di aver relegato la Body art e l’estetica della crudeltà. In un’epoca come la nostra, dove c’è chi uccide la figlia perché ha un fidanzato italiano, o ammazza i genitori per l’eredità  e in cui insomma la crudeltà è un fatto da prima pagina quotidiana, che senso ha mettere in mostra, come fa la Abramovic, le ossa degli animali uccisi? Oppure ferirsi? Certo, accanto a un’arte del Bene è sempre esistita un’arte sadica o masochistica. Ma viviamo già oggi in un’epoca in cui il male è un elemento privilegiato, che bisogna c’è di propagarlo?»

Maurizio Cattelan, intervista a Klat. «Sono cresciuto in un clima religioso. Ho fatto il chierichetto e ho passato molto tempo all’oratorio in chiesa, perché er il modo di essere libero. Se sono credente? Se non fossi in qualche modo credente, certi miei lavoratorin non esisterebbero. Però non ho ancora affrontato la malattia e la sofferenza, quindi non ho le idee chiare in merito. Ma c’è una parte di me, quella buona che sente qualcosa…»

Martino Gamper, intervista a Klat. «Non amo il termine riciclo, ha una valenza tipica della qualità scadente: dopo il riciclo, il materiale non è mai il meglio delle sue possibilità. In inglese, c’è il termine recyclicing e upcycling, cioè dargli un altro ciclo, un’altra vita. La sedia per strada che nessuno più usa un valore nullo; darle un’idea, includerla in una delle mie sculture significa rivalutarla… L’ecologico, se basato sul puro riciclo, dura ancora meno e supporta l’idea di un sistema debole e consumistico. Una sedia non dovrebbe costare 30 euro, dovrebbe costare molto di più e durare una vita intera».

Alessandro Mendini, intervista a Flash Art. «Per chi ha fatto l’architetto o il designer, i progetti nascono dai vincoli che sono utilissimi, però mi piace pensare che l’architetto non abbia vincoli. È per questo che spesso ha antenne più lunghe».

Ernesto Nathan Rogers (editoriale di Domus gennaio 1946, il primo nel dopoguerra, ristampato oggi). «La casa è un problema di limiti (come del resto quasi ogni altro aspetto dell’esistenza). Ma la definizione dei limiti è un problema di cultura e proprio ad esso si riconduce la casa (come, infatti, gli altri dell’esistenza). Se è così, anche le parole sono materiale da costruzione. E anche la rivista può aspirare ad esserlo… Si tratta di formare un gusto, una tecnica e una morale, come termini di una stessa funzione. Si tratta di costruire una società».

Written by giuseppefrangi

Aprile 11th, 2010 at 3:23 pm