Oggi si chiude la mostra di Lecco, dedicata a Testori e Manzoni. È stata un successo oltre ogni previsione (ieri è stato staccato il biglietto numero 9mila). Ma a parte questo consenso, resta la sensazione di aver realizzato una mostra risucita proprio nella sua idea di base e nel suo dispositivo. La chiave di Testori è una chiave straordinaria per entrare in Manzoni. Il legante è il legante del luogo, concepito e vissuto come punto fisico in cui il destino ti viene incontro con indicibile tenerezza. Il luogo: Lasnigo, per Testori, Lecco alla fine e sempre per Manzoni. Lui lascia Lecco ventenne, un addio per sempre. Ma quel luogo per lui resta il luogo del destino. Mi ha sempre impressionato e commosso come Manzoni rende l’impatto che Lecco ha su Renzo che torna alla fine dell’avventura, capitolo XXXVII dei Promessi Sposi (i corsivi sono miei): «Non era mai spiovuto; ma, a un certo tempo, da diluvio era diventata pioggia, e poi un’acquerugiola fine fine, cheta cheta, ugual uguale: i nuvoli alti e radi stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano; e il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d’intorno. C’era dentro il suo; e quel che sentì, a quella vista, non si saprebbe spiegare. Altro non vi so dire, se non che que’ monti, quel Resegone vicino, il territorio di Lecco, era diventato tutto come roba sua». Tutta come roba sua: segno di un destino compiuto, di un approdo in porto, di una corrispondenza riacciuffata. Non una storia che finisce, ma una storia che può davvero cominciare… Chi non vorrebbe poter in un momento della propria vita dire quel che Manzoni fa pensare a Renzo in quell’istante?
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La filatrice di Ceruti: l'energia del bene
La definitiva donazione ai musei di Brescia di questo capolavoro di Giacomo Ceruti (La filatrice), che faceva parte del ciclo di Padernello, mi ha smosso un pensiero che se ne stava sopito e non adeguatamente messo a fuoco. Che questa tela sia un capolavoro, ci sono pochi dubbi: un quadro che sprigiona una simpatia umana come pochi. Un quadro fatto di niente, com’è fatta di niente la vita della filatrice. Eppure che cuore, che densità affettiva, che positività calma e irriducibile, che senso sano della vita sprigiona questo Ceruti! Inutile “dirne” perché quest’immagine parla con una decisività e con una evidenza che non ha bisogno di nessun supporto interpretativo. Piuttosto la domanda da fare è questa: su che cosa poggia un capolavoro come questo? Che tipo di struttura intellettuale lo ha generato? Perché la spontaneità non basta a spiegare, non basta dire che Ceruti era un pittore di natura “buona”. Ecco perciò il concetto che volevo mettere a fuoco: questo quadro è generato dall’energia del bene. È una categoria a cui non si dà mai dignità culturale. Che si relega alla sfera dei comportamenti. Invece il bene è anche una categoria intellettuale, che quindi genera forme e immagini, che determina una coerente visione del mondo. Questo quadro di Ceruti è una quintessenza di questo senso del bene. Ma non è certo un quadro che si tira indietro, che accetta di farsi da parte nel segno di una docilità malintesa. Direi che la sua bellezza sta in una potenza mai prevaricante, eppure certamente in azione. Una potenza che ha nella travolgente persuasività la sua forza.
Il paragone immediato è a quel capolavoro assoluto che sono i Promessi sposi: li ho appena riletti e non ho finito di contare quante volte ritorna la parola “bene” tra quelle pagine. Ma vi dico che siamo vicini alle 500 occorrenze! Il bene come struttura del mondo, come motore della conoscenza, come energia generatrice dei rapporti che reggono la quotidianità. Forse sarebbe l’ora di sdoganarlo…