Conversazione su Caravaggio al Teatro I a Milano, nell’ambito del ciclo Ex Cathedra. Per tema di partenza una domanda: perché Caravaggio mette ogni volta in fila migliaia di persone? La stessa domanda che aveva dettato a Longhi il bellissimo Consuntivo scritto su Paragone all’indomani del travolgente successo della mostra del 1951. E che aveva indotto a André Berne-Joffroy a scrivere quel magnifico libro enciclopedico che è il Dossier Caravage.
Per rispondere alla domanda ho passato in rassegna gli otto quadri in C. si è dipinto. Perché la tesi che volevo verificare è questa: il successo di C. oggi c’entra con la modalità con cui il suo “io” entra dentro le sue opere? Ecco alcuni appunti conclusivi. Un grazie a Cristina Terzaghi per l’aiuto fornito. Perdonate la lunghezza del post.
Caravaggio opera un taglio bruciante con il passato che aveva idealizzato l’io creatore dell’artista e lo aveva portato su una ribalta metastorica (La Scuola di Atene di Raffaello ne è l’emblema). Caravaggio scaraventa l’io, il suo io dentro il presente. Lui è contemporaneo a quel che accade e nello stesso tempo fa sì che quel che accade (e che lui racconta nei suoi quadri) diventi contemporaneo al tempo di ogni uomo. Non c’è rievocazione ma realtà fattuale, sempre. Sulla scena di questa realtà colta nell’atto del suo compiersi, l’io è necessariamente presente, perché il quadro stesso testimonia che lui è lì. È come un fotografo: magari non lo vedi, ma se ha scattato quella foto, va da sé che fosse testimone e protagonista di quell’attimo di storia. Caravaggio consegna a chi guarda questa certezza, che folgora anche lo sguardo degli uomini d’oggi. Quello che vedete è tutto vero: le cose sono andate così. È tale la sua energia nel rendere tutto presente a se stesso, che anche chi guarda alla fine la sente presente a se stesso, alla sua vita di quell’istante. (Nell’immagine, l’autoritratto incluso nella Resurrezione di Lazzaro)
Il presente è anche energia in azione. Cioè è tempo che ci scorre davanti agli occhi. Caravaggio ha questa grande genialità cinematografica. I suoi quadri sanno essere sequenze di attimi presenti. Uno inghiotte l’altro, con la velocità preciptosa della realtà. Non sono un fotogramma solo, sono più fotogrammi che scorrono orizzontalmente come quelli di una pellicola. Il presente se fosse concepito come attimo assoluto, sarebbe irreale. Invece è attimo che corre per lasciare posto all’attimo successivo. Caravaggio ha colto questa caratteristica pressante ma insieme fuggente del presente. È un presente che corre, che scorre veloce, che racconta sequenze. «È un fenomeno non facilmente spiegabile questa passione popolare per Caravaggio. Ci va gente che che non è mai stata in un museo che non è mai entrata a Brera. Sarà che certe sue cose hanno l’evidenza di un film in technicolor», scrive Giorgio Galansino a André Berne-Joffroy. Il suo essere così espressamente cinematografico lo fa essere contemporaneo: è allineato con la grammatica visiva del nostro tempo.
Come possiamo definire fenomenologicamente l’io di Caravaggio? È un io certamente inquieto. “stravagante” è l’aggettivo che ricorre più di frequente nei suoi primi biografi. «Con il cervello stravolto», lo definisce il Susinno suo biografo siciliano. E completa «più agitato che non è il mare di Messina colle sue precipitose correnti che or salgono, or scendono». Federico Borromeo che pur era stato un suo collezionista avendogli comperato la Canestra dell’Ambrosiana, in un suo libro De dilectu ingeniorum scrive: «Conobbi nei miei dì in Roma un dipintore il quale era di sozzi costumi, et andava sempre mai coi panni stracciati, e lordi a maraviglia, e si vivea del continuo tra garzoni delle cucine e li S.ri della corte. Questo dipintore non fece mai altro che buono fosse nella sua arte, salvo il rappresentare li tavernieri, et i giocatori, overe le cingare che guardano la mano, overo i baronci, et i fachini et li sgraziati, che si dormivano la notte per le piazze; et era il più contento huomo del mondo, quando havea dipinto un hosteria, et colàentro chi mangiasse et bevesse. Questo procedeva dei suoi costumi, i quali erano simiglianti ai suoi lavori».
È un io violento, a volte intrattabile. Ora, se questo è il profilo psicologico e caratteriale di Caravaggio, viene da porsi una domanda: com’è possibile che date queste caratteristiche riesca a mantenere uno sguardo così preciso, credibile, assolutamente esatto, a volte addirittura tenero sulla realtà? Com’è che a un cervello tanto stravagante riesca di essere tenacemente lucido nell’aderire al piano delle cose?
Caravaggio è il pittore meno ambiguo della storia, dichiara tutto, si mette a nudo. È il pittore che inventa il buio, ma non è un buio che nasconde nulla. Si vede sempre tutto. Non credo che ci siano formule che spieghino questa dicotomia e come Caravaggio riesca a risolverla. È cosa che appartiene al mistero, sia artistico che umano che lo riguarda. L’unica cosa che possiamo dire che quello di Caravaggio è un io che si lascia investire pienamente dalla realtà. Non aggiungerei altro.
Ma c’è un altro punto di mistero che chi è credente non può non affrontare. Provo a dirlo. C. è il pittore dei peccati mortali, come lui stesso si dichiara. È pervicace nel reiterare i suoi comportamenti scellerati. È spavaldo, sicuro della propria grandezza.
Per dirla tutta ha una moralità assolutamente discutibile. Com’è possibile che da una persona così vengano le immagini più assolutamente aderenti alla realtà del fatto cristiano, è appunto un mistero? Di grandi geni capaci di capolavori pur nella vita depravata è piena la storia. Di grandi geni depravati capaci di essere testimoni del fatto cristiano come Caravaggio non ce ne sono. Che sia questa un’altra delle ragioni del suo colpire anche l’uomo d’oggi, spesso del tutto ignaro del senso “iconografico” e morale dei fatti che lui racconti, ma che resta colpito dall’umano che li pervade. Porta davanti ai nostri occhi quel che ognuno inconsapevolmente desidera per la propria vita, senza nessuna connotazione d’ordine morale, senza richieste di precondizioni.
Dovessi dirlo con una formula, non porta certezze, porta evidenze. Come quelle del suo Tommaso che mette le mani nel costato di Cristo. O come quella dell’apostolo di Emmaus che spalanca stupito le braccia davanti a qualcosa di assolutamente inatteso che fa palpitare il cuore. Difficile pensare che non sia tutto vero.
E’ così. Evidentemente. Bellissimo commento.
E’ difficile secondo me però negare la grandezza morale di Caravaggio. Sono un po’ stufa dei biografismi (non è assolutamente questo il caso, beninteso!!) tipici di gente un po’ mediocre e guarda caso ultimamente molto diffusi: Van Gogh era un folle, Caravaggio un assassino, Beuys ha fatto un incidente aereo etc. Come se uno giudicasse un proprio amico solo in base al fatto che gioca d’azzardo o che sua zia è morta o che balbetta.
Se proprio dobbiamo dare un giudizio morale di queste persone dobbiamo conoscerle, e il solo vero modo per conoscerle e poi giudicarle è in base ai loro frutti, o meglio ai loro figli, cioè le opere.
L’arte è una cosa che salva.
La grandezza di Caravaggio è proprio quella di affermare la propria realtà non nonostante ma attraverso le disgrazie della sua vita. La tensione e l’estrema libertà con cui ha reso luce le ombre che ostacolavano la sua vita; è quella che colpisce lo spettatore attraverso i secoli. Il passaggio dall’ombra alla luce non è una tecnica. E’ la sua vita. Se non c’è grandezza morale in questo!
Michelangelo e C. in questo sono molto, molto simili. Entrambi fanno della fatica, la fatica di liberarsi e affermare se stessi, una necessità. E direi una salvezza.
Lo spettatore guarda l’opera e percepisce la tensione di una personalità che si afferma, e l’opera si crea di nuovo, in quell’istante, proprio perchè come hai detto c’è una grande evidenza. E porta con se tutto lo sgomento di un mistero. La tensione, l’abbaglio dell’evidenza e lo sgomento di un mistero.
Il mistero della profondità dell’uomo.
(Non è una questione di piccolo o grande stupore, checchè ne dica Hirst)
Beatrice
8 Lug 09 at 5:44 pm edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>
Bravo Giuseppe, la domanda da cui parti è giustissima, a mio avviso, e giusta anche l’osservazione di Galansino. Però è vero che la cosa straordinaria è il presente, ti pare, siamo ancora qui a parlare di lui e dei suoi quadri dopo 400 anni come fosse un contemporaneo. Eppure Caravaggio è stato il pittore più calato nel suo tempo del mondo, ha messo tutti in costume, ha quasi svelato a se stesso il suo tempo … Pensa a come, pur nella sua bellezza e forza straordinarie, sembra datato Rubens …! Sul finale di partita, che condivido in toto, bisognerà tornare a riflettere, anche perché da un certo punto in poi il tema profano non gli ineteressa più, e non è certo solo un problema di committenza, chissà quante “taverne” gli avranno chiesto a Napoli …
Cristina
14 Lug 09 at 9:19 am edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>
Grazie Cristina. L’ultima tua sottolineatura è importante e preziosa…
Pubblico qui le riflessioni che Luca Doninelli mi ha mandato, ringraziandolo.
«1 – La sua inquietudine è un’inquietudine di esattezza. Sempre sul punto di andar via, di scappare da un’altra parte, sempre agitato come
il mare di Messina, eppure attentissimo al minimo particolare. L’irrequietezza di un artista è un’irrequietezza “di realtà”. Non è una fuga dalle cose, ma la percezione che le cose stesse sono fatte di questa vibrazione, di questo moto tellurico. Ed è proprio così: l’artista lo sa perché se le cose stessero ferme sarebbero impenetrabili, e l’arte sarebbe solo una rappresentazione esteriore.
2 – La pittura di Caravaggio è misteriosa ma al tempo stesso svela la natura del cristianesimo, che è quella di essere un fatto. L’incapacità di Caravaggio di stare alla moralità corrente non
significa che non fosse una persona morale. Aveva perlomeno la moralità degli occhi, la capacità di guardare quello che c’è. Il tempo mi ha insegnato che guardare quello che c’è è la cosa più difficile.
Ci vuole un grande artista. Invece per interpretare ne basta uno mediocre. Se essere cristiani è riconoscere un fatto, allora essere peccatori è utile: ci aiuta a riconoscere che la salvezza viene da un altro. Se siamo troppo bravi, di norma questa coscienza si annebbia (faccio l’eccezione di Giussani e poi non so di chi). Poi ci vuole il genio di Caravaggio, certo».
giuseppefrangi
15 Lug 09 at 10:00 am edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>
“Se essere cristiani è riconoscere un fatto, allora essere peccatori è utile: ci aiuta a riconoscere che la salvezza viene da un altro” (cit)… Un dubbio (a lungo trattenuto, meditato e soppesato): ma lei crede che questo ci sia in Caravaggio? La sua reductio ad naturam lascia davvero spazio alla redenzione, al Mistero? o non è piuttosto un tentativo di resistere a questo fatto, immergendosi nella realtà, di cui davvero coglie e capisce le “scosse telluriche” più profonde? E non è forse questo che lo rende così sconvolgentemente contemporaneo all’uomo di oggi: sprofondare nella realtà, esserne così magneticamente attratti, quasi risucchiati, andare vicino alla verità delle cose, tanto da intuire che essa risiede in un fatto che la redime e la trascende, ma – in fondo – non riuscire mai ad accettare e ad abbracciare questo “altro”? E stare così sempre sulla soglia dell’abisso (della verità, dell’uomo, di sé)?
perseoc
22 Lug 09 at 7:00 pm edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>
Credo che sia così. Anche se mi piace sempre ricordare che la cosa nasce in Caravaggio da una familiarità acquisita con Foppa, Moretto, Romanino… In sostanza: è un’attrazione che la realtà esercita e che spiega la pienezza a volte gloriosa di tanti suoi capolavori. C’è un più potente alla radice di Caravaggio, un più che lui cerca scrutando ansiosamente sino all’ultimo (quando si autoritrae negli ultimi anni, ha sempre lo sgurado scrutatore, teso a cercar qualcosa). Caravaggio ha questo di inedito: che pur travolto dal dramma, non si lascia mai scardinare dal reale. È sempre lì, mosso da un amore potente che fa essere positivo sempre anche il negativo. Caravaggio ha sempre la realtà tra le mani, non ne accetta mai una riduzione intellettualistica, anche nobile. Questa è la sua bellezza. E qui sta la sua capacità di essere assolutamente diretto, di piombare al cuore delle cose e delle persone.
giuseppefrangi
24 Lug 09 at 8:55 am edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>