Alla fine, dopo tanto parlare, ho visto lo spettacolo di Castellucci. Due pensieri sintetici, senza nessuna pretesa: sono un non addetto ai lavori.
La prima parte dello spettacolo è molto emozionante e straziante nella sua nudità e nella sua adesione disarmata alla realtà. Un figlio in età matura in camicia e cravatta, accudisce il padre in pieno declino fisico. L’incontinenza rende quasi insopportabile la situazione anche allo spettatore, ma il figlio non si sfila. Pulisce il padre mosso da un amore di cui lo spettatore si chiede l’origine (bravissimi i due attori). Come spiegare la fedeltà, la pazienza, la dolcezza di piccole parole sminuzzate per stemperare il “troppo” di quella situazione? Solo il volto immenso e dolce di Gesù che dal fondo della scena guarda ed è compagno può essere una risposta adeguata. Il figlio ad un certo punto, di fronte a questa deriva del padre, ne implora una risposta: con un gesto inatteso sembra voler abbracciare quel volto.
La seconda parte dello spettacolo scatta improvvisa quando si scopre che sul comodino del padre c’è una tanica con gli stessi liquami che lui non riesce più a governare e contenere. Significa che la deriva del corpo non è solo sua, è nel destino di tutti. La domanda che tocca il perché di quella decadenza del corpo umano, erompe. Diventa una domanda su tutta la vita e le vite. Nella versione originale dello spettacolo qui si inseriva la scena al centro delle polemiche: un gruppo di bambini entrava in scena e rompeva la tregua con un lancio di granate verso il volto di Gesù. È un anello mancante che pesa nell’equilibrio dello spettacolo, che si sviluppa rapidissimo in una lotta con l’immagine del volto e con la sua lacerazione sino alla comparsa del versetto del Salmo 23, “Tu sei il mio pastore” e un “non” nella penombra. L’intuizione semplice e potente che dà avvio allo spettacolo avrebbe chiesto un epilogo che mantenesse fede all’attesa. Invece nella seconda parte è come se prevalesse una preoccupazione più “teatrale” con i suoi effetti speciali, i suoi colpi di scena. La lotta con l’immagine del volto, come a pretendere da lui una risposta circa la sua reale capacità di dare salvezza, resta come un’intenzione dichiarata allo spettatore ma non risolta a livello di rappresentazione. Ed è un peccato perché Sul concetto di volto nel Figlio di Dio con quei suoi emozionanti e strazianti primi 40 minuti, davvero, per quel che mi riguarda, ha rimesso il teatro nel circolo della vita.