Jean-Michel Basquiat e ora Keith Haring sono tornati a Milano, dieci anni dopo. Basquiat al Mudec con una mostra un po’ rimediata, Haring a Palazzo Reale più strutturata e “costruita”. Comunque vedere quei due è sempre un bel pieno di energia. Pensavo alla concomitanza di vedere questi due protagonisti della New York nell’anno uno del reaganismo, proprio mentre l’America si inoltra nel suo corrispettivo da terzo millennio: il trumpismo. La mostra di Basquiat seguiva un filo sommariamente cronologico (con l’anomalia della mostra a quattro mani con Warhol come sala finale, mentre è di tre anni prima). Quella di Haring invece segue una scansione tematica, secondo una consuetudine sciagurata che sta prendendo sempre più piede. Risultato si chiude con l’ultima sala, per altro molto bella, presenta i “subway drawings” degli inizi.. Risultato in un caso e nell’altro, la storia comunque si perde. In Basquiat il percorso è tutto centrato su di lui senza nessun nesso di contesto se non strettamente necessario. In Basquiat l’avanti e indietro cronologico (pur su cronologie così strette) non permette di fissare dei riferimenti. Eppure sarebbe stato interessante dar spazio ai nessi e ai ricorsi storici (pensate che nel 1981 un certo Trump si presentava alla Factory per commissionare un’opera a Warhol, da piazzare nella edificanda Trump Tower; l’opera venne realizzata, ma il miliardario alla fine non la prese).
Comunque, a posteriori, colpisce la differenza di energia antagonistica di una città come New York, tra allora e oggi. Agli inizi degli anni 80 aveva espresso quei talenti irregolari, incontenibili e affascinanti. Oggi invece la reazione è tutta molto più complessata e intellettualistica. Vedere le mostre serve anche a fare questi piccoli esami di storia. L’arte, volenti o nolenti, è sempre storia.
(Comunque Haring andate a vederlo, merita. Ne riparleremo)
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Basquiat e Haring, fuori dalla storia
Andy Warhol, io proverei a spiegarlo così
Questi sono appunti per una visita guidata alla mostra di Andy Warhol della collezione Brant a Palazzo Reale di Milano (da leggere anche il post di Luca Fiore sulla mostra)
Punto primo: bisogna fare uno sforzo per provare sempre ad organizzare storicamente la conoscenza di Andy Warhol. Ad esempio cominciando dall’evidenziare una periodizzazione. Quindi tre periodi. Sino al 1960, l’Andy Warhol illustratore (mettendo in rilievo che questa stagione non entra nell’opera omnia di AW della Fondazione); la stagione pop dal 1960 al 1968 (il taglio netto causato dall’attentato subito da AW da parte di Valerie Solanas, 3 giugno 1968); la pausa senza pittura; 1972-1987 l’ultima stagione (probabilmente la più grande).
L’AW illustratore è come una preistoria. Un affacciarsi al mondo senza ancora avere l’idea su dove e come portare l’affondo. L’AW pop è il più radicale e in un certo senso “fondamentalista” nell’azzeramento di qualsiasi soggettivismo espressivo: il colpo che invecchia tutta l’arte del 900 è il ciclo delle zuppe Campbell, esposte nel 1962 a Los Angeles, cui segue l’approdo alla meccanizzazione con le serigrafie dei “200 dollari”.
Il terzo AW invece sembra liberarsi dall’ossessione di un’artificialità del prodotto artistico. La sua arte torna a respirare, la pittura stesa con grandi spugne torna ad essere stesa sulla tela. Dopo il raggelamento pop si sente un’aria di nuova libertà. AW si lascia andare e vengono fuori i capolavori della mostra: il ciclo dei Teschi, meravigliosi nei loro preziosismi; le due tele della serie Ladies and gentleman, travestiti neri che sbucano dal meraviglioso calice giallo del loro vestito. Straordinarie anche i due Rorschach, grandi tele a motivo decorativo, che AW realizzò equivocando il metodo terapeutico di uno psichiatra svizzero.
Storicizzare vuol dire anche capire da quale storia si generi ogni opera di AW. Purtroppo il compito non è semplice perché l’arte contemporanea è stata monopolizzata dalla “critica”, che gioca ad alzare cortine fumogene sulla storia, e non è mai possibile trovarne invece una storia. Che si capisce dei Mao, se non si percepisce il rovesciamento che AW ne fa in coincidenza del viaggio di Nixon a Pechino, quando il simbolo della contestazione dell’Occidente diventa preziosa sponda anti Unione Sovietica? È un ribaltamento simbolico spiattellato in faccia al mondo che i cinesi non hanno ancora digerito (nelle mostre di AW in Cina questa serie non può essere esposta).
AW va aggirato: lui ti fa stare sempre sulla sua superficie, quando invece sta lavorando in profondità. Quindi va sempre scovata questa profondità, senza cadere nell’errore opposto di caricarla di significati. AW è pittore nato visivamente sulle icone della chiesa cattolica ortodossa di Saint George di Pittsburg, che per tutta la stagione pop dipinge icone, eternizzando i prodotti simbolo della civiltà consumista. L’icona è per principio piatta, non vuole la profondità, perché la profondità è tutta e solo nel pensiero e nella preghiera accesa in chi la guarda. L’icona non ha nessuno sviluppo narrativo. È solo replica di un prototipo. AW degli anni pop segue lo stesso procedimento, ed evita ogni profondità. Eppure nella piattezza delle sue superfici intercetta note profonde. Il tema della morte ad esempio, che affiora plateale nelle Electric Chair, o nei disastri stradali; ma è sempre il tema della morte che rende iconica la sua Marilyn, non solo perchè la realizza dopo il suo suicidio, ma perché la palpebra semiabbassata sul “sole” biondo del suo volto, è un’implacabile nota tragica, che trova la sua forza nella replica ossessiva, martellante, seriale di quel prototipo. Così si capisce che la serialità di AW non è solo esito di un’arte che si è adeguata come tutto ai processi di produzione meccanica. La serialità è il dispositivo che nella ripetizione produce un effetto equivalente alla profondità.
Senza recinti. Disse Keith Haring: «Era lui che aveva mosso le cose in modo da rendere possibile anche a me di essere artista. Era il primo che dava la possibilità di essere artista pubblico nel vero senso della parola, un artista della gente». La funzione di Warhol è in questo enorme allargamento del “recinto” dell’arte. Un qualcosa di molto simile all’abbattimento di quei recinti. In modo molto americano, diceva che c’è una chance per tutti. “Intanto falla” (l’arte), è il suo slogan. Poi, dopo di lui, sono stati alzati altri recinti protettivi, architettati in alleanza tra mercato e intellettualismo critico. Un nuovo accademismo à la page. Warhol non ci sarebbe stato: non era uno da selezioni preventive.