Seconda visita in poco tempo a San Vitale a Ravenna. È un’occasione obbligata per sguardi non scontati. Per fortuna mi viene incontro un libro casualmente in libreria datato 1935. Ma l’autore è una garanzia, Corrado Ricci. È un libro che ti porta fuori dalla scontatezza, con le sue osservazioni minuziose. Dopo averlo letto capisco che una visita semplice e ben fatta a San Vitale può avvvenire attraverso tre step.
Il primo: il rito d’ingresso dal grande pronao a due porte (quindi non in asse con l’abside). È un rito di disvelamento di una delle più straordinarie architetture del mondo. L’esterno delle chiese ravennati sono sempre scatole di laterizio che non lasciano presagire lo splendore che invece custodiscono all’interno. Dal pronao si è attratti dalla luce dell’ottagono, una meraviglia di spinte convergenti verso il centro (i pilastri triangolari tagliati a tonco di cono nel lato che punta verso l’interno) e di ammorbidimenti con le sette absidiole traforate che si aprono tra un pilastro e l’altro. È un accavallarsi di spazi che si tengono l’un altro, di muri che si aprono e lasciano spazio ad altre organismi architettonici. Non tutto è sotto il controllo dell’occhio: i matronei fuggono risucchiati dalla luce opalina delle finestre di alabastro.
Secondo step: arriviamo ai mosaici, e affrontiamoli sulla base del loro stile. Qui si gioca un passaggio d’epoca. Nei primi, quelli del presbiterio, anno circa 530, soffiano gli ultimi refoli del naturalismo romano ellenistico. Il verde fa dominante indiscussa, l’organizzazione degli spazi non è rigorosa come accadrà con i bizantini: le scene di Mosè, stupende, sono inserite a coprire lo spazio rimasto irrisolto verso l’abside. Le vesti “vestono” ancora i corpi e si agitano al movimento dei personaggi (non c’è più la concitata, palpitante corsa del San Lorenzo di Galla Placidia, di 60 anni prima: ma qualche segno resta ancora). C’è tanta, tantissima natura: nella volta del presbiterio Ricci conta 80 animali; nelle parti basse ce ne sono altri sette e sono animali da palude, a memoria di quella che cingeva Ravenna. Ma, massima sorpresa, nella volta per volte ricorrono tre mazzi di asparagi. Gli asparagi ravennati erano stati magnificati da Plinio e da Marziale. Giovenale, nell’undicesima satira, dice che arrivano addirittura al peso di tre libbre.
Terzo step: l’abside. Siamo al punto topico, certamente oltre il 550 visto che il vescovo Massimiano che si immortala al lato dell’imperatore sale sulla cattedra nel 546. Il mondo è cambiato. Le vesti scendono a piombo sui corpi. Le linee non sgarrano più dall’ordine prefissato. La presa è rigorosamente frontale. La rappresentazione è sfolgorio puro. Ma qui Ricci sotolinea un elemento chiave e che fa da raccordo rigoroso con le scene stilisticamente diverse che precedevano. La frontalità infatti è una forzatura: in realtà i due schieramenti di Giustiniano e di Teodora sono due cortei. Stanno camminando verso il centro dell’abside, come suggeriscono chiaramente le prime due figure. A loro il compito di portare la patena (Giustiniano) e la pisside (Teodosia) all’altare sottostante dove si terrà il sacrificio eucaristico. Lo avevano annunciato le scene chiave del presbiterio: a destra i sacrifici di Abele e Melchisedec; a destra i tre angeli ospiti di Abramo che benedicono il pane. Passano le epoche, passano gli stili, ma tutto si tiene.