Questo testo l’ho scritto per il prossimo numero di Itaca, il bel giornale degli amici di Ama Aquilone. La riflessione è scaturita dalla straordinaria occasione di poter vedere oltre 30 degli Igloo di Mario Merz raccolti all’Hangar Bicocca di Milano. Fino al 28 febbraio 2019.
C’è una forma che condensa in modo sintetico la natura di tutte le cose? Se c’è è qualcosa che assomiglia da vicino ad un igloo. È l’intuizione che Mario Merz, uno dei più straordinari artisti della seconda metà del 900 (è morto nel 2003), ebbe giusto 50 anni fa. Era il 1968, il mondo entrava in una fase di subbuglio e fermento e Merz tracciò una sintesi della situazione presentando un’opera intitolata “Objet cache-toi”. “Oggetto nasconditi” era uno slogan comparso quell’anno sui muri della Sorbona di Parigi. Uno slogan evidentemente carico di utopia anti consumista. Spiegava Merz: «In francese “objet cache-toi” significa, polemicamente, “oggetto vai via, nasconditi”. “Allora objet cache-toi” significa che l’oggetto, in quanto tale nella sua piccolezza, dovrebbe scomparire dinanzi a una forma più sintetica, e a mio avviso con l’igloo ho realizzato una forma totalmente sintetica, per cui era inevitabile scrivere “objet cache-toi”». In sostanza l’artista aveva realizzato un igloo dalla inconfondibile forma materna e protettiva, una funzione sottolineata dalla ricopertura composta di “panini” imbottiti di stoffa bianca, posti come mattoni uno accanto all’altro. La scritta in francese, realizzata con un neon bianco, avvolgeva l’igloo, che ai nostri occhi appare come un oggetto-rifugio, un oggetto che protegge e si protegge dalla pioggia delle meteoriti del consumismo.
Da quel momento l’igloo è diventata la forma attorno alla quale Merz, sino alla fine, ha sviluppato le sue riflessioni sulla “natura delle cose”. E sulla quale ha fatto convergere tutte le domande e le tensioni che hanno segnato questa stagione della storia umana. L’igloo ad esempio è luogo in cui più palese è la percezione della provvisorietà della cita e della storia stessa. Ecco allora che alcuni, di dimensioni molto più grandi, li ritroviamo coperti da lastre di vetro spezzate. «Il vetro rotto rappresenta la mia casa», aveva detto Merz. «Il massimo di quello che può essere provvisorio». In questo modo la perfezione della semisfera che è propria dell’igloo (una perfezione mutuata dalla forma della goccia d’acqua) è chiamata a relazionarsi con le ferite e le schegge taglienti della storia: il gesto artistico di Merz è ogni volta semplice, drammatico e potente.
A volte l’irruzione della storia nell’equilibrio autosufficiente dell’igloo ha la forma di grandi strutture spigolose che lo attraversano da una parte all’altra: nel 1987 ne realizza uno intitolato “Sentiero per qui” dove la lunga struttura metallica che trapassa l’igloo contiene pacchi di giornali confezionati in serie, come quelli che escono dalla rotativa. Merz mette in atto ogni volta una dialettica drammatica, dove ordine e disordine, natura e artificio, materia e spirito cercano un punto di equilibrio, che però ci si presenta sempre come un equilibrio instabili. Il mondo compiuto dell’igloo, dove tutto sembra riposare in una sorta di atarassia, nella realtà è sull’orlo della possibile catastrofe, come la goccia d’acqua che pur nel suo stare perfettamente sigillata in se stessa, è sempre a rischio di scivolare ed esplodere nella caduta. Le cose per natura sono sempre in bilico; e non solo perché sono sottili tiro di forze ostili. Ciò che mina gli equilibri è un altro dato di natura: il proliferare potente della vita, che Merz esprime attraverso innesti vegetali come le fascine di legno, o attraverso rimandi simbolici, come i numeri di Fibonacci che crescono con una progressione via via più travolgente (la serie viene infatti costruita facendo ogni volta somma degli ultimi due numeri). Per loro natura le cose non stanno dentro un orizzonte algebrico.