Robe da chiodi

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Gli albori di Schifano

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A Roma in quell’inizio di anni 60 gli unici rimasti a dipingere erano gli operai chiamati a verniciare i selciati delle strade con strisce pedonali e segnaletiche orizzontali. Il boom delle auto costringeva le città a “ridisegnare” le proprie strade. Nel bellissimo film di Elio Petri, “I giorni contati”, uscito nella prima metà del 1962, il protagonista, un memorabile Salvo Randone, dopo aver lasciato il lavoro, si divertiva a bighellonare di notte per Roma prendendo in giro gli operai che, con pennello e secchi di vernice bianca, erano costretti a piegare la schiena per dipingere strisce regolari sull’asfalto (qui un link ad una sequenza del film con Piero Guccione nelle parti di artista-idraulico).

Tano Festa, Francesco Lo Savio e Mario Schifano alla galleria La Salita, 1960

Negli studi degli artisti all’opposto si respirava una radicalità che non lasciava più spazio alla pittura. «La pittura era finita e bisognava scoprire qualcosa di nuovo, di vivo, di attuale», ha raccontato Mimmo Rotella che in quegli anni agiva con i suoi décollage, interagendo quindi con l’ambiente urbano. Come poteva vivere questa transizione radicale, questa “condizione zero” (Maurizio Calvesi) Mario Schifano, un artista che aveva la pittura nel sangue? È il tema affascinante di un libro di Giorgia Gastaldon, un vero ed esemplare esercizio di archeologia del contemporaneo, frutto di una tesi di dottorato a Udine, la cui pubblicazione è stata resa possibile grazie alla Biblioteca Hertziana- Istituto Max Planck per la storia dell’arte (“Schifano. Comunque, qualcos’altro”, Silvana, 39 euro)

Il libro scava in questa situazione cruciale che va dal 1959, anno della mostra di esordio dell’artista alla Galleria Appia Antica, fino alla consacrazione con la partecipazione alla Biennale del 1964, con un’attenta ricostruzione e risistemazione della cronologia così da rendere più chiari questi albori dell’arte di Schifano. 

Il titolo è tratto dall’unica dichiarazione di poetica che Schifano abbia mai rilasciato e che aveva affidato in forma di appunto a Maurizio Calvesi tra 1961 e 1962. «Suggerito dalla memoria lo comincio; sapendolo già lo elaboro; usando sopra la superficie: colla, carta, smalto. Lavorando copro tutto: a volte è giallo, a volte è nero oppure bianco e blu o rosso; infine come per dargli un nome e accettarlo ci segno una cifra, a volte. Questo è il mio quadro, non so se frattura con il gusto corrente; per me, comunque, qualcos’altro». Parole che avanzano per suggestioni e allusioni, ma che nello stesso tempo si soffermano sulla concretezza dell’atto artistico e si chiudono con quell’affermazione che ci parla nei termini di una necessità e anche di una irriducibilità. A quel punto del percorso Schifano aveva sperimentato con la prima personale all’Appia Antica un tentativo di aggirare la pittura attraverso l’uso del cemento, sotto l’egida di Emilio Villa. Era un tentativo poi subito abbandonato, ma quel passaggio gli aveva permesso di appropriarsi del paradigma del “quadro oggetto”. Il quadro è pensato come «oggetto autoreferenziale perché incardinato alle categorie sulle quali era costituito, cioè i vari materiali utilizzati per realizzarlo»: un fattore di coscienza che accomunava le esperienze più avanzate a Roma ma in particolare a Milano. «Un quadro vale solo in quanto è, essere totale. Alludere, esprimere, rappresentare sono oggi problemi inesistenti», sosteneva il più oltranzista di tutti, Piero Manzoni.

Mario Schifano con Emilio Villa

È proprio partendo da questa consapevolezza che Schifano si inoltra nell’esperienza del monocromo. L’esordio è alla galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani, nel 1960, con la collettiva “5 pittori Roma 60. Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini”. Il “quadro oggetto” è tecnicamente complesso. Schifano lavora a volte sul telaio aggettante, a volte usa la traversa per dare forma a dei dittici. Ma è il lavoro sulla superficie della tela a dare più stimoli all’artista e a permettergli di esercitare quella che Gastaldon definisce «una ricercata piacevolezza materica del dipingere». Vinavil e Ripolin sono i ritrovati a cui Schifano fa ricorso in modo sistematico per i suoi monocromi. Con il Vinavil bagna i fogli di carta con i quali copre la superficie della tela; il Ripolin è invece uno smalto dalla ricetta tradizionale, molto coprente che l’artista usa senza diluirlo con la trementina per aver un colore più corposo e denso e rendere così ben percepibile la fisicità della materia pittorica. Come ha scritto Flavio Fergonzi (supervisore al dottorato di Giorgia Gastaldon) il risultato è quello di «spingere l’osservatore a indugiare sulla vitalità pittorica del quadro».

Il flyer per la personale a La Tartaruga, 1961

Il passaggio successivo è quello decisivo del ritorno delle immagini. Anche in questo caso, pur nella sua reticenza a parlare del proprio lavoro, è Schifano a inquadrare sinteticamente la situazione con una testimonianza affidata a Nancy Ruspoli: «O uno andava nelle strade e guardava i cartelloni pubblicitari, o andava nelle gallerie a vedere i quadri informali. Stranamente per me e altri pittori era quello che si trovava all’esterno delle gallerie che ci sollecitava». È il 1961. A marzo apre la personale alla Tartaruga di Plinio De Martis. Schifano lascia trasalire sulla superficie della tela forme che sono insieme astratte e immagini tratte dall’occasionalità di quegli sguardi sul mondo. In “Roma 1961”, a bande verticali bianche e nere, dove il bianco che ha una corposità data dalle increspature della carta e dalle colature dello smalto, richiama il contesto del film di Petri. La segnaletica è un incentivo, diceva l’artista. Che concludeva: «Poi, dipingere comunque». Fondamentale punto di riferimento in questa transizione è Jasper Johns, che diventerà suo interlocutore diretto in occasione del viaggio americano del 1963 ma la cui fama era già ampiamente consolidata in quel 1961. È un rapporto che è stato indagato da Fergonzi nel suo libro sull’influsso dell’artista americano in Italia (Electa 2019, recensito su Alias da Luca Pietro Nicoletti, 15 marzo 2020). Schifano avrebbe fatta sua la lezione di pittura di Johns, cioè che «il campo pittorico, in un quadro moderno, può accogliere l’immagine solo se dichiara l’autonomia della pittura».

Su questa lezione Schifano innestò però la sua italianità, come aveva rilevato da subito Cesare Vivaldi. Evita di restare bloccato su un’interrogazione fredda sul significato del vedere e invece lascia che i linguaggi della tradizione si sovrappongano alle seduzioni della visione moderna della città. È il momento della meravigliosa fioritura che culmina nella presenza alla Biennale del 1964, preceduta dalla mostra newyorkese dello stesso anno alla Galleria Odyssia. Sulla copertina del depliant di quella personale compare un disegno dal titolo emblematico En plein air”. Un germe felice di paesaggio che esplode, per quanto trattenuto dalla disciplina di un monocromo, nei grandi quadri dipinti a New York e mandati a Venezia. «Sono bellissimi. Sono puliti e pieni di cose, saranno i più moderni e i meno modernisti della Biennale», annunciava a Calvesi nel maggio 1964. E in quelle parole si riconosce anche uno scatto d’orgoglio rispetto all’America che non lo aveva capito.

La recensione è stata pubblicata su Alias il 19 settembre 2021

Written by gfrangi

Settembre 21st, 2021 at 4:31 pm

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Mario Sironi, il Giobbe della pittura

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«Io so come te, che uno strato di pietra si è come sovrapposto sul corpo e l’anima di quell’infelice mio figlio…». Chi scrive è Giulia Villa, coniugata Sironi. La destinataria è invece Matilde, moglie a quel tempo separata (siamo ad inizio anni 30), di Mario Sironi. E sono naturalmente di Sironi il corpo e l’anima a cui si riferimento in quella bella e straziantissima lettera.

Pochi artisti nel secolo scorso hanno accettato di fare i conti con la dimensione del dolore come lui; dolore personale, ma anche dolore del suo tempo. È una dimensione che assedia e insieme struttura la sua pittura, dando corpo e sostanza a quelle due categorie di “sintesi e grandiosità” scelte come sottotitolo della bella mostra da poco aperta al Museo del 900 di Milano (fino al 31 marzo 2022). Per una volta gli spazi espositivi troppo compressi del museo ricavato nell’edificio dell’Arengario, si rivelano funzionali: infatti i cartoni per le grandi opere pubbliche realizzate sotto il fascismo, per ragioni di dimensioni sono presentati fuori dal percorso e così diventano meno condizionanti rispetto alla lettura del grande artista («Che fa Sironi? Sta lavorando? Avete un grande artista, forse il più grande del momento, e non ve rendete conto», aveva ammonito perentoriamente Picasso). A dare forza al progetto espositivo contribuisce la scelta delle opere, tutte di assoluta qualità, e spesso poco viste, come dimostrano le rispettive storie espositive che Elena Pontiggia, curatrice della mostra insieme ad Anna Maria Montaldo e biografa di Sironi, ha accuratamente documentato nelle schede del catalogo edito da Ilisso. 

È dunque un Sironi “da cavalletto” quello che scorre davanti ai nostri occhi. Ma per Sironi il cavalletto, lungi dall’essere strumento d’accademia, è una finestra costantemente spalancata sul suo tempo e sulla storia. O meglio, è un varco attraverso il quale la sua pittura precipita ogni volta nel tempo e nella storia. «… Eppure quella stessa anima messa a nudo vince in bontà e sensibilità e amore su tutte quelle da me conosciute»: continuava così la lettera di mamma Giulia alla nuora Matilde. Sironi infatti è mosso da una sensibilità drammatica che lo porta come scrive Pontiggia a provare «una compassione schopenaueriana per ogni forma di vita». Nella prima sala l’artista si presenta con una sequenza di autoritratti tutti realizzati a cavallo di secolo: è il volto di un uomo trafitto, assediato fin da quegli anni dalla depressione. Eppure non c’è psicologismo in questo suo guardarsi; si avverte l’oggettività di un dolore che segna e incide i lineamenti, e che lascia lo sguardo sempre sull’orlo dell’ombra. Sono autoritratti di un uomo che non si chiude e non scappa via da se stesso.

Non scappa dal destino che lo chiama a misurarsi con una vocazione alla “grandiosità”, pur su dimensioni da cavalletto e su soggetti che non hanno nessuna ambizione pubblica. È quello che accade con il bellissimo “Ritratto del fratello Ettore” realizzato intorno al 1910. Il ragazzo, di ben 13 anni più giovane di Mario, ci appare in tutto il suo struggimento adolescenziale, quasi incollato alla sua ombra, troppo vasta per non comunicare un senso di inquietudine. Eppure Ettore occupa lo spazio con una solidità cézanniana; le mani sono quasi scolpite con la pittura. La realtà è il parametro a cui Sironi resta sempre fedele. 

Anche quando il futurismo lo coopta, il suo accento resta di una concretezza inconfondibile: in una piccola, stupenda tempera su carta, “Studio per Volumi plastici”, il dinamismo anziché dissolvere i volumi nello spazio finisce con il monumentalizzarli, pur dentro quelle minime dimensioni.  La pressione della realtà non cala d’intensità neanche quando il soggetto in teoria lo lascerebbe più libero di svariare, come nel caso delle nature morte. «Dovremo dunque in eterno continuare a dipingere nature morte?… Da questa impotenza immaginativa della pittura contemporanea bisognerà pure uscire», si chiedeva Sironi nel 1930. Uscire per lui poteva significare darsi alla grande arte pubblica, come avrebbe fatto per tutto quel decennio. Ma uscire poteva anche voler dire sottrarre il genere della natura morta da ogni zona franca, farne terreno di un dramma, come accade nella spettacolare tela con brocca e frutta di proprietà dell’Archivio Mario Sironi (1926). Il tono fuliggine, i volumi stipati nello spazio, la luce che si impasta con la materia, testimoniano di una pittura sempre sotto pressione, chiamata comunque a fare i conti con il dolore e le sconfitte della storia. 

A proposito di sconfitta, in mostra c’è una tela di collezione privata, che dietro il titolo asettico di “Uomo e muro” (1938/39) svela un’immagine di uno scoramento epocale: l’uomo è un guerriero sfiancato, demolito in tutte le sue certezze, dipinto di calce come il muro a cui s’appoggia. Sironi si addentra in un teatro da capolinea della storia, dove il presente si annuncia come muta archeologia. Sono preavvisi di apocalissi che troviamo disseminati lungo il percorso, nelle forme più varie, come in quei cieli dove i blu si fanno largo battagliando ma sembrano sempre sul punto di venire inghiottiti dalle tenebre. Nel meraviglioso “Paesaggio (Case e albero)” del 1929, un quadro che da 60 anni non veniva esposto, la pittura sembra invece bruciare, come spazzata da un vento ardente. È un capolavoro struggente, innamorato e inquieto, attraversato da un’istante di bellezza fuggitiva. 

Dopo la parentesi dell’arte pubblica degli anni 30, dove Sironi si mostra comunque impermeabile ad ogni dimensione di trionfalismo e dove cerca di costruire una faticosa mitologia civica, il discorso al cavalletto riprende come se non fosse mai stato interrotto. È una continuità nel segno di quel sentimento doloroso del mondo, da cui Sironi non si sottrae mai, come un nuovo Giobbe della pittura. Cambiano gli scenari, entrano in campo le città con le loro architetture scabre e la solitudine dei tram che si arrampicano per le strade anonime del neocapitalismo. Ma lo sguardo di Sironi non cede mai al moralismo. Semmai si può scorgere anche un sentimento di simpatia per quegli ammassi cubici di case chiamate a resistere sotto cieli di carbone. Il quadro che chiude la storia dell’artista e chiude anche la mostra implicitamente lo conferma. Il titolo, quasi tautologico, lo aveva scritto lo stesso Sironi sul retro della tela: “L’ultimo quadro” (1961). In uno scenario urbano scheggiato insolitamente di colori si muovono dei personaggi fuori proporzione. Sembrano tutti in uscita… L’anno prima aveva dipinto anche il proprio funerale, una piccola tela dove il corteo sfila, schiacciato da una parete con istoriate figure monumentali. Un’exit strategy a sorpresa, con una punta di struggente ironia. 

Pubblicata su Alias, domenica 4 settembre

Written by gfrangi

Settembre 18th, 2021 at 8:04 am

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Lo sguardo libertario di Mario Diacono

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La libera repubblica di Diaconia dobbiamo immaginarla come un territorio vasto, senza confini definiti e senza lingue precostituite. Più che un luogo è una situazione, nella quale le esperienze si susseguono senza aver mai la possibilità di cristallizzarsi. I traslochi non si contano, le gallerie esauriscono la loro mission nell’arco di pochi mesi, le riviste nascono con spunti geniali e durano una manciata di numeri; anche le cattedre universitarie sono concepite come missioni temporanee.

Impossibile fossilizzarsi mentalmente nella libera repubblica di Diaconia, che non a caso ha un abitante unico e difficilmente imitabile: Mario Diacono, classe 1930, in questo momento di casa a Brookline, Massachusetts. L’occasione di incontrarlo via whatsapp è la mostra che il Macro di Roma gli ha dedicato e che naturalmente si intitola “Diaconia”, con l’aggiunta dei termini “tra scrittura ed arte”: una mostra che è una rappresentazione fedele di un’avventura intellettuale che si è concessa pochi punti fermi: una costellazione di ephemera, riviste, libri, fotografie e opere dedicate a Diacono dagli artisti con cui ha collaborato. «Questa mostra», ci racconta, «è la rappresentazione visiva di una lunga intervista che Luca Lo Pinto, oggi direttore del Macro, mi aveva fatto nel 2013 per la rivista online Doppiozero»,

Se il catalogo delle esperienze vissute è davvero infinito, le parole di Diacono sono sempre parche, calibrate, prive di ogni accento retorico. Con i suoi lunghi capelli bianchi da irriducibile libertario, colpisce per la precisione di ogni ricordo, per l’insistenza sulle date (e sono tante!) come fattore imprescindibile per la corretta narrazione del suo percorso. Il primo di questi ricordi è inevitabilmente quello che riguarda Giuseppe Ungaretti, suo professore all’università con il quale si era laureato con una tesi su “Lacerba”, la rivista dei futuristi fiorentini (di Ungaretti Diacono è stato anche segretario per tre anni e ha curato la raccolta di testi critici, “Vita di un uomo”). «È stata un’esperienza importante per me, perché ho potuto esplorare una rivista dove letteratura e arti figurative vivevano su uno stesso terreno. È stata un’intuizione del futurismo, con la quale mi sono sentito in sintonia e che poi ho sempre cercato di portare avanti. Anche se per me il linguaggio letterario e quello figurativo restavano due linguaggi separati».

“Scrittura ed arte”, come indicato dal titolo della mostra romana, sono i due poli tra i quali Diacono si è sempre mosso. Scrittura è una forma di espressione che, a partire dal 1968, sconfina nella forma artistica, quasi per mettersi al riparo dalla devastazione omologante provocata dall’egemonia della cultura consumistica: quella cultura che “Il carro”, piccola opera, amara e ironica del 1972, si prepara a buttare in una discarica. Sul cassone del camioncino giocattolo sono infatti stampigliati spezzoni di parole svuotate di senso e di realtà (sono gli anni in cui Pasolini dalle colonne del Corriere lanciava le sue condanne contro l’appiattimento linguistico operato dalla televisione).

«In quella fase è stato importante per me il riferimento al surrealismo e ad André Breton con il suo “Poem object”», racconta Diacono. «Breton in realtà aggiungeva un testo poetico all’oggetto. Io ho fatto una scelta più radicale con gli “ObjTexts”, dove la parola quasi scompare e i miei testi diventano tridimensionali: è un’espansione del linguaggio nella visualità. Percepivo che il linguaggio poetico che ci era stato tramandato non reggeva più. Mi trovavo davanti ad una frammentazione che non era più ricomponibile in un testo». È il momento in cui Diacono dà vita ad una serie di collaborazioni con figure che come lui si interessavano di questioni teoriche e poetiche, compagni di strada con i quali sviluppava progetti editoriali indipendenti e clandestini, lontani dalla distribuzione ufficiale. Con Emilio Villa dà vita a Ex, con Stelio Maria Martini crea Quaderno, con Ugo Carrega produce aaa, e collabora con Martini e Luciano Caruso al progetto Continuum

«Emilio Villa e Jannis Kounellis sono stati per me i riferimenti paralleli che indicavano un nuovo inizio rispettivamente nella letteratura e nella pittura. La cultura da cui venivamo aveva raggiunto un livello di sfinimento, era incapace di generare un’intensità espressiva. Avvertivo la necessità di un linguaggio nuovo e Villa e Kounellis condividevano questa mia urgenza. Per trovare risposte Villa aveva anche cominciato a studiare le civiltà precristiane in cerca di nuovi archetipi. Io invece mi dirottai sulle arti tribali, con due viaggi per me fondamentali  nel 1962 in Africa Occidentale e nel 1968 tra le comunità Navajo e Hopi del New Mexico e dell’Arizona».

Mario Diacono cone Emilio Villa, 1971

Se il linguaggio scritto per Diacono era esausto, non di meno si poteva dire per il linguaggio della pittura. Eppure negli anni 80 Diacono si trova in prima linea nel proporre un gruppo di artisti che tornavano perentoriamente a dipingere. «Erano quelli di una nuova generazione che poi si raccolsero sotto l’etichetta della Transavanguardia. Mi interessarono subito perché capii che alla radice della loro pittura non c’era più una figurazione preoccupata di rappresentare la realtà, ma era una pittura che nasceva proprio dall’insorgenza degli archetipi, che diventano i soggetti dei loro lavori. Esposi Chia e Cucchi nel 1979 nella galleria che allora avevo a Bologna: in quel momento consideravo la loro pittura un atto di avanguardia. Poi la spinta di quel gruppo di artisti neoespressionisti si è esaurita alla fine degli anni ‘80».

È difficile tenere sotto controllo la curiosità nel dialogare con Diacono. Così gli chiediamo di alcuni personaggi che hanno segnato la sua avventura artistica. Inevitabile partire da Vito Acconci, al quale Diacono ha dedicato un libro nel 1975: «L’ho conosciuto quando insegnavo a Berkeley nel 1969. Mi interessava perché veniva dalla poesia e transitando nella performance aveva fatto un “by pass” che giudicavo molto interessante. Per me la parola aveva finito con l’intrecciarsi con l’oggetto, lui aveva invece trovato una simile oggettività facendo del corpo un linguaggio». Altra relazione importante è stata quella con Claudio Parmiggiani: «L’ho conosciuto a Roma nel 1967. Mi ha interessato subito perché il suo lavoro non seguiva mai strade prestabilite. Poi ci siamo trovati in sintonia nella comune attenzione per i linguaggi dell’ermetismo, come forma per esprimere la dimensione della trascendenza. Abbiamo fatto anche una rivista insieme TAU/MA di cui sono usciti sette numeri». 

Con Basquiat è stata l’intuizione di un istante: «Ero rimasto impressionato da un suo quadro visto a Documenta nel 1982. Per una serie di coincidenze esposi una sua grande tela di 4 metri nella galleria che avevo allora a Roma e scrissi un testo che nelle bibliografie compare come il primo catalogo su di lui». Intatta è la stima per Cy Twombly: «L’ho conosciuto alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martis. È il primo artista nel quale mi sono davvero identificato, perché avevo percepito che con lui cambiava il clima dell’arte a Roma. Anche lui si era mosso partendo da un archetipo, il linguaggio classico, che nella sua pittura non aveva nulla di archeologico ma assumeva una forte carica psichica, andando al di là della pittura astratta». Tra le relazioni speciali di Diacono c’è anche un artista che non ti aspetti, Alex Katz, figlio dell’onda lunga della Pop Art: «L’ho conosciuto a Roma a casa di Donna Moylan, un’artista che mi ha fatto un ritratto esposto alla mostra al Macro. Ho colto nella sua pittura un’originalità e una freschezza e mi è sembrato semplicistico catalogarlo semplicemente come artista figurativo. C’era un elemento ieratico che lo distingueva dalla pop art e dai suoi epigoni: aveva un rigore formale che lo avvicinava al minimalismo. Gli organizzai una mostra nella galleria di Boston nel 1985, con l’obiettivo di metterlo in dialogo con una generazione di artisti successivi alla sua».

Per chiudere la conversazione inevitabile chiedere a Diacono un suo giudizio sulla situazione attuale. «Vedo una tale frammentazione del discorso artistico, che rende impossibile costruire un discorso univoco, o cogliere una direzione. Ultimamente abbiamo assistito ad un recupero degli artisti afroamericani, ma è più nella chiave di un risarcimento. Può essere che questa sia una premessa perché in un prossimo futuro si assista a qualcosa di diverso, che le varie culture si assorbano l’un l’altra e venga fuori qualcosa di nuovo». E degli NFT che ci dice? «Non mi faccia parlare. Li ho ribattezzati “No Fucking Tokens”, nel senso di “I don’t want Fucking Tokens”: è solo nuovo ciarpame propinatoci dal capitalismo».

(articolo pubblicato su Domani, 15 agosto 2021)

Con Achille Maramotti a Documenta 1987

Written by gfrangi

Agosto 16th, 2021 at 7:54 am

Monte Verità. Szeemann, la mostra come rivelazione

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«Il Monte Verità: somma di ideologie innestato in un paesaggio materno». Così Harald Szeemann definiva quel luogo magnetico al quale aveva dedicato tanta passione e tante energie a partire dagli anni 70. Sulle cartine è indicato come Monte Monescia; per il grande curatore svizzero quella serie di panettoni dolci che si alzano sopra Ascona si configuravano, quasi in forza di un’allitterazione, come le “mammelle della verità”.

In realtà tra le tante credenze sperimentate fin dagli inizi del 900 da quegli spiriti anticonvenzionali che hanno segnato la storia di questo luogo, non c’era nessuna “divinità multimammellare”, che invece è figlia dell’intuitività e dell’acribia critica e archivistica di Szeemann. «Le mammelle», scriveva, «hanno nomi, si identificano con le risposte date ai problemi del tempo dalle utopie che si sperimentavano ad Ascona». La prima mammella era l’anarchia assunta come modello sociale, che «postula l’uomo emancipato». Le mammelle sono fonti nutritive, così la seconda ha alimentato i modelli teosofici che hanno fatto del Monte Verità una sorta di molteplice monastero laico. La terza mammella prefigura un paradiso comunista e comunitario «dove la coppia dei contrari, l’individuale e l’estraneo, non sono più opposizioni causanti discordia e infelicità». Luogo dove il matriarcato avrebbe dovuto risorgere, non senza contraddizioni, visto che il suo teorizzatore, il fisiatra Otto Gross, alla fine consegnò il progetto con una scelta “patriarcale” (come sottolinea con una punta di ironia lo stesso Szeemann) a Carl Jung, che dal 1933 sarebbe diventato il principale oratore e padre spirituale per la comunità. Infine la quarta mammella è quella dell’arte, che ha attratto da queste parti i dadaisti zurighesi, e poi Marianne von Werefkin con Alexey von Jawkensky, ma anche scrittori come Joyce e Rilke. Ma l’elenco dovrebbe essere ben più lungo…

Alla sequenza degli artisti Szeemann ne aveva poi aggregato un altro: Elisàr von Kupffer, pittore nato in Estonia nel 1872 che si era stabilito in Ticino negli anni 20 con il compagno Eduard von Mayer. Insieme avevano fondato un movimento filosofico religioso improntato sull’emancipazione sessuale, ribattezzato il Clarismo. Più che teorizzarlo, lo avevano messo in figura, all’interno di un santuario costruito a Minusio, a pochi chilometri dal Monte Verità. Era il Sanctuarium Artis Elisarion, un tempio circolare, fasciato da un grande dipinto composto da 16 tele, con 84 nudi maschili immersi in una sorta di paradiso terrestre: un rituale che vedeva per protagonista l’artista stesso, il cui “io” morente è disteso su un letto in attesa della sua resurrezione.

Szeemann lo aveva scoperto nel 1977 mentre stava preparando la mostra itinerante sul Monte Verità. Lo aveva integrato nel percorso, facendolo trasferire nel complesso sulle pendici del Monescia. Oggi, dopo il restauro effettuato da Petra Helm e da Christian Marty, il padiglione è tornato di nuovo visitabile per il pubblico ed è uno dei motivi che rendono davvero intrigante tornare al Monte Verità. Sotto la direzione di Nicoletta Mongini, il complesso inoltre sta arricchendosi di nuovi interventi, come quello di Michelangelo Pistoletto che ha progettato nel parco un intervento come articolazione della sua mostra da poco inaugurata al Museo Comunale di Ascona: si tratta di una versione del Terzo Paradiso, realizzata con semplici sassi levigati trovati nel parco. L’aspetto è quello di un’emersione da uno scavo archeologico, quasi a testimoniare il radicamento dell’utopia nelle fibre del Monte Verità. Fabrizio Dusi, invece ha realizzato un omaggio al paradiso di Elisàr von Kupffer, all’interno dell’Hotel storico (costruito in stile Bauhaus: sono tante e varie le utopie che si sono affacciate da queste parti…): un dipinto delle dimensioni di un affresco dedicato al “Giardino dell’Eden”.

È indubbio però che il deus ex machina di questo luogo affascinante e magnetico sia sempre Harald Szeemann: è grazie al filtro della sua intelligenza che oggi si guarda a Monte Verità non come ad una palestra di eccentricità ma come ad un laboratorio di utopie che riguardano, per esempio, anche il modo di ripensare i codici del fare una mostra. A Casa Anatta, edificio costruito dai primi abitatori del Monte nel 1904, è infatti custodita l’installazione di 975 oggetti che componevano il percorso dell’esposizione itinerante del 1978 “Le mammelle della verità”: è l’unica mostra tutt’ora allestita del curatore bernese, insieme al commovente Museo Comico per il grande clown Dimitri, a Verscio, sempre in Ticino. Tutto questo è stato possibile perché alla sua morte la Fondazione proprietaria del complesso è riuscita ad acquisire quella parte dell’archivio relativo alle ricerche e al rapporto con Monte Verità: Szeemann tra 1984 e 1990 aveva fatto parte della commissione culturale. Tutto il resto del grande archivio, com’è noto, è stato rilevato dal Getty Museum. 

Szeemann definiva “Le mammelle della verità” una mostra archeologica, frutto delle sue sistematiche ricerche. Si trattava, per lui, di un’archeologia vivente: «un’addizione di mete altissime condensate in 600 vite, in 600 visioni di paradisi», chiariva. I documenti, i reperti, le fotografie non mostrano a noi solo come interessanti testimonianze; sono spezzoni di sogni, che in tanti casi prefigurano nostri sogni di ogni, dal rapporto da ricostruire con la natura, a relazioni umane dettate da un nuovo altruismo. I sogni erano anche quelli di una “riforma del corpo” attraverso la danza naturale interpretata da Charlotte Bara, ballerina per la quale nel 1927 era stato costruito ad Ascona il Teatro San Materno. Di lei Szeemann aveva ritrovato i costumi, chiusi in una scatola di cartone e dimenticati nelle cantine di Casa Anatta e che oggi ritroviamo esposti, ancora vibranti dell’utopia che li aveva abitati.

Il lavoro di ricucitura operato dal curatore bernese non è semplicemente documentario. È ricucitura con una tensione utopica che diventa grammatica della mostra stessa, a dimostrazione di come la parabola di Monte Verità fosse una partita ancora aperta. Basta leggere l’obiettivo che Szeemann si era dato: «Monte Verità deve inoltre mostrare cosa possa oggi riproporsi una mostra: essere superamento di ogni parcellizzazione e contemporanea rivelazione delle nascoste componenti fantastiche». 

Written by gfrangi

Agosto 4th, 2021 at 2:28 pm

Gottfried Helnwein, orrore ed epifanie

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Cominciamo con una premessa indispensabile: per capire l’arte di Gotffried Helnwein, protagonista molto atteso di una mostra che aprirà a Venezia alla Marciana il prossimo 2 luglio, bisogna guardare oltre l’apparenza. Sarebbe infatti facile incasellarla come aspra e implacabile pittura di denuncia, visti i suoi soggetti così spesso deturpati, devastati dalla violenza orrenda della storia. La sua è pittura che con puntigliosità fotografica non risparmia nulla al nostro sguardo: sconvolge, incalza, interroga, smuove. È arte che infierisce ad oltranza. Eppure alla fine ci si rende conto che la sua non è pittura prigioniera degli incubi che documenta e rappresenta. Dietro l’evidenza di queste sue immagini c’è un’energia opposta che vuole sottrarsi a quel destino. 

Helnwein è uno di quegli artisti che, come Kiefer, Richter o Baselitz, per stare sui nomi più famosi, sono stati chiamati a fare i conti con le colpe derivate dalla loro appartenenza all’identità tedesca. Helnwein è austriaco e ha fatto sua la consapevolezza traumatica di appartenere a una nazione che ha avuto un ruolo nell’Olocausto, e che si è protetta nel tragico mito della superiorità etnica. È nato nel 1948 e appartiene quindi ad una generazione obbligata a rompere la cortina di silenzio con la quale la generazione che l’aveva preceduta aveva cercato di coprire le proprie responsabilità e connivenze. Sulla formazione visiva di Helnwein gioca anche un altro fattore decisivo: l’Austria è paese cattolico, e la chiesa nazionale si era pesantemente compromessa con il regime, al punto che nel 1938 Pio XI aveva richiamato a Roma il cardinale di Vienna il cardinal Theodor Innitzer e lo aveva costretto a ritrattare l’appoggio annunciato a Hitler. Non c’è quindi da stupirsi se nella pittura di Helnwein l’immaginario indotto dalla storia e quello indotto dalla secolare iconografia religiosa finiscano così spesso con il sovrapporsi. Sovrapporsi non significa però affatto che confluiscano l’uno nell’altro. È questo l’aspetto dell’arte di Helnwein che la sottrae a letture schematiche e la posiziona oltre l’orizzonte di una negatività senza sbocchi. Alla radice dell’arte di Helnwein mi pare di poter affermare che ci sia la necessità di una speranza. È emblematica la testimonianza del direttore dell’Albertina, Klaus Albrecht Schröder, a bilancio della mostra dell’artista tedesco, organizzata dal museo viennese nel 2013. «Quasi non riuscivo a crederci», ha detto. «È stata la mostra che ha toccato di più la gente, quella che ha commosso tante persone fino alle lacrime. Evidentemente Gottfried Helnwein scuote le persone nel profondo, muove i loro cuori». 

La sua opera in effetti è disseminata di indizi che inducono chi la guarda a porsi domande e a lasciarsi scuotere dal messaggio intrinseco nell’opera. Uno di questi indizi sono spesso i titoli. “Epiphany” è una formula usata per alcune grandi opere della fine degli anni 90; una formula abbinata a soggetti certamente non palesemente gioiosi come è stata per secoli la rappresentazione dell’Adorazione dei Magi. «“Epiphany”», ci spiega Helnwein, «indica la manifestazione di una realtà divina o soprannaturale, oppure ogni momenti di grande e improvvisa rivelazione». Evidentemente all’artista sente l’urgenza che l’opera non resti ingabbiata nella situazione storica che viene sviscerata e rappresentata, ma che contenga sempre un punto di uscita, un fattore imprevisto capace di innescare, in chi la osserva, una “rivelazione”. Per la tela intitolata “Epiphany III (Adoration of the Shepherds)”, Helnwein ha preso spunto da una foto scattata nel 1931 da Heinrich Hoffmann nella Braunes Haus, la sede del Partito Nazionalsocialista a Monaco. Nella foto originale le SS assiepate puntavano lo sguardo “devoto” verso Hitler; Helnwein invece ha creato un corto circuito mettendo di fronte a loro una Madonna raffaellesca con il Bambino. L’opera è una denuncia di quella drammatica confluenza tra politica e religione maturata nell’Austria degli anni 30; ma non è solo questo. Il Bambino, come in tante opere di Helnwein, è portatore di quella che l’artista definisce «l’essenza dell’essere umano». Per questo tiene gli occhi chiusi, come per un rifiuto rispetto agli sguardi voraci che lo vorrebbero portare dalla loro parte, e allunga il dito puntato, che se non è di condanna è come il segno di una presa di distanza. «Lo scopo fondamentale dell’arte, nella sua stessa natura, è spirituale», dice Helnwein. «Qualsiasi vera opera d’arte deve contenere un significato più profondo e deve essere in grado di riservare un impatto emotivo sulla persona che la osserva, deve avere il potere di toccare e commuovere». Poi aggiunge: «La vera arte è evidente e non ha bisogno di una spiegazione teorica o di una giustificazione»

Un’altra volta Helnwein si era coinvolto con il soggetto della Madonna con il Bambino. Lo aveva fatto ispirandosi ad un capolavoro di Mantegna custodito al Museo Poldi Pezzoli di Milano. «È un quadro che mi commuove profondamente», confessa Helnwein. «Per me, esprime l’empatia di Dio, che diventa un bambino indifeso, e assume la sofferenza di tutta l’umanità, e l’amore incondizionato della madre». Eppure anche questa “variazione” su Mantegna ha una precisa ragione storica: Helnwein la realizza nel 1993, nel pieno della guerra in Bosnia, una guerra etnica, nella quale tante atrocità erano state commesse sotto la copertura delle rispettive appartenenze religiose. Per questo Helnwein vira l’immagine di Mantegna in un monocromo violetto e soprattutto “aggredisce” il Bambino con dei tagli che ne feriscono in modo crudele il volto. Quel Bambino violato non rappresenta però un’operazione provocatoria, né tanto meno arbitraria. Con Helnwein, come abbiamo precisato, bisogna sempre andare oltre le semplici apparenze: l’artista infatti ha scelto una maternità tra le più intense del nostro Rinascimento, un’immagine di grande drammaticità nel suo “sottotesto”, in quanto il Bambino addormentato nelle braccia della madre è premonizione del destino di passione che lo attende. Quindi è un’immagine perfettamente pertinente rispetto all’urgenza di dover render conto senza scorciatoie di quel precipizio cupo e brutale aperto nella nostra storia recente. Ma il Bambino, pur così ferocemente violato, agli occhi di Helnwein è comunque depositario di una “rivelazione”. «Per me», confida l’artista, «il quadro di Mantegna esprime l’empatia di Dio, che diventa un bambino indifeso e assume la sofferenza di tutta l’umanità, ed esprime anche l’amore incondizionato della madre». Un Dio che gli uomini hanno strumentalizzato in modo blasfemo, ma che nonostante questo non si sottrae dal farsi presenza e quindi “immagine”. Come accade nelle grandi opere di Bacon ispirate all’iconografia della Crocifissione, anche in Helnwein, il soggetto sacro si carica di una violenza al limite del sopportabile e del tollerabile. Diventa fattore di scandalo. Ma questo lo rende necessario e lo strappa alla “comfort zone” di un grande e glorioso passato e della tanta oleografia che purtroppo ne è seguita. 

Quando chiediamo a Helnwein se è corretto guardare alla sua arte come ad un’arte anti nichilista, lui indirettamente conferma: «La domanda che da artista mi pongo è questa: l’arte ti spaventa, ti sorprende, ti sconvolge, ti eccita? Ti fa pensare? Stimola la tua immaginazione? Cambia in qualche misura il tuo modo di vedere il mondo? L’arte ha una qualità magica che non si può spiegare; non è logica, e se volete sperimentarla, la vostra mente e il pensiero razionale vi saranno di poco aiuto. Puoi solo sperimentarla con i tuoi sensi, il tuo cuore, la tua anima». Per non rischiare di sfuggire dagli sguardi di nessuno, Helnwein spesso ha fatto ricorso a quadri di grandi dimensionie con sviluppi pubblici, come aveva fatto nel 1988 con l’installazione “Ninth November Night” fuori dalla Cattedrale di Colonia: grandi volti di bambini pieni di spavento, per far memoria della Notte dei Cristalli. Il tema della sua arte è uno solo: la condizione umana. E per lui l’arte, prima e più che una vocazione, è una mission.

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Luglio 4th, 2021 at 11:04 am

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Il bagno di Fabro nella fontana di Bernini

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Il 16 marzo 1978, giorno drammatico del rapimento Moro, uno strano corteo si mosse per una Roma deserta e militarizzata. Era partito da via Gregoriana, dove Luciano Fabro era andato a prelevare da un collezionista una sua scultura: “Io (L’uovo)”, un bronzo concavo all’interno, realizzato sulle misure dell’artista in posizione fetale. Imbracciando quel suo alter ego di bronzo, Fabro era sceso lungo via Veneto per andare a deporre la sua opera nelle acque della Fontana delle Api di Bernini in piazza Barberini. Non era solo, perché dietro di lui si era accodato un nutrito stuolo di amici, come Mario e Marisa Merz, Yannis Kounellis, Vettor Pisani con, Mimma, Francesco Clemente e tanti altri.

Nel gruppo c’era anche una giovanissima Laura Cherubini, allieva di Giulio Carlo Argan e già molto attiva sulla scena romana. È proprio lei a rievocare questo episodio in un libro appena pubblicato, in cui ha raccontato più che da vicino, “da dentro”, sei protagonisti dell’arte italiana di fine secolo (“Controcorrente. I grandi solitari dell’arte italiana”, Christian Marinotti edizioni, 198 pag., 20 euro).

Non è un libro di memorie. È una sorta di diario di bordo dove amicizia, simpatia, complicità, non intaccano quello che è il focus dell’attenzione di Cherubini: le opere. Quello stesso episodio raccontato nel capitolo dedicato a Fabro, poi si chiude arrivando al punto che più preme all’autrice. «Un’opera per me meravigliosa», scrive a proposito di quel lavoro di Fabro, «un uovo di bronzo tornito fuori, invece cavo, dorato e levigato all’interno, dove nella cavità si intravvedevano in rilievo le impronte delle mani dell’artista». È sempre l’opera che calamita l’attenzione e il ragionamento dell’autrice, e quindi anche la rievocazione di quel rito e intenso e così “irrituale” in una «Roma raggelata dalla paura», è funzionale a sottolineare la forza maieutica del bronzo di Fabro. 

Gli altri autori affratellati da questa identità “controcorrente” sono Alighiero Boetti, Gino De Dominicis, Fabio Mauri, Vettor Pisani e Marisa Merz. Il libro aggrega testi scritti tra 2004 e 2016, che Cherubini ripropone senza ulteriori interventi, ma operando in molti casi sulle note, in modo inedito e anche sorprendente. Le note sono usate infatti per ripescare dalla cassetta degli attrezzi altre informazioni e per operare nuovi agganci. Così quei testi storicizzati prendono la forma viva di file ancora aperti. 

Fabio Mauri fotografato da Elisabetta Catalano, 1968 © Eredi Fabio Mauri

A proposito di storia c’è una data che può essere presa come punto di non ritorno: Fabio Mauri la indica in quel 1964 con il grande lancio della Pop Art a Venezia e il Leone d’oro a Robert Rauschenberg. Qualcosa si spezza: Cherubini scrive che Mauri «vede in loro intelligenza e talento e riconosce la forza delle cose». Ma queste “cose” vanno nella direzione di fare del lavoro artistico un’esperienza «organica alla loro mentalità e allo loro società». Di fronte a questo “tutto unico” (così Pasolini a proposito della Pop Art) Mauri ed amici non possono fare altro che continuare in percorsi che nel titolo del libro vengono per questo definiti “solitari”, anche se alcuni di loro si aggregano in un primo tempo in quel tentativo di risposta organizzata all’egemonia a stelle strisce che è stata l’Arte povera. 

Sono percorsi nei quali l’intercapedine tra arte e vita si fa sottilissima («Creare un’opera avviene continuamente, non c’è differenza tra l’arte e la vita», ha detto Marisa Merz): il gesto di Fabro che immerge l’altro sé stesso nel liquido amniotico delle acque berniniane è ben emblematico di questa continua e necessaria fusione di piani. 

Solitari dunque, perché tenacemente fedeli a se stessi senza temere di essere fuori dai flussi forti della storia: per loro più che una scelta è un destino. Solitari non vuol dire affatto che siano isolati, come dimostra lo spontaneo aggregarsi per quella processione del 16 marzo 1978. Solitari va letto nell’accezione di un’eccentricità che li caratterizza tutti, ciascuno con un accento personale. D’altronde, come aveva lucidamente sentenziato Gino De Dominicis, «non è mai esistito un “mondo dell’arte”, ma solo opere d’arte nel mondo».

Alighiero Boetti (fotografia di Isabella Gherardi)

Laura Cherubini ha ricavato da questo giudizio un metodo di lavoro. Il suo infatti è un libro che si posiziona sempre sul piano delle opere e attraverso le opere cuce trame che portano a comporre “da dentro” i profili dei singoli artisti. È attraverso le opere, con quel loro denso carico di vissuto, che arriva a stabilire una relazione di intimità e quindi a consegnarci una narrazione aperta; storie che avvertiamo ancora capaci di implicarsi con il tempo che stiamo vivendo. Boetti, che nel 1971 sposta il suo baricentro affettivo e mentale in Afghanistan, disegna nuove mappe, ampliando gli orizzonti del mondo. Lo fa con dolcezza, cioè con il linguaggio di opere che sono sussulti poetici. L’io dell’artista si lascia prendere per mano con il candore di un neofita. Quel mondo diventa per lui la “casa”. E la casa assume la forma di un albergo, “One Hotel”, da lui aperto nel 1971 a Kabul. Sono 11 camere, spesso occupate da amici. Racconta Cherubini come Ali Ghiero (così lo chiamavano in Afghanistan) si portasse sempre dietro la cassetta delle chiavi, non se ne separava mai, neanche quando tornava a Roma: «Quell’albergo era una performance permanente, un ulteriore contributo al rapporto tra arte e vita». Il legame con Kabul lo portava a seguire con apprensione le gesta del comandante Massud, prima contro i talebani e poi contro i sovietici. La terra d’elezione di Gino De Dominici era quella dei Sumeri, la civiltà che secondo lui aveva inventato tutto, quella dell’“originarietà”: la Mesopotamia. E anche a De Dominici era toccato vivere la ferita dello sfacelo di quella terra ai tempi della prima guerra in Iraq. Solitari, eccentrici dunque, ma ben connessi con la storia.

A parte le amicizie incrociate che legano questi “solitari”, c’è un’altra predisposizione che li accomuna. È il bisogno di reinventarsi una casa. Di Boetti abbiamo detto. Fabio Mauri nel 1990 trasloca parti della propria abitazione alla Galleria D’Ascanio e le mette in vendita. Scrive Cherubini: «L’opera è un luogo d’identità, una casa». Ancora una volta arte e vita abitano sotto lo stesso tetto. «Ogni mostra è un caso personale», dice Mauri, «è una casa personale». Vettor Pisani invece trova nella cava di travertino di Serre di Rapolano, il luogo dove accasare i suoi fantasmi. Lo circonda con un recinto facendone un vero hortus conclusus. «La trasformazione della sua rêverie in un sito reale costituisce uno spartiacque nella sua opera», sottolinea Cherubini. Le testimonianze su Marisa Merz sono concordi nel dire che la sua casa fosse il suo vero lavoro. Ester Coen l’ha definita “un grande guscio” dove lei dispone e le cose e appaiono e scompaiono opere in continuo divenire. Infine Fabro, specialista di tautologie gentile, nel 1966 presenta “In cubo”: una struttura di legno e metallo, rivestita di tela bianca, che lasciava filtrare una luminosità soffusa. Un luogo da abitare con il proprio corpo, offerto ai visitatori per tagliare fuori il mondo. 

A proposito di case, Fabro aveva presentato alla Galleria Nazionale di Palma Bucarelli un’opera che consisteva in un pavimento tirato a cera e ricoperto di giornali, proprio come facevano le donne nella sua infanzia friulana, perché non si sciupasse il lavoro fatto. Cherubini ricorda che sentire parlare Fabro di quella sua opera era stato uno dei fatti che la convinsero a passare dagli studi dell’arte classica all’arte contemporanea, «perché capii che spessore e che profondità poteva avere l’arte contemporanea».

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Aprile 7th, 2021 at 3:25 pm

Fontana 1949, il Crocefisso cosmico

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Milano, 1949: nella Milano che riemergeva velocemente dalle macerie della guerra Lucio Fontana si ripresentava nella sua città d’adozione (era nato infatti a Rosario in Argentina, dove aveva trascorso anche gli anni della Guerra) con una mostra destinata a fare epoca: alla Galleria del Naviglio, da poco inaugurata in via Manzoni da Carlo Cardazzo, presentava il suo “Ambiente spaziale”, una serie di elementi fosforescenti e fluttuanti appesi al soffitto della galleria, tenuta al buio con pareti nere. Era l’avvento di una stagione nuova, nella quale l’opera d’arte usciva dai suoi confini, e si metteva in relazione vitale con lo spazio in cui si collocava.

In quell’anno Fontana sperimentava anche le prime tele con i buchi, anticipo di quella che sarebbe stata la soluzione che l’avrebbe reso celebre, cioè i suo “Tagli”: il quadro, conservato nella sua condizione quasi verginale, si apriva al possibile irrompere di un fattore imprevisto. “Attesa” non a caso è il titolo assegnato tante volte da Fontana ai suoi “Tagli”: «Sono riuscito con questa formula a dare a chi guarda il quadro un’impressione di calma spaziale, di rigore cosmico, di serenità nell’infinito».

Fu una novità folgorante quella messa in campo da Fontana, tant’è che quello stesso anno l’artista venne chiamato a esser parte di una mostra che ha fatto epoca: “Twenty-Century Italian Art” al Moma di New York, mostra curata dal mitico Alfred Barr, fondatore del museo.

Fontana non era artista ideologico o schematico, quindi insieme a quella sua produzione d’avanguardia continuava a restare fedele alla scultura, in particolare usando l’amatissima ceramica. È il Fontana etichettato come “barocco”, che è al centro di una mostra di notevole qualità in una galleria milanese (Galleria Matteo Lampertico): insieme a Fontana sono esposte anche opere di altri scultori inclini al “barocco” del nostro 900, Leoncillo e di Fausto Melotti.  

Tra le opere in mostra una spicca su tutte le altre: è un Cristo crocefisso in ceramica, proveniente da una collezione privata romana, realizzato proprio in quel 1949. Ovviamente quella data che si sovrappone all’esordio del Fontana “spazialista” può lasciare spiazzati. Eppure davanti a questo piccolo capolavoro si capisce come la mente che esplora o evoca “l’oltre” davanti alla tela sia del tutto coerente con la mente che invece plasma un “corpo pieno” come questo Crocefisso, facendolo però quasi esplodere nello spazio che lo accoglie. Il corpo di Gesù, riconoscibile nell’incarnato bianco, compie la torsione dell’attimo finale, coinvolgendo nel suo spasimo, non solo la croce, che si piega proprio a quella torsione, ma anche tutto il mondo attorno («Si fece buio su tutta la terra», testimoniano i tre vangeli sinottici). La Croce scuote lo spazio, lo abbraccia e ne è abbracciato, come a documentare, con un’evidenza palpabile, che il dolore di Cristo è dolore per il mondo e per il cosmo. Per questo è impressionante vedere come un’iconografia antica che si è consolidata nei secoli in tanti capolavori, sappia rinnovarsi generando un’immagine, o meglio un “corpo scultoreo”, che accoglie il fremito inquieto e anche le forme della modernità: in fondo questo Crocefisso è un approdo dello spazialismo di Fontana. Personalmente, lo considero l’immagine-dono di questa Quaresima appena iniziata.

Pubblicato su Il Sussidiario, 22 febbraio 2021

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Febbraio 23rd, 2021 at 10:15 am

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Ancora su Enzo Mari. Una radicalità dettata dall’amore

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Qualche riflessione dopo la visita alla mostra (bella e formativa) di Enzo Mari con Francesca Giacomelli, curatrice insieme a Hans Ulrich Obrist.

Il lavoro. È un dogma per Enzo Mari. Uscire dal lavoro alienato significa rimettere in movimento la creatività che è connessa con l’agire. In sostanza il lavoro non realizza l’opera progettata ma ne determina alcuni connotati. È un’utopia che cerca di farsi pratica, come accade nei centro tavola in lamiere saldate con ottone per Danese, dove la saldatura dorata è affidata alla libertà esecutiva dell’operaio. Anche il monumento a Franceschi fa leva su questa idea potente del lavoro: il grande maglio piazzato clandestinamente sul marciapiede della Bocconi, nella sua brutalità è l’affermazione di un valore, di una centralità, al di là di tutte le contraddizioni del modello produttivo. Monumento a tutti gli effetti.

L’autocostruzione fuori dalle mitologie. L’idea nasce da un fallimento, quello del divano Day and Night del 1971. È sulla base di quell’esperienza che Mari immagina un percorso che torni alle radici: non tanto insegnare al consumatore a fare da sé, quanto farlo partecipe dei processi creativi e produttivi in modo da renderlo più consapevole e maturo nelle scelte. È una sorta di disperazione che muove Mari in direzione di questo ritorno al chiodo e martello: una disperazione che verrà invece equivocata in modo spontaneista.

C’è uno spirito monacale nel modo con il quale Mari approccia le ceramiche, in particolare quelle della serie Samos (1973). Le spoglia, le rende fragili, le scolora. Lui spiegava: «La bellezza mi colpisce al cuore, mi emoziona, ma questo per me non è sufficiente: voglio capire a tutti i costi come ci si arriva». In quel semplificare c’è forse l’ansia di intercettare la bellezza nel suo scaturire, o in una sua condizione essenziale. Quelle ceramiche sviluppano un’aura, che le rende preziose per essere toccate. Quasi delle ostie. 

Infine i bambini. Il desiderio di progettare per loro va di pari passo con un desiderio di innocenza. In fondo Mari con i libri, con gli animali, con le sue mele progetta un nuovo paradiso terrestre. Si trova a suo agio perché il processo conta più dell’esito e l’esito è frutto di una libertà che non elude la disciplina. Così l’esito ha un che di matissiano… (nella meravigliosa oca, in particolare). 

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Febbraio 5th, 2021 at 12:18 pm

La grafica di Giacometti a Chiasso

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Quando il mondo entra nel cuore

Alberto Giacometti si presentava ogni volta alla porta del lussuoso appartamento affacciato sulla Senna con le tasche della giacca gonfie di lastre di rame già pronte per l’incisione. Era il 1957 e uno dei suoi migliori amici, Michel Leiris, aveva tentato di togliersi la vita ingerendo un flacone di fenorbital. Dopo il ricovero Leiris era tornato a casa per la convalescenza impegnandosi a scrivere delle poesie, che sarebbero state pubblicate con il titolo “Vivantes cendres, innommées”.

Le lastre di rame che gonfiavano le tasche Giacometti servivano appunto per le illustrazioni che dovevano accompagnare il libro. Ne servivano tante, verrebbe da dire in quantità proporzionale all’amicizia che legava l’artista allo scrittore ed etnologo francese: alla fine ne sono scaturiti ben 25 ritratti ad acquaforte, più altrettante incisioni dedicate a dettagli interni dell’appartamento. Ora l’intera serie tappezza una delle pareti del m.a.x. museo di Chiasso, per una mostra che è occasione preziosa per scoprire la grafica di Giacometti (“Alberto Giacometti. Grafica al confine tra arte e pensieri”, a cura di Jean Soldini e Nicoletta Ossanna Cavadini, fino al 10 gennaio 2021).

È una mostra che stimola ad aprire tante piste di lettura non consuete attorno al grande artista svizzero. Una pista, meno collaterale di quel che si pensi, è proprio quella che riguarda il tema dell’amicizia. Tra le incisioni per Leiris, alcune rappresentano lo scrittore a letto, con la testa abbandonata sul cuscino, in una posa quasi da rigor mortis: è certamente segno di una confidenza profonda, che aveva origini lontane nel tempo. Nel 1929 Giacometti, allora ventottenne, aveva esposto alla Galerie Jeanne Bucher a Parigi e Leiris sulla rivista “Documents” gli aveva dedicato un tributo di quelli difficili da dimenticare. «Ci sono dei momenti che si possono chiamare “crisi” che sono i soli momenti importanti in una vita…», aveva scritto. «Si tratta di momenti in cui il mondo esterno si apre per entrare nel nostro cuore e stabilire un’immediata comunicazione. Amo la scultura di Giacometti, perché tutto quello che lui fa è come la pietrificazione di una di queste “crisi”». 

L’attività grafica di Giacometti, come scrive in catalogo Susanne Bieri, è un sismografo che testimonia l’intensità e la varietà delle amicizie di questo stilita che viveva relegato nei 45 metri quadrati del leggendario “antro” di Rue Hyppolite Mandrion. Rispetto all’icona dell’artista irriducibile e tormentato, ci viene restituita l’immagine più reale di un uomo ben attento a quel che accadeva attorno a lui, sempre pronto a socializzare, curioso e disponibile a tante contaminazioni con la letteratura e in particolare la poesia: basta scorrere l’interessante cronologia che correda il catalogo (edito da Skira), per rendersi conto della quantità di progetti editoriali in cui Giacometti si è lasciato coinvolgere. 

Ad esempio, sempre nel 1929 si era pienamente coinvolto in un progetto molto personale dell’amico Georges Batailles, illustrando l’edizione della sua “Histoire des Rats (Journal de Dianus)”. Si tratta di una serie di incisioni a bulino (tecnica con la quale non si trovava a suo agio e che avrebbe usato molto di rado) con figure su basamento, come sculture disegnate: quelle contrassegnate dalla lettera B nel basamento riprendono i lineamenti di Diane Beauharnais, la donna di cui Dianus-Bataille era innamorato e che avrebbe sposato nel 1946. Amicizia a termine era stata invece quella con André Breton, che non gli avrebbe mai perdonato la sconfessione dell’esperienza surrealista nel 1935: eppure solo l’anno prima quattro incisioni di Giacometti avevano illustrato “L’air de l’eau”, una raccolta di poesia d’amore per Jacqueline Lamba. «Basta con l’immaginario, finito», così l’artista aveva liquidato le pretese di Breton di farlo restare nel movimento. È un momento di passaggio in cui Giacometti interrompe l’attività grafica che avrebbe invece ripreso di gran lena e senza più pause con il suo ritorno a Parigi nel 1946, dopo il lungo soggiorno ginevrino negli anni della guerra. 

Degli anni 50 è la scoperta della litografia, grazie in particolare all’insegnamento di un grande stampatore, Fernand Mourlot. La carta porosa e la matita litografica sono strumenti con i quali Giacometti si trova immediatamente a suo agio, anche perché rispetto a bulino e acquaforte gli lasciano margine per cancellature dei segni. Tra l’altro il doppio passaggio dalla carta alla pietra litografica e di nuovo alla carta permettono di non ritrovarsi con l’immagine rovesciata. Nascono così immagini felicemente libere, come appunti visivi che però svelano una energia narrativa. Ci raccontano l’interno dello studio nei momenti disimpegnati delle pause, con il “riposo“ delle sculture e anche dei modelli: scopriamo ad esempio Diego seduto sul letto, nel disordine dei fogli e delle tele. 

La lastra di rame invece si trasforma in una teca per la moglie Annette chiamata a pose sacrificali per le incisioni destinate a illustrare un libro di René Char, “Poèmes des deux années”. La costruzione è complessa, perché la lastra è suddivisa quasi si trattasse di un polittico in miniatura, con una lunga predella dove Annette è deposta come fosse in una tomba. Il segno dell’acquaforte si fa leggero, quasi semplicemente graffiato, e dà luogo nel 1955 ad una serie stupenda di incisioni con Annette nuda, spesso semplici prove d’artista o tirature “hors commmerce”, quasi dei pensieri a ruota libera, felicemente disgrafici. Sempre per René Chair, nel 1965, avrebbe realizzato una serie di acqueforti su carta nera con un leggerissimo segno bianco che disegna dei profili di montagne. «La gravure avec les moins de traits que j’ai fait de ma vie», commentò l’artista.

Un capitolo a sé è quello rappresentato dal rapporto con gli editori d’arte. Per il leggendario Iliazd, il georgiano Ilia Zadnevitch, grande innovatore nella grafica e nella tipografia, realizza “Le douze portraits du célèbre Orbendale” nel 1961, ciclo di 12 acqueforti. Ma è l’amico Teriade a convincere Giacometti a mettere in cantiere il suo progetto più felice e più vasto, “Paris sans fin”. L’artista inizia a lavorarci già nel 1958, con lo slancio di chi va alla scoperta della metropoli “senza fine” a bordo dell’auto sportiva regalata a Caroline, la ragazza ventunenne di cui si era invaghito: nel frontespizio ci mostra infatti una ragazza che si tuffa libera nello spazio bianco della carta e invita a entrare nel libro. Sono 150 litografie, su fogli di grandi dimensioni (42 x 35 cm). Lo stile è quello corsivo e libero che questa tecnica gli permette: suggestioni visive di un uomo attirato da tutto ciò che lo circonda. La matita calcografica di Giacometti porta alla scoperta di Parigi, delle sue strade e dei suoi caffè. Ma entra anche negli spazi familiari. Non solo nell’atelier “antro” ma entra nelle case eleganti che aveva regalato a chi gli stava più vicino, quella di Annette in rue Mazarine o quella di Caroline  in avenue de Maine. La Parigi di Giacometti è un labirinto pieno di vita, spesso ripreso da dietro lo schermo del parabrezza. In realtà, nonostante la sua baldanzosità, “Paris sans fin” è il libro di un lungo commiato. L’artista sa del male che lo assedia e nel testo solo abbozzato che accompagna le immagini entra in gioco anche «il grande tubo in metallo brillante della gastropia» che «spingeva dentro la gola». L’ultima tavola è quella di un uomo avvolto nel cappotto e ripreso di spalle. A fianco una pagina rimasta vuota: l’11 gennaio 1966 Giacometti moriva senza poter veder stampato il suo “Paris sans fin”.

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Novembre 28th, 2020 at 5:01 pm

Lea Vergine, l’approdo è una “pietas”

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«Non è che me la possa prendere con lui. È privo di malizia, è come un bambino, un selvaggio, con purezza di cuore. E se penso di vivere senza di lui non è possibile». Detto e fatto: il giorno dopo Enzo Mari, il “lui” in questione, anche lei, Lea Vergine, se n’è andata.

Avrebbe certamente detestato che si insistesse su simili coincidenze, ma è difficile non riandare con la memoria a quella copertina che Enzo Mari le disegnò per un libriccino che raccoglieva 25 recensioni scritte in un arco di 13 anni, quasi tutte per Alias. Una mano che stringeva un cuore, ben pulsante. Il titolo del resto andava proprio in quella direzione: “La vita, forse l’arte” (Archinto). In quel libriccino di 137 pagine l’indice dei nomi aveva ben 530 voci: la vita appunto, che stipava le recensioni di una rete fittissima di incontri, di relazioni, di persone conosciute o studiate. Anche il recente libro intervista con Chiara Gatti (“L’arte non è faccenda per persone dabbene”, Rizzoli) si chiude, per suo evidente desiderio con un lunghissimo elenco di nomi. «I nomi di quelle creature che hanno illuminato la mia esistenza con amicizia affettuosa ma anche di coloro che, per pochi secondi, mi hanno fatto costeggiare la tenerezza e la gratitudine».

Ci sono sempre le persone al centro della sua ricerca e del suo lavoro intellettuale, fin da quella mostra del 1971 quasi di esordio, Napoli ‘25/’33, in cui affrontando l’avanguardia sotto il fascismo aveva allineato una serie di bizzarri personaggi che avevano seminato lo scandalo. Nel 1980 quando le viene commissionata da un sindaco illuminatissimo come Carlo Tognoli la mostra su “L’Altra metà dell’avanguardia” al Palazzo Reale di Milano, una mostra destinata a lasciare il segno e poi richiesta a Roma e Stoccolma, la sua ricerca si era mossa soprattutto nella direzione degli incontri. Quel catalogo, che resta ancora un punto di riferimento imprescindibile, è strutturato con le schede ragionate e ben scritte delle 114 artiste scelte in quanto appartenute a vari gruppi d’avanguardia della prima metà del Novecento. L’introduzione era posizionata in fondo, e scritta in forma di diario di bordo. Iniziava così quel testo: «Pronto, parla Lea Vergine, il Comune di Milano mi ha incaricato di realizzare una grande rassegna che testimoni l’attività di pittrici e scultrici nei gruppi delle avanguardie artistiche». Il telefono era uno strumento principe. Come anche i i viaggi, per stanare artiste che spesso avevano scelto di rifugiarsi nell’ombra. Bussare alla porta, suonare ai campanelli: l’arte chiedeva sempre di varcare qualche soglia. Anche a costo di sbattere contro sbarramenti insormontabili, come le accadde davanti all’appartamento parigino di Dora Maar. Se si suonava lei staccava la corrente. Se si telefonava la risposta era questa, «Madame Dora Maar ne répond pas au téléphone». 

Il metodo di Lea Vergine era chiaro: non puntava mai ad essere esaustiva su un argomento, ma piuttosto voleva ogni volta proporre delle piattaforme perché da lì poi si sviluppassero lavori e ricerche. Erano mostre pensate per spalancare percorsi, per illuminare zone d’ombra, per documentare avventure non certo per sigillarle dentro visioni critiche. Certamente aveva sperato che da quel suo lavoro sulle artiste nei movimenti di avanguardia si generassero nuove ricerche, «che si cominciasse a lavorare sul tutto». Invece si era confessata delusa dialogando con Massimiliano Gioni quando nel 2015 aveva cercato di riprendere il filo del discorso con la mostra sulla “Grande Madre”, sempre a Palazzo Reale di Milano: «Purtroppo l’ombra ha ricoperto un sacco di artiste». 

La molla per immaginare quella mostra era stata una reazione umanissima di sdegno: sdegno per come venivano tratte le artiste anche quando si cercava di metterle su qualche altare. «Mi arrivavano sul tavolo pubblicazioni e cataloghi che erano censimenti umilianti. Avevo assistito a manifestazioni terribili, dove alcune donne hanno massacrato le artiste sull’altare della donnità». Per questo aveva tenuto barra dritta rispetto al criterio della qualità: «Qualunque altra discriminante sarebbe stata infamante per le artiste stesse».

C’è anche un approdo in questi suoi percorsi. Ed è sempre all’insegna di un “imparare” piuttosto che di un codificare. Nel caso della mostra del 1980, per esempio, lo studio e gli incontri le avevano fatto “imparare” (il termine è suo) che le artiste «avevano tutte ironia e autoironia, avevano visione del mondo e dell’esistenza illuminata dalla pietas, ecco, non saprei dire meglio. Una pietas che butta a mare il concetto di normalità». Nel femminile scorgeva un’energia di “smarginamento” rispetto all’omologazione, un intuito che non era tanto una forma di cultura, ma una forma di libertà che lei definiva “disobbedienza”.

E poi c’era la scrittura, un’esperienza quotidiana nella quale ha sempre riposto la massima fiducia. Scrittura come leva per costruire una consapevolezza civile diversa. Ma soprattutto scrittura come dimensione quotidiana di avventura personale, attivata come un rito ogni mattina. La scrittura di Lea Vergine è sempre precisa, asciutta, a volte divertita grazie a giravolte realizzate con eleganza ed intelligenza. Scrittura che riempie di incanto e a volte anche di invidia. Non basta però certo l’abilità per spiegarne la presa. «Si scrive col corpo, dalla testa ai piedi», aveva raccontato a Chiara Gatti nel libro intervista. «Muovo le mani sulla carta. Il tatto è imprescindibile. Devo sentire la materia della carta, devo sentirne l’odore, e devo sentire la matita fra le dita, devo poter piegare il foglio in diversi modi». Una concretezza che ancorava il lavoro intellettuale alla realtà delle cose e della vita. 

Questo articolo è uscito su Il Manifesto del 21 ottobre con il titolo “L’arte di illuminare le zone d’ombra”.

Written by gfrangi

Ottobre 21st, 2020 at 4:02 pm

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