Robe da chiodi

La sensualità di Cézanne

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Come si direbbe nel gergo calcistico, in occasione dei sorteggi per la Champions, ad esempio, Milano è una città di terza fascia. La mostra di Cézanne ospitata in queste settimane a Palazzo Reale è una mostra modesta, frutto di una pur generosa intuizione, ma con una fragilissima idea alle spalle. Di Cézanne abbiamo visto almeno quattro mostre di alto o altissimo livello negli ultimi anni. La straordinaria Cezanne finished-unifinshed a Vienna (2000); le due mostre per il centenario a Parigi (Cézanne e Pissarro) e ad Aix and Provence (Cézanne e il Midi) e infine Cézanne and Beyond, a Filadelfia due anni fa. Tutte mostre dettate anche dal’idea di far avanzare in qualche modo la conoscenza e gli studi su questo pittore cardine della modernità. Ovviamente non è il caso della mostra milanese, ma è inutile infierire. Basta sapere che siamo in terza fascia…
Comunque Cézanne è sempre Cézanne e nella scelta delle opere portate a Palazzo Reale c’è una serie di acquerelli conservati al Dipartimento di Arti Grafiche del Louvre, quindi difficilmente visibili, che da soli meritano la mostra. Sono tre “interni”: una serie di vasi di fiori, un interno con un grande tendaggio e una natura morta con mele, pere e una pentola. I primi due degli anni 80, l’ultimo invece a cavallo del secolo. Vedendoli mi sono chiesto se davvero le chiavi con cui ho sempre approcciato Cézanne fossero sufficienti per darmi ragione della sorpresa che questi tre acquerelli mi hanno riservato. E mi sono dato un tentativo di risposta: in Cézanne gioca anche una golosità del reale, inversamente proporzionale alla complicata riservatezza del personaggio. Mi spiego: Cézanne si rivela pittore di una sensualità potente e inaspettata. Le sue mele sono da toccare. O meglio ancora da tastare e palpare. Riempiono le mani, mi verrebbe da dire. Hanno forme che richiamano corpi nella loro pienezza. Hanno l’allure potente di chi non censura nulla del reale. I vasi di fiori hanno una prorompenza mediterranea. La tenda si apre su un interno vuoto ma denso di respiri e di vita. Forse non si spiega pienamente Cézanne se si censura quest’attrattiva sensuale che il reale esercitava su si lui. Che poi lui la controllasse con la disciplina mentale propria dei grandi, e con l’energia morale che lo contraddistingueva, non è affatto cosa che contrasti. Ma si ha una percezione più esatta di Cézanne se si tiene presente questa golosità potente che il reale accendeva in lui e che lo attira sin dentro il cuore del reale stesso. Le mele non sono solo forme, volumi (il famoso “cilindro, sfera, cono”): sono polpa.

Qui leggete il grande articolo di Testori sull’altrettanto grande mostra parigina del 1978 sull’ultimo Cézanne.

Written by gfrangi

Ottobre 25th, 2011 at 8:03 am

Per capire Monet è meglio seguire Proust o Péguy?

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Ho letto il piccolo libro uscito da Donzelli di Giuliana Giulietti sul rapporto tra Proust e Monet. Per Proust la conoscenza e gli sguardi gettati sulle opere di Monte rappresentarono un’esperienza estetica importantissima che riemerge tante volte, esplicitamente, tra le pagine dei suoi libri. Al centro di questo interesse c’è l’esperienza del tempo: Proust vede nella pittura di Monet una pittura che dipinge cose che mutano in ogni istante. Ci sono pagine straordinarie evidentemente ispirate da Monet, come quella della descrizione delle ninfee sulla Vivonne, in Dalla parte di Swann. La pittura di Monet interessa Proust perché assimila questo aspetto di inesauribile mutazione delle cose, anche quelle artificiali create dall’uomo (vedi la serie della facciata della Cattedrale di Rouen, che tanto piaceva a Proust). Certamente è una chiave importante per capire la grandezza di Monet. Ma in ultima analisi noto ci sia qualcosa di profondo che mette un’intercapedine tra loro due, come se alla parola magistrale di Proust non fosse data la grazia di un approdo che invece Monet consegue. La descrizione meravigliosa delle Ninfee di Proust resta come una sequenza di sguardi, o meglio di istanti psichici originati da quegli sguardi. In Monet invece le infinite molecole di luce colte dalla sua retina alla fine approdano ad una sintesi. Il senso di frammentarietà introdotto dal tempo e dalla sua transitorietà si traduce in lui in una visione più profonda e unitaria delle cose stesse. In un di più di luce.
Per questo mi pare che per arrivare al cuore di Monet si debba rillegere la pagina che sempre alla sue Ninfee dedicò Charles Péguy. Péguy, come sua abitudine, pone una questione in apparenza secondaria e laterale. Si chiede quale delle Ninfee di Monet sia la più bella. E non ha bisogno di guardarle per rispondere. Spiega infatti che è senz’altro la prima: «La prima ninfea sarà la migliore, perché essa è la sua nascita; è l’alba dell’opera; perché questo qaudro comporta il massimo di ignoranza, il massimo di innocenza e di freschezza… la prima ninfea è il quadro migliore, perché sa di meno, perché non sa affatto… ve lo dico dunque: il primo sarà il migliore perché non sa, perché è proprio esso che è tutto pieno di meraviglia… È la meraviglia che conta, principio sicuro di scienza…». Mi sembra che questo sia l’occhio giusto con cui guardare Monet.
Ecco la pagina di Péguy.

«(..)Monet , quel gran pittore dipingendo trentasette volte le sue celebri, mirabili ninfee ha dipinto anche un grande problema, un concentrato di grande problema, un problema di limite. Dato che ha dipinto trentasette ninfee, anche se sono cose tutte uguali, quale sarà la migliore, la meglio dipinta? quale sarà la volta migliore?. Il primo impulso, l’impulso del buon senso, l’impulso logico, in un certo senso l’impulso meccanico è quello di dire: l’ultima perché dall’una all’altra fino all’ultima, continuamente acquisita, guadagna, incamera, sale di più. E’ un impulso illusorio. E’ proprio la teoria del progresso. La teoria dell’inganno e del disinganno. E’ l’idea, la teoria del progresso temporale indefinito per l’uomo e per l’umanità. Questa teoria ,sostanzialmente moderna, e d è sostanzialmente, una teoria di risparmio, di cassa di risparmio, di fecola e di provvista, una teoria di capitalizzazione e dell’era di capitalizzazione. E io ti dico:la creazione artistica, l’operazione non è affatto una operazione di una capitalizzazione borghese. (..) E allora te lo dico: la prima sarà la migliore perché non sa, perché è lei ancora tutta piena di stupore, anche se sono cose tutte uguali, tutta piena di stupore e di novità. È tutto un problema di genio, anzi, tutto il suo problema temporale è forse là : guadagnare se si può ( ma questo non è molto importante), ma senza perdere, guadagnare, acquisire mestiere, Dio mio, sì, ma , soprattutto, non perdere in stupore e novità, non perdere il fiore, se mai è possibile, non perdere neanche un atomo di stupore. E’ la prima che conta. E’ lo stupore che conta, principio indiscusso di scienza, come ha detto quell’Antico, ma non tanto principio di scienza quanto davvero e realmente , quanto infinitamente di più tra i più profondi principi dell’ adorazione.(..) Il genio non nasce mai, non arriva mai troppo tardi in un mondo troppo vecchio. Ignora proprio cosa sia tardi, cosa sia vecchio, cosa sia invecchiare o invecchiamento. E’ solo giovinezza . E’ solo ignoranza, è tutto ignoranza di invecchiare.(..)

Charles Pegùy, Veronique- Dialogo della storia e dell’anima carnale.

Nell’immagine, Le matin, particolare delle Nimpheas, Orangerie

Written by gfrangi

Ottobre 19th, 2011 at 8:30 am

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C’è un pensiero duchampiano nella pittura di Richter

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Mentre è in corso la mostra alla Tate Gallery, la galleria Marian Goodman di Parigi sta esponendo gli ultimi lavori di Gerhard Richter. il catalogo contiene un saggio di Benjamin H.D. Buchloh. Da cui ho ricavato questo spunto, che mi sembra particolarmente allineato alle frontiere che Richter in questi tempi sta frequentando (il corsivo nel testo è mio). Nell’immagine: 6 Standing Glass Panes, in mostra a Parigi.

«Con questi nuovi dipinti, Richter si interroga sul modo in cui la credibilità della pittura può essere conservata di fronte al recente sviluppo della tecnologia dei media e cultura digitale. Lo statuto della pittura è molto fragile, e per quanto sia stato potentemente formulato nella sua assimilazione con le sfide tecnologiche, la pittura appare nuovamente indebolita nel rapporto con innovazioni tecnologiche. Tuttavia, applicando la strategia duchampiana per riunire tecnologia avanzata e pensiero critico sulla pittura, le opere sorprendenti di Gerhard Richter aprono un nuovo orizzonte di domande. Potrebbero riguardare la funzione attuale di ogni progetto pittorico che non vuole fare passi indietro in rapporto alla pittura del passato, ma che vuole confrontarsi con la distruzione della esperienza pittorica attraverso la pratica stessa della pittura, in contrapposizione radicale alle tendenze totalizzanti della tecnologia, e come atto palese di denuncia della perdita subita dalla pittura, quando si mette sotto l’egida della cultura digitale».

Il link alla mostra parigina
Una bella galleria fotografica della mostra

La grandezza senza retorica di Richter

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«We were playing with fire to see how far one could take the destruction of art». Oggi inaugura la mostra molto attesa di Gerhard Richter alla Tate di Londra. Mostra dal titolo molto richteriano: Panorama. La frase che riporto è tratta da un’intervista che l’artista aveva rilasciato a Obrist su Frieze nel lontano 1993. È una dichiarazione che mi ha impressionato perché sintetizza in modo chiaro e perentorio il rischio che l’arte sta prendendosi oggi; un rischio in cui è riposto anche, paradossalmente, il suo senso. Se mettiamo in rapporto la dichiarazione con il suo autore si capisce come dietro la calma e il controllo che sembra tener fuori la sua pittura dal marasma del contemporaneo in realtà sia una riflessione estrema sul senso e sullo spazio dell’arte. L’ordine, il self control, la parabola quasi classica di Richter alla luce di quella frase mi sembra assumano una profondità che non avevo colto prima d’ora. Anche il suo elegante eclettismo che lo porta a transitare dalla figurazione all’astrazione, dalla fotografia all’impulsività controllata di una pittura gestuale diventano un po’ come la danza di un acrobata sul ciglio di un burrone, che individua con scioltezza e con rapidità di presa tutti gli appigli che gli garantiscono di non cadere. Io amo molto Richter, lo considero capace di una grandezza che forse oggi non ha uguali. Amo il suo procedere sempre così lucidamente logico. Questa sua capacità di restare immune da ogni retorica. Questa sua riservatezza borghese, che tiene la biografia al riparo dai rischi che l’artista pur si prende.
Ma soprattutto capisco che Richter è uno di quegli artisti, sempre molto rari, su cui converge il senso di un’intera epoca. Non geni che spalancano nuove stagioni, ma grandi che raccolgono chi è in rotta e si costringono a dare un ordine credibile alle cose. Cézanne aveva fatto un po’ così, il genio più inconsapevolmente lucido della storia dell’arte moderna.
Nella foto, Mother and child, olio su tela, 1995
Il sito della mostra alla Tate
Il sito di Richter con tutte le sue opere

Written by gfrangi

Ottobre 6th, 2011 at 7:26 pm

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C’è Bacon sul tavolino di Polanski

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I quattro libri sul tavolo della casa di Carnage, l’ultimo film di Polanski: Bacon (catalogo Skira), Kokoschka, Foujita, The Last Supper di Andy Warhol. Libri che appartengono a Penelope Longstreet (Jodie Foster). Su Bacon c’è anche un sinteticissimo dialogo, mentre le due protagoniste sfogliano il volume con un certo imbarazzo Pagine girate in punta di dita…). Nancy Cowen (Kate Winslet): «Orrore e magnificenza». Penelope Longstreet: «Ordine e caos». Un film con un titolo così non poteva che rendere il suo debito a Bacon: un film – carneficina che si consuma tutto dentro la stessa scatola ambientale. Ma l’attaccamento affettivo di Penelope è tutto per il libro londinese di Kokoschka, epicentro della grottesca vomitata di Nancy. Mi sembra quasi un rifugio dai precipizi baconiani…

Written by gfrangi

Ottobre 2nd, 2011 at 9:26 pm

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Il sangue di Artemisia

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L’Artemisia donna trascina l’Artemisia pittrice nella mostra milanese. Un intento dichiarato sin dall’ingresso dominato dalla “messa in scena” dello stupro pensato da Emma Dante (ma perché quel letto a due piazze da hotel design? Ci avrei visto il letto crudo di Tracey Emin…). Operazione ad effetto, che va in senso contrario rispetto a quella fatta nel 1991 dai curatori della mostra di Casa Buonarroti. È un’operazione che ci può stare, perché i confini tra la donna e la pittrice sono davvero labili ed è ormai difficile districare l’intreccio: l’insistenza su soggetti di sangue facilita il tutto (quanto sangue…). Certo se ci fosse stata qualche opera vera del padre Orazio (ma il capolavoro di Brera non poteva proprio arrivare?), avremmo avuto miglior percezione degli affanni dell’Artemisia pittrice, che tiene botta sinché ha il padre alle spalle e procede molto più incerta per il resto del suo percorso. A volte sembra come una spugna che assorbe il clima delle città in cui si vive, come nel periodo napoletano, con la pittura sporca e intrisa di ombre dei teleri di Pozzuoli. Questa almeno è la mia impressione.
Sulla Artemisia donna ricordo il romanzo di Anna Banti, allora Lucia Lopresti. Un romanzo sofferto proprio perché il tempo dell’artista s’intreccia sempre con il tempo della scrittrice. Ci sono passaggi che sarebbero satti benissimo ad inizio mostra… Come questo (le rovine di cui parla sono quelle lasciate dai bombardamenti della guerra, che avevano distrutto la casa in cui aveva abitato Artemisia ma anche la casa della scrittrice).
«Non si può, riconosco, richiamare in vita e penetrare un gesto scoccato da trecento anni: e figuriamoci un sentimento, e quel che allora fosse tristezza o letizia, improvviso rimorso e tormento, patto di bene e di male. Mi ravvedo; e dopo un anno che le rovine sono rovine, né mostrano di essere di più o di meno di tante altre antiche, mi restringo alla mia memoria corta per condannare l’arbitrio presuntuoso di dividere con una morta di tre secoli i terrori del mio tempo. Piove sulle rovine che ho pianto, e intorno a loro i suoni avevano un ovattato sgomento che il primo colpo di badile ha dissipato per sempre. Le due tombe di Artemisia, quella vera e quella fittizia, sono adesso uguali, polvere respirata».

Written by gfrangi

Ottobre 2nd, 2011 at 8:31 am

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C’è Tiziano in casa Almodóvar

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Ci sono due riproduzioni in formato macro delle Veneri di Tiziano (quella di Urbino e quella con l’organista conservata a Berlino) in cima al ballatoio nella casa di Banderas, protagonista del film di Almodóvar (La pelle che abito). È un film pieno di riferimenti artistici, a partire dalla centralità di Louise Bourgeois, cui il/la coprotagonista s’ispira in ambedue le fasi della sua vita, quella machile e quella femminile. C’è anche l’opera di un autore feticcio per Almodóvar come Guillermo Perez Villalta (il quadro nella sua camera) e ci sono i collage di un certo Juan Gatti (il cinema fa anche da volano al mercato). Ma Tiziano è Tiziano e quella sua presenza dominante fa pensare. Il Banderas chirurgo plastico evidentemente vede nelle monumentali distese di pelle dei nudi tizianeschi quasi un orizzonte ideale. Tant’è vero che nella fase psicologicamente più delicata del suo esperimento osservala sua vittima a tutto schermo, su video al plasma che riprende le immagini della stanza affianco. Sdraiata su un letto rosso. Vestita della sua tuta color pelle che protegge la nuova pelle, la protagonista è in posa come una nuova Venere, inquietante e sottilmente allucinata come ogni prodotto da laboratorio.
Perché Tiziano in posizione così trionfale? Immagino che Almodóvar sia stato stregato dall’ostentazione della posa tizianesca, come di una Venere messa in vetrina, che è tutta un “farsi guardare” (no solo da noi: che altro fa l’organista che si gira per ammirare lo spettacolo di carne disteso alle sue spalle?). E poi può essergli scattata l’idea che la pittura di Tiziano sia come una seconda pelle. Che non è un surrogato, né un processo d’imitazione biologica, ma qualcosa di concettualmente diverso: un guscio luminoso che scavalca la sfioritura determinata dal tempo. Le due cose ovviamente non si elidono: la spavalderia della posa può essere proprio determinata dalla coscienza della propria persistenza nel tempo.

Written by gfrangi

Settembre 25th, 2011 at 5:46 pm

Il libro di Romano: Foppa sfonda in cover

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Più la guardo e più la copertina del nuovo libro di Giovanni Romano (Rinascimento in Lombardia, Feltrinelli) mi sembra di una bellezza strepitosa. La scelta dell’immagine è caduta su un quadro di Foppa, il San Gerolamo della Carrara. La tavola è tagliata al centro dal tassello bianco del titolo. Sul margine sinistro e in altro compare la sottile banda nera che fa quasi da cornice al quadro e che lo racchiude con una sorprendente energia grafica. Il quadro vibra di una potenza luministica che buca la pagina e che spiazza rispetto ad ogni riferimento temporale. È un’immagine di cinque secoli fa ma che riaffiora senza sentire il peso del tempo.
Sul San Gerolamo Longhi aveva scritto cose straordinarie, sottolineando quell’imprevedibile e inedita luce laterale che ne faceva il “primo quadro caravaggesco della storia”. Mi viene da aggiungere che quella luce s’annida tutta in uno spazio piccolo, contratto, nervoso. Che deve lottare, perché lo sporco e l’opacità della terra non le fanno sconti. S’accende senza potersi liberare dell’umidità di cui è intrisa tutta l’aria, per cui fanno ancora più specie quelle vittoriose particelle che scintillano nel cielo dell’alba; o quelle filature dorate che, come scrive Romano, disegnano “la groppa della montagna”. Poi c’è lui, il Gerolamo dalla scorza dura, caparbio nella sua alternatività ad oltranza. È padrone della situazione in quella location sfrondata da ogni comodo. È insieme saldo e border line. Un quadro che si “singolarizza”, aveva scritto con la consueta genialità Longhi. Foppa aveva preso di petto la sfida lanciata da Leonardo con la prima Vergine delle Rocce, e l’aveva risolta da par suo, senza fare mezzo passo indietro. La luce imprendibile di Leonardo diventa in lui un fascio nervoso di filamenti guizzanti. Nodi di realtà accesa. Che portati in copertina, la invadono di una tensione che tiene inchiodati i nostri sguardi.

Written by gfrangi

Settembre 22nd, 2011 at 11:32 am

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Il quadro preferito del mio amico Emanuele

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Il mio amico Emanuele Banterle, che oggi è stato accolto nelle braccia del Signore, aveva un artista preferito. L’ho scoperto un po’ per caso lo scorso agosto, quando in occasione del suo compleanno gli avevamo ragalato il catalogo della stupenda nostra parigina (ora a Filadelfia) dei Gesù di Rembrandt. Oggi così posso dire che quelle immagini, in particolare quella stupenda che è stata scelta per la copertina, mi sono diventate ancora più care. Il Gesù di Rembrandt è un Gesù di struggente tenerezza, è un Gesù antieroico. Un Gesù da dietro le quinte: come doveva verosimilmente essere nelle tante pause private, tra un momento pubblico e l’altro. È un Gesù tutto per per lui, Emanuele, che lo guardava (ma allo stesso modo per me), come se fosse seduto dall’altra parte del tavolo, per parlare proprio del suo (mio) destino. Intorno non c’è il rombo della storia ma il silenzio di un istante senza clamori. Per questo è così affidabile e vero. E allora mi sembra di aver capito perché a Emanuele potesse piacere tanto: perché è un Gesù mite, che guarda lui e parlava a lui, nel momento in cui la vita lo stava sottoponendo alla prova più dura: sembra quasi sentirlo sussurrare qualcosa. Non prediche, ma parole da amico, a tu per tu. Era un Gesù che partecipava persino della sua tristezza, con quello sguardo abbassato e quell’ombra sul volto. Davvero guardare un Gesù così è come un sentirsi abbracciati.
Da tutto questo me ne viene un grande gratitudine per il fatto che ci siano stati geni, profondi e insieme semplici, come quello di Rembrandt. E una gratitudine al quadrato perché l’amico Emanuele mi ha aperto gli occhi davanti alla sua grandezza. Cui si aggiunge una gratitudine di fondo per il fatto di essere figli di una cultura che ha capito quanto le immagini possano essere di sostegno alla vita.

Written by gfrangi

Settembre 16th, 2011 at 4:15 pm

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Hirst parla di Bacon: “Non si può non guardarlo”

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La Tate ha realizzato un filmato con Damien Hirst davanti allle Tre figure sotto la Croce di Francis Bacon. L’inglese è praticamente incompresnibile. Grazie a Cristina Barbetta che me ne ha fatta questa trascrizione

Ho incontrato Bacon per la prima volta nella libreria della galleria d’arte di Leeds.
Mi sono sempre piaciuti i suoi dipinti.
Quando ho incontrato Bacon per la prima volta stavo dipingendo ed ho quasi rinunciato a dipingere perché tutti i miei dipinti erano dei cattivi Bacon!
Il dipinto di Bacon che probabilmente mi piace di più è le Tre figure ai piedi della Croce, come in questo dipinto (Crocifissione 1965). Se lo guardi più da vicino si dissolve, è un dipinto astratto.
Ti fa pensare a quanto siamo fragili.
Questi sono probabilmente i miei dipinti preferiti di quando ero bambino: questi due: questo e questo…. La Crocifissione e …. E probabilmente la pala centrale è la più incredibile che io ricordi – Tre Studi per una Crocifissione 1962.
Penso che questi siano tutti dei grandi dipinti. Se li guardi da una certa distanza devi guardare la rappresentazione, e quando vai più vicino si dissolve, quindi sai che è la tua mente che ha creato il tutto, la mente dello spettatore, piuttosto che l’abilità dell’artista.
Questi dipinti hanno una grandissima forza, sono veramente incredibili e ti fanno pensare che siamo qui per un buon periodo di tempo, ma non per un lungo tempo.
I dipinti di Bacon sono sempre enigmatici, ti colpiscono in un modo positivo.
Ti scioccano sempre in un certo senso.
Come artista ho sempre cercato le scintille/gli inneschi universali. Gli artisti cercano sempre qualcosa che inneschi qualcosa piuttosto che un’interpretazione.
Dopo che ti sei allontanato fisicamente da un dipinto di Bacon, il dipinto rimane nella tua mente per un lungo tempo, per giorni, se non addirittura per anni.
A Bacon piaceva una mia opera, il Fly piece.
Ho cercato di fare un dipinto tridimensionale, perché ovviamente stavo pensando a Bacon.
Ho iniziato a dedicarmi alla scultura credo in relazione o in reazione con l’opera di Bacon.
Poi sono stato chiamato da questa galleria d’arte e mi hanno detto che Bacon è rimasto a guardare la mia opera (A Thousand Years 1990) per un’ora, ma non so se questo sia vero.
E poi Bacon ha detto: “Funziona” (riferito all’opera, n.d.t).
Penso che fosse un grande complimento per Bacon, che notoriamente non faceva elogi.
Amo molto il dipinto The Head 1947-1948 di Bacon.
L’ho visto la prima volta quando ero uno studente.
Mi ricordo di averlo visto e di avere notato l’orecchio. L’ho dipinto così tante volte che è diventato tridimensionale, come un vero orecchio.
Ero scioccato nel vedere che in origine un dipinto è bidimensionale, ma che può diventare tridimensionale…. e diventa un fantasma, è vivo, è morto e il dipinto ti chiama in un certo qual modo.
Non puoi guardarlo e allo stesso tempo non puoi fare a meno di guardarlo.
Penso che Bacon avesse questa visione molto scura, molto negativa del mondo.
Anch’io divento sicuramente più negativo quando guardo il mondo nel modo in cui lo guardava Bacon. Questo è il motivo per cui amo così tanto i dipinti di Bacon.
Le sue opere mi fanno pensare agli spazi che vedo negli incubi: per questo penso che sia grande.

Written by gfrangi

Settembre 12th, 2011 at 9:15 pm

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