Assiepati nel freddo freddissimo di Casa Testori (allacciamento per il nuovo riscaldamento in arrivo a giorni), una trentina di ragazzi l’altra sera hanno dialogato per oltre due ore con i fotografi che hanno lavorato alla mostra di Claudia Tinazzi sul senso dell’abitare in Aldo Rossi. Guidava il professor Massimo Ferrari, era presente il professor Giulio Barazzetta. E c’erano tre dei quattro fotografi protagonisti: Andreoni, Ottomanelli e Introini. Il tema era quello del fotografare l’architettura, e non si è mai scappati via da quel luogo carico di bellezza, storia e anche un po’ di mistero che la stecca di Aldo Rossi al Gallaratese. Il tema costante è la soggettività di chi fotografa anche oggetti “minerali” come delle costruzioni architettoniche. Una soggettività che diventa decisiva davanti ad una costruzione come quella di Aldo Rossi che continua ad avvolgere con il suo fascino chi la frequenta.
Tre cose mi sono annotato.
Una doppia sottolineatura storica fatta da Barazzetta. In un dialogo Aymonino, l’architetto che ha progettato l’altro edificio del Gallaratese, gli aveva rivelato che l’assegnazione della stecca a Rossi era avvenuta quasi per disperazione. Affrontare quella “spada” di 185 metri era un sfida che nessuno aveva voglia né forza di affrontare. Straordinario quindi che Rossi abbia assunto quell’incarico a scelte già fatte. Cioè si sia dato il compito di redimere un’idea irredimibile.
Quando l’edificio finì fu occupato: quindi immaginiamoci l’inizio di quella storia che precipita subito nel cuore della storia di quegli anni. Barazzetta lo ricorda sotto assedio, con polizia fuori e occupanti che se ne erano impadroniti. Intanto nel 1971 Rossi veniva sospeso dall’università. Insomma un vero inizio da battaglia. È bene ricordarselo, anche oggi, per avere una percezione più profonda e completa di cosa sia questo edificio.
Seconda notazione: Rossi continuò a “portarsi“ il Gallaratese con sé. I disegni e i quadri appesi a Casa Testori sono tutti successivi al cantiere. Vuol dire che l’idea continuava a camminare, come se fosse un orizzonte a cui guardare più che un traguardo messo in curriculum. È quest’ansia di Rossi che affascina e anche commuove. L’ansia di approdare ad un edificio che aiutasse la fatica del vivere, che desse respiro ad aspettative e desideri di chi lo abita. Un’ansia per una casa davvero pacificante: un ossimoro che dice tanto di Rossi.
Terza notazione. Le foto del Gallaratese che vediamo sono sempre relative al luogo topico, il grande spazio aperto del piano terra, con la sequenza perfetta di pilastri e colonne, con la luce che scava geometrie meravigliose. E i piani superiori? Non si possono fotografare. Un’associazione degli inquilini si è data questa regola. E i fotografi raccontano di averli visti, ma senza poter scattare nulla. Strana ma molto “rossiana” questa scelta. È qualcosa che custodisce nel profondo quella dicotomia concettuale che sta alla base del Gallaratese. Pubblico in senso totale sotto. Privato in senso vero sopra. Il sogno di Rossi era proprio questo, cercare una convivenza tra i due poli senza che nessuno ne risultasse sacrificato. Chi ci abita ha preso sul serio questo suo sogno.