«Alla domanda su cosa resta del Surrealismo oggi, risponderei: tutto». Scriveva così, senza tentennamenti e con un entusiasmo intatto, Arturo Schwarz nell’introduzione al suo libro-bibbia dedicato alla storia e all’avventura del movimento (“Il Surrealismo. Ieri e oggi”, Skira). Quel libro era stato pubblicato nel 2014, cioè a 90 anni dalla pubblicazione dello storico Manifesto scritto da André Breton; eppure per Schwarz, che ci ha lasciati nella notte tra il 22 e il 23 giugno, il Surrealismo continuava ad essere una faccenda dell’“oggi”. «Non ho in mente l’arte o la poesia, il cinema e il teatro, la fotografia o la scrittura», scriveva sempre nell’introduzione. «Penso a una filosofia di vita, a uno stato d’animo, a una morale, a una purezza, a un bisogno di libertà, alla necessità di riconoscere alla donna il posto giusto, il primo».
Per coincidenza del destino, il 1924 è anche l’anno della sua nascita, ad Alessandria d’Egitto da madre italiana, Margherita Vitta e da padre tedesco, Riccardo Schwarz, un geniale ingegnere. Il giovane Arturo non aveva perso tempo, aprendo a 16 anni due librerie francesi e cominciando un’attività di editore. L’impegno culturale era andato subito di pari passo con quello politico: finì dietro le sbarre con l’accusa di essere “trockijsta” e tra i fondatori della Quarta Internazionale. Nel 1949, con la firma dell’armistizio, agli ebrei d’Egitto venne data una doppia opzione: andare in Israele o nella terra di origine. Lui scelse l’Italia; o, per maggior precisione, Milano, «la mia città, che non ho mai abbandonato e mai lo farò, perché è una delle poche in Europa che continua a produrre cultura anche sotto le “bombe” della crisi economica e morale»
Schwarz è stato il prototipo dell’intellettuale capace di pensarsi come infaticabile e generoso organizzatore culturale; grazie all’attività di editore e di gallerista riusciva a tessere reti che erano sempre relazioni di amicizia. Tra 1961 e 1972 nella sua galleria di via del Gesù ono passati tantissimi protagonisti di Surrealismo e Dadaismo. Tutti “amici” sparsi per il mondo, da Magritte, a Man Ray, a Sebastián Matta, a Miró, a Marcel Duchamp, a Max Ernst, a Francis Picabia che erano felici di poter esporre nei suoi spazi milanesi. «L’amore è quello che mi ha portato a coltivare amicizie eterne», diceva con una gratitudine che gli anni non scalfivano. Tra tutte le amicizie certamente spiccano quelle con André Breton e con Duchamp. A casa Breton aveva bussato appena arrivato in Europa. «Mi accolse come un amico di vecchia data e fu un vero tuffo al cuore per un giovane che era alla ricerca del suo destino», aveva raccontato in una bella intervista ad Avvenire. Ed è sempre in forza dell’amicizia che aveva convinto Duchamp (come pure Man Ray) a fare i multipli dei primi storici ready made, attribuendo una doppia data, quella in cui erano stati concepiti e quella in cui erano stati replicati.
Ma al di là dell’infinita aneddotica che lo riguarda, il segno di Schwarz è quello legato alla sua capacità di vivere l’arte come un’esperienza che genera sempre meraviglia. Una meraviglia che voleva il più possibile fosse esperienza condivisa, come spiegò quando decise di donare, dopo una faticosissima trattativa, parte della sua raccolta alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, allora diretta da Sandra Pinto: «Per amore dell’arte, un giorno ho deciso che era giusto che tante delle mie opere tornassero indietro, a beneficio della conoscenza e dell’occhio del popolo. È immorale, per me che un privato custodisca cose di cui chiunque deve poter gioire. Spero ora che questi dipinti, questi esseri amati facciano felici altre persone, come è stato per me».
Pubblicato sul Il Manifesto, 24 giugno 2021