Ho visto la piccola mostra di Aldo Rossi. Un po’ dimenticata nell’ultimo padiglione della Facoltà di Architettura alla Bovisa. All’ingresso qualche cartello, stampato povero povero, con delle pagine dell’Autobiografia scientifica, sempre di un’acutezza insieme dolorosa e sorprendente (un libro di una sincerità agostinana; un libro che non si può non aver letto e centellinato, anche se trovarlo è impossibile). Fa specie pensare che un uomo come lui sia relegato anche fisicamente così ai margini: Milano finisce di lì a poco. Milano l’ha come estromesso, verrebbe da pensare. Ma c’è un perché. E anche la piccola raccolta di disegni lo svelano. Rossi non trasmette certezze, ma ansia. Puoi pensare di copiarne qualche meccanismo formale, ma restano solo articolazioni vuote senza quell’”oltre” che lui ci metteva dentro. Di Rossi non interessano innanzitutto le soluzioni, ma l’irrisolto. È quel senso struggente, come di un bambino a cui sia scappata via troppo in fretta la felicità, che si avverte nei grandi disegni con quel tanto di favoloso che la sua immaginazione di architetto non censura mai. Bellissima la strisciata colorata per il Museo del mare di Vigo: mi colpisce come si esalti sui formati orizzontali, quasi volesse sempre rapportare l’architettura con un punto di fuga. Tanto che giustifica Thomas Jefferson, il presidente architetto, che aveva aperto la rotonda palladiana, per metterla in rapporto con «la grande, sconfinata pianura palladiana». Bella questa frase: «L’osservazione delle cose la mia più grande educazione formale». Nella foto: Aldo Rossi davanti ad un suo disegno, nella casa rifugio di Ghiffa, dove è morto nel 1997.
C’è un motivo dell’oblio di Rossi. Al di là della perizia poetica, del sapore metafisico, dei colori pastello e della prosa dell’Autobiografia ecc.ecc. tutte cose bellissime dal punto di vista artistico, “segno dei tempi” se vogliamo. Ma chi ha vissuto nella facoltà di architettura prima e nella vita professionale dopo, l’emarginazione stalinista, la violenza del diktat estetico, l’imperizia costruttiva di Rossi e dei rossiani (ci fu un bellissimo articolo di Giovanni K. Konig su Ottagono dove si analizzava il cimitero di Modena, al limite del ridicolo)…. Insomma le forme di Rossi, lungi dal rimanere sulla carta, sono state per la mia generazione le forme della violenza e della dittatura estetica. Storicismo che bloccava tutto. Se non facevi le finestrelle quadrate eri un bastardo. Scusa lo sfogo, ma la teoria rossiana si è svolta in una pratica staliniana. Prova a vivere in una casa progettata da Rossi e poi ne parliamo, fino a giungere alle facciate di cartapesta di Berlino….
stefano pavarini
10 Feb 09 at 12:22 pm edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>
Capisco. Sono un non addetto ai lavori, per di più di più “devoto” dell’ultim’ora della figura di Rossi. Ma ti chiedo: quanto il tuo giudizio sia condizionato dalla prepotenza dei seguaci? Quanto dai veleni ideologici di quegli anni? Oggi Rossi mi sembra un solitario a cui nessuno degna uno sguardo, perché pone questioni del tutto fuori registro rispetto alla routine dominante. Ha sbagliato certamente tanto. Ha fatto brutte cose (le case di Vialba, davanti a cui passo ogni giorno). Ha fatto cose bellissime, lameno per me: il Carlo Felice di Genova. Ma ha anche pensato tanto. E oggi i suoi pensieri sono schegge che mettono in movimento altri pensieri. Mi colpisce quel suo procedere per intuizioni aperte, per pensieri “feriti”. Ammetto: forse sono ingenuo. Ma a volte gli ingenui hanno la fortuna di farsi sorprendere da quello che chi è troppo dentro è troppo sotto non riesce più a cogliere. E poi, da neofita, sono covnitno che l’Autobiografia scientifica sia un grande libro, l’avesse scritto il peggior bastardo del mondo…
giuseppefrangi
11 Feb 09 at 12:57 am edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>