Robe da chiodi

Archive for the ‘moderni’ Category

Seurat, senza indecisioni

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Ci sono 13 quadri di Seurat nella mostra milanese sul neo impressionismo. E sono un motivo più che sufficiente per non snobbare questa mostra che certamente, di per sé, lascia il tempo che trova. Mostra dalla scontata impostazione didattica un po’ a prova di asilo. Ma Seurat è Seurat, e solo per inerzia culturale si finisce sempre per metterlo nella truppa di questi pittori che stanno a distanza siderale da lui, Signac compreso. Seurat è di un’altra famiglia: lui vien giù da Piero della Francesca, per lui in pittura c’è nessuno spazio per la casualità. È tensione verso un’esattezza senza concessioni. Certamente è impregnato sino al midollo di luce impressionista, ma è come se l’avesse sottratta da una parte al tempo, dall’altra alla meteorologia. Così trasforma, o meglio trasfigura, l’impressionismo in un fatto zenitale. La luce, còlta d’après nature viene riportata alla sua radice. Diventa veicolo di un qualcosa che ha a che fare con l’assoluto.
Il metodo scientifico nella stesura dei colori su cui si indaga sino alla nausea è la via con cui Seurat si sottrae al felice soggettivismo dei suoi fratelli maggiori impressionisti. Lui cerca un’oggettività che gli faccia fare il balzo aldilà di tutto ciò che è transitorio.
L’inarcamento della schiena dei contadini nei due bozzetti in apertura di mostra, vien giù dall’inarcamento dell’astante che si toglie il camice nel battesimo di Piero. È postura che in qualche modo riposta a un senso dell’eterno. Così la sabbia bianca della spiaggia di Honfleur (1886), dipinta a piccoli tocchi luminosi e pastosi, ha la solidità abbagliante di un territorio immutabile.

Quando Seurat tira una linea o alza un palo (vedi Il Canale d Gravelines: di sera, 1890), è difficile immaginare che quella linea o quel palo potessero avere un tracciato diverso. Seurat è sempre di un’esattezza che non lascia spazio a varianti. C’è talmente tanta concentrazione mentale nei suoi quadri, da chiudere ogni spazio all’indecisione.

(Per questi motivi, e per tanti altri che sarebbero da aggiungere, La Baignade à Asniére (1883) è tra i grandi quadri dell’Ottocento, forse forse il più grande: c’è la vocazione all’assoluto di Seurat accompagnato da una grazia che non lo avrebbe mai toccato in modo tanto abbondante…)

Written by giuseppefrangi

Ottobre 28th, 2008 at 1:15 am

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Chi ha messo Schifano in parcheggio?

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È perfetta e rapinosa la definizione che Testori trovò alle due grandi tele di Schifano presenti alla mostra milanese del 1982: «aquiloni». C’è una sola cosa che non torna. Se un quadro intitolato Ballerini è allineato con quella metafora, l’altro intitolato Parcheggio invece sembra essere del tutto scentrato. Strano titolo, per biciclette che tutto appaiono meno che parcheggiate. Corrono, fremono, scappano, volano, appunto. Sono biciclette felici, a briglie sciolte. Dei titoli sappiamo questo: «Io non ho ispirazioni. È vero per molti quadri sono rimasto sorpreso io stesso mentre li facevo. Di solito i quadri che faccio li ho sempre con esattezza in testa… Prima dei quadri ho in testa i titoli». Questa tela arrivò così filante da non lasciare neanche il tempo al titolo di fissarsi nella testa. Tant’è vero che quando nel 1982 venne esposto il quadro era “senza titolo”. Così è nella didascalia dell’articolo del Corriere. Così nelle apparizioni successive (esempio Conegliano, 1997). Nella mostra milanese invece appare stranamente questo cartellino che sembra riferirsi ad un’altra opera. O forse ad un altro autore, perché se c’è una categoria mentalmente estranea a Schifano è proprio quella di parcheggio, di stasi. Un titolo “frenato”. Eppure anche la didascalia catalogo Electa conferma, anche se nel saggio introduttivo Arturo Quintavalle cita il quadro come «Biciclette», ma senza usare il corsivo come per indicare il soggetto e non il titolo. Neppure il proprietario Antonio Colombo sa dare una spiegazione del cambio di titolo. Chi scioglierà il mistero?

Written by giuseppefrangi

Ottobre 25th, 2008 at 12:18 am

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Milano mondo

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Una settimana fa ero entrato nello spazio della Fabbrica del Vapore dove era allestita una mostra sugli ultimi adepti a Italian Factory. Una mostra un po’ tronfia, dove la pittura veniva ridotta a somma di pasticci. Una settimana dopo, in quello stesso spazio, si vede una mostra, molto più povera negli apparati, ma quanto più intensa nella sostanza. La chimica delle mostre ha questo di bello: produce effetti che sono assai lontani dalla semplice somma degli elementi. Per essere sintetici: in questo caso ci sono cinque ragazzi, tutti di provenienza mediorientale, arrivati a Milano per studiare a Brera, radunati da Marina Mojana. La “chimica” che li ha messi insieme poteva anche dare esiti esplosivi, visto che due sono israeliane, due sono iraniane e uno è egiziano musulmano praticante. Invece i loro sguardi, così diversi, si sono combinati in un effetto che desta stupore per il coesistere vitale di tante differenze, poetiche assai più che etniche o geografiche. Lo spazio nudo e spogliato da tutti gli apparati è riempito dall’energia tutta contemporanea e tutta positiva che le opera in mostra scatenano, proprio per le loro differenze. Non si possono giudicare i valori singoli in campo (anche se le foto di Mido mi sembra abbiano una forza che lascia presagire grandi sviluppi). Ma l’insieme ha l’effetto di un’installazione riuscita. E che come tutte le installazioni trasmette la magia delle cose che oggi ci sono e domani si dissolvono. Se vi capita non perdete Glocal art.
Nella foto, da sinistra, Mido (egiziano), Hilla Ram (israeliana), Golsa Golchini (iraniana), Azadeh Safdari (iraniana), Iamit Segal (israeliana).

La mostra è organizzata da Vita non profit. Info sul sito.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 24th, 2008 at 7:17 pm

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La sperdutezza di Schifano

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«Così dai teleri di Schifano che l’ansia verso un impossibile paradiso della felicità (e dell’innocenza) fa parer simili a grandi aquiloni che nessuna stanchezza e nessuna tempesta riescono ad abbattere, ancorché vi si leggano, qua e là, strappi e ferite…
… Ma perché tacere che Schifano con queste sue opere, sembra aver superato e con un solo balzo il “bric e brac” psico-letteral-pittorico della transavanguardia, lasciandolo a tanti chilometri di distanza da farlo sembrare vecchio e, quel che è peggio, assolutamente inservibile anche quale semplice provocazione?».

Così Giovanni Testori, sul Corriere del 7 novembre 1982. Alla Rotonda della Besana, nella mostra “Giovani pittori e scultori italiani”, Schifano esponeva, invitato da Achille Bonito Oliva, due grandi tele che oggi vengono riproposte nell’esposizione del decennale dalla morte, che dopo essere stata Roma è approdata a Milano (Parcheggio, 1982; e Ballerini, 1982)
Il volto di Testori riaffiora, per tre volte, nel montaggio di 540 fotografie tutte catturate dalla tv, proveniente dalla collezione Massimo D’Alessandro (1993). Sono le uniche immagini che Schifano, lascia praticamente intatte, prese dall’intervista fatta poco prima della morte dello scrittore da Riccardo Bonacina. Un volto scavato, drammatico, con gli occhi sbarrati, come su un abisso, o forse gravati da un immenso senso di carità.
Cosa collega quegli occhi alle tele leggere come “aquiloni”? Bisogna scavare intorno a questo interrogativo per non cedere a letture ovvie e banali su Schifano. È un invito a sorprendere quel punto di buio, di pianto, di ansia che fa di Schifano un pittore molto più profondo e grande di quanto una vulgata un po’ ciabattona e semplicistica vuol farci credere. Per Schifano andrebbe bene un quasi-neologismo di Testori: sperdutezza. Che è la vita come somma di immensa delizia e di irriducibile malinconia.

Detto questo, è purtroppo doveroso sottolineare la mestizia dell’allestimento della mostra milanese, con quella sala di bellissimi video che sembra quella d’attesa di un dentista.

Peccato. Perché la scelta delle opere è di quelle che lasciano una scia indelebile nel cuore.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 21st, 2008 at 11:35 pm

Nolde, Rouault e Cristo

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Bella la doppia pagina di Alias, l’inserto del sabato del Manifesto, con le recensioni alle due mostre parigine di Emile Nolde e di Georges Rouault. Due artisti paralleli, morto l’uno nel 1957 l’altro un anno dopo. Trait d’union (sottolineato anche dalla scelta dell’immagine di Nolde messa in pagina; Rouault dal canto suo fa subito effetto “Chartres” con qualsiasi soggetto), è una propensione molto più esplicita e costante in Rouault, all’arte sacra. Nolde dipinse un ciclo famoso negli anni 10, oggi presentato nella sua completezza in un’intera sala alla rassegna parigina. Come sottolinea giustamente Federico De Melis, «nella sua brutale immediatezza quello di Nolde si qualifica come un cristianesimo non solo troppo luterano, ma frammischiato, diremmo, a qualche veleno di paganesimo nordico». «Un modo tutto soggettivistico e fantastico di vivere la sfera religiosa» che indusse Romano Guardini a escludere che l’espressionismo di Nolde «così sganciato dall’oggettività, storica ma anche scritturale, della verità rivelata possa in qualche modo rivelarla».

Opposto invece il film di Rouault, cui, come spiega invece Roberto Andreotti, Parigi ha reso un quasi imbarazzato omaggio. La mostra al Beaubourg, appena chiusa, era nascosta e poco pubblicizzata, mentre ora ne è aperta un’altra in una sede più defilata, la Pinacothèque de Paris. Scrive Andreotti: «Una figurazione come la sua, che sfida la permanenza del Sacro proprio sul ring della crisi novecentesca – indicare una “salvezza per l’uomo moderno” avrebbe detto Charles Moeller – non è solo un “esercizio spirituale privato”, ma s’impone dialetticamente come una drammatica ricerca della Rappresentazione». Ed è bello anche il riferimento all’omelia pronunciata al funerale di Rouault dall’abate Maurice Morel. Riferendosi alle vetrate di Chartres, disse: «Egli ne possedeva la giovialità e la gravità, ma insieme anche il pudore e la franchezza, in una parola la fede».

Quella di Rouault è stata forse l’ultima esperienza in cui la rappresentazione del sacro è riuscita ad approdare, con strazio e fatica, alla figurazione. Dopo di che è subentrata una sorta di assordante afonia. Bacon escluso, ma quella è tutta un’altra storia (nel senso che Bacon non ha mai pensato di appendere un suo quadro in una chiesa).


Written by giuseppefrangi

Ottobre 14th, 2008 at 3:03 pm

Picassò, Picassò

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Al Grand Palais di Parigi, ore di coda per entrare nella mega mostra Picasso et les maîtres. È una mega mostra inutile, fatta solo per saziare l’ambizione transalpina, la mai sopita voluttà per la propria grandeur. Ecco quindi Picassò messo a paragone con i giganti della pittura che in qualche modo gli sono caduti sotto gli occhi: l’obiettivo è di dimostrare che lui è sullo stesso livello. Cosa probabile, ma che converrebbe dimostrare per ben altre vie.
Picasso si accosta ai classici con la stessa voracità e la stessa inerzia culturale con cui può accostarsi al corpo di una donna o alla brocca d’acqua di una natura morta. Ma questa che è una qualità della sua grandezza diventa un limite nel momento in cui si confronta con i giganti, che invece del “pensare” hanno fatto spesso un architrave del proprio agire pittorico. Prendete la parete della sala finale: in trenta metri sfilano la Venere del Prado di Tiziano, la Maya Desnuda di Goya, L’Olympia di Manet, l’Odalisca di Ingres. In mezzo i divertimenti dell’ultimo Picasso. Gigantesse che sembrano dipinte da un bambinone cui sia stata donata l’energia di un gigante. Ma bambinone resta. E il confronto finisce con l’essere oggettivamente imbarazzante.
Picasso macina i maestri come macina tutta la realtà che lo circonda: ma nel confronto con i maestri il rischio si fa più alto e il gioco ha il fiato corto. Così è nella sezione delle nature morte, dove soccombe vicino alla magia pre morandiana di Zurbaran, e dove s’incarta davanti alla profondità misteriosa dei teschi di Cézanne. Insomma, l’elementarità che è una forza di Picasso, in questa mostra venga ribaltata clamorosamente in debolezza.

Tre postille. Primo: non mancano i capolavori. Il più capolavoro è il ritratto di Olga del 1923. Uno schianto di eleganza, forza, con un filo di malinconia, nello sguardo rivolto altrove.
Secondo: nel rapporto con il passato, manca il più importante, quello che la pittura romanica catalana. È lì che Picasso succhia la linfa della sua pittura senza ombre e tutta certezze. È quello il terreno saldo su cui poggia i suoi piedi e prende la sua andatura colossali.
Terzo: Domanda maliziosa. Se Picasso avesse avuto il coraggio di distruggere qualche suo quadro, non sarebbe stata cosa salutare?

Written by giuseppefrangi

Ottobre 13th, 2008 at 11:46 am

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Buone letture/1

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Francesco Bonami si conferma come uno con le manda a dire. Si può discuterlo, ma ha il pregio di non risparmiare nulla a quei big che tromboneggiano (vedi Paladino e Kounellis). Leggere l’intervista a raffica rilasciata a Paolo Manazza, su Arslife.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 10th, 2008 at 8:16 am

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100mila lire per Morandi

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In occasione della bella e sobria mostra di Morandi organizzata a Villa Panza a Biumo da Anna Bernardini (Giorgio Morandi, collezionisti e amici, sino all’11 gennaio), veniamo a riscoprire il profilo di un artista la cui moralità oggi certo sconcerterebbe. Quando Francesco Paolo Ingrao, collezionista sardo, ansioso di avere una sua opera, gli mandò un assegno di 100mila lire, ebbe questa risposta da un Morandi imbarazzato: «Sarà necessario che ci intendiamo perché non mi è possibile accettare tanto denaro per un dipinto». Tanto denaro per un dipinto: e sì che i dipinti erano quasi tutti centellinati e filtratissimi capolavori. Come la serie di bottiglie che animano l’VIII sezione della mostra varesina. Bottiglie lunghe e strette dei vinai e delle trattorie bolognesi, che Morandi colorava di bianco per evitare il disturbo dei riflessi luminosi. Composte in un equilibrio meditato e assoluto, vibrano di una tensione quasi da spasimo. Difficile immaginare un simile equilibrio di pudore e di arditezza.

Sempre nel bel saggio in catalogo (edizioni Skira) di Flavio Fergonzi viene ricordato un episodio che consacrò la fama di Morandi, al di là certamente dei suoi desiderata. Nella Dolce Vita di Fellini, Mastroianni e Steiner dialogano davanti a una natura morta morandiana: «Gli oggetti sono immersi in una luce di sogno… dipinti con uno stacco, un rigore che li rendono quadi intangibili. Si può dire che è un’arte in cui niente accade per caso». Chapeau. (Certo è sorprendente pensare che Fellini sfosse stato stregato da Morandi, così lontano da lui. Sarebbe bello saperne di più).

Written by giuseppefrangi

Ottobre 2nd, 2008 at 11:32 pm

Impressionisti verticali

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Una piccola trasferta di impressionisti al Mart di Rovereto. Sono quelli del Museo di Gerusalemme. Tutto già visto? No, niente è stato visto abbastanza, neanche i fluviali impressionisti di questi anni. Bella la sala di Renoir, che si conferma un Rubens un po’ stranito e imbambolato (in effetti non ha più attorno a sé re, regine e papi, ma borghesi ben pasciuti e senza ambizione).
Ma il clou sta nel fil rouge che lega i due quadri più forti arrivati per questa trasferta. Lo Stagno con ninfee di Monet (1907) e la Casa di campagna vicino al fiume di Cézanne (1890 ca). Hanno una struttura comune, tripartita. Il cuore è al centro, nell’uno e nell’altro. È la zona dove si condensa la luce. È, per così dire, il luogo dell’evento. Una fascia stretta tra due masse. È impressionismo in verticale (che smentisce l’idea di una pittura costituzionalmente riposata e orizzontale: non si è mai visto abbastanza). Ma il verticalismo di Monet è verticalismo che sprofonda, che si cala nel magma visivo del mondo. Che se ne lascia risucchiare, senza mai perder di lucidità. Quello di Cézanne invece va in direzione opposta, si alza, punta verso il cielo come una cattedrale. Monet man mano che scende si sfalda (scriveva Francesco Arcangeli: «è una specie di campo mirabile di confusione, non è solo una confusione naturale, è una confusione di “risonanza”»). Cézanne man mano che sale si consolida. Si fa più lucido, anzi più logico. Il tema della verticalità lo svela lui stesso in una lettera a Bernard del 1904: «Le linee parallele all’orizzonte danno l’estensione, cioè una sezione della natura, o, se lei preferisce, dello Spettacolo che il Pater Onnipotens Aeterne Deus dispiega davanti ai nostri occhi. Le linee perpendicolari all’orizzonte invece danno profondità. Ora, la natura, per noi uomini, è più in profondità che in superificie…». Più in profondità…

Ovviamente questa è una controprova di grandezza. Monet e Cézanne sono i due più grandi del gruppo. O meglio quelli che hanno un’ansia che li porta sempre oltre.

La mostra è visitabile al Mart sino al 6 gennaio.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 1st, 2008 at 11:14 pm

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Scherzi da Hirst

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Noto solo ora la coincidenza. Il 15 settembre mentre la banca Lehman & Brother dichiarava fallimento, Damien Hirst sbancava Londra, con la sua asta personalizzata da Sotheby’s. Alla fine della serata il totalizzatore si è fermato a 111.460.000 sterline. Ironia della sorte, tra i tesori di Lehman c’è (o meglio c’era) anche una grande collezione d’arte moderna, dove non manca nessuno, nemmeno lo stesso Damien Hirst. Ars mea, mors tua.

Written by giuseppefrangi

Settembre 23rd, 2008 at 9:53 pm

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