Robe da chiodi

Perché Roy Lichtenstein sembra sempre nuovo?

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Recensione della mostra Lichtenstein, Opera prima, alla Gam di Torino, uscita su Alias domenica 18 gennaio.
(l’immagine è una foto dello studio di Lichtenstein di Ugo Mulas, vista sabato alla mostra della Galleria Lia Rumma: una foto che “fotografa” meglio delle mie parole quel che ho tentato di dire nella recensione)

licht

Interessante destino quello di Roy Lichtenstein. Artista a una dimensione, programmato sui codici elementari della comunicazione mediatica, stranamente non smette mai di svelare prospettive inattese su se stesso. Si poteva pensare che dopo la grande mostra passata nel 2013 da Chicago a Londra e Parigi (recensita su Alias da Stefano Jossa il 18 marzo 2013), ci fosse poco da aggiungere, senza cadere nelle solite rassegne rimediate alla bell’e meglio per far cassetta. Invece Lichtenstein smentisce ancora una volta lo scetticismo dei nostri occhi collaudati: la mostra in corso alla Galleria d’Arte Moderna di Torino (sino al 25 gennaio, a cura di Danilo Eccher, catalogo Skira) riesce ad essere “inattesa”. Sin dal titolo si intuisce che l’approccio non è banale. Infatti introduce subito un’ambiguità: “Opera prima” può essere inteso come qualcosa di fondativo, di minimo comun denominatore dell’universo di Lichtenstein. Ma andrebbe anche letto, ribaltando i termini, e trasformandolo in un “prima dell’opera”: cioè tutto quel che riguarda il cantiere dei quadri più famosi dell’artista americano. Le due accezioni in realtà convivono, perché lo sperimentalismo proprio dei work in progress di Lichtenstein si muove all’interno di prototipi mentali non solo chiari ma anche dichiarati.
La mostra è quindi intrigante perché indaga su complessità e “problemi”, laddove conosciamo Lichtenstein proprio per il suo procedere sempre per semplificazioni. Ma le due azioni non entrano mai conflitto, anzi lavorano l’una per l’altra, come in un gioco di incastri in cui l’esito semplificato si rivela, a monte, più articolato di come sospettassimo.

Lichtenstein disegnava tantissimo, come racconta la moglie Dorothy nella breve testimonianza in catalogo. Disegnava ovunque, anche a casa, dopo tutta una giornata passata in studio. Strano a dirsi per un artista “parassita” che succhiava immagini da altre immagini, a partire dalla mitica appropriazione dei fumetti, scoperti a 40 anni vedendoli in mano ai suoi figli David e Mitchell. Ma le immagini per Lichtenstein costituiscono soprattutto momenti di attivazione di un lavoro che il percorso della mostra svela in tutta la sua sorprendente coerenza e disciplina. Diceva che «gli oggetti sono segni da organizzare, collegare e ricostruire in una visione unificata». E, ovviamente, assolutamente bidimensionale. È interessante notare come il procedimento preparatorio di Lichtenstein non preveda tanto l’appunto visivo o lo schizzo, ma si protenda subito in quello che Bernice Rose, nel saggio di catalogo, definisce “enclosure drawing”. I disegni infatti sono spesso chiusi dentro celle spaziali (il prestito dalla geometria propria dei fumetti è ben evidente) che richiamano già le proporzioni della tela finale e che vengono ricavati all’interno del foglio di carta. È dentro quelle celle, disposte senza un ordine preciso, che Lichtenstein lavora all’organizzazione delle sue visioni. Un lavoro che Diane Waldman, tra le maggiori conoscitrici del Lichtenstein disegnatore, ha sintetizzato come «unione di un’immagine reale con una forma astratta».

Lo schema della cella riquadrata sul foglio con un segno nero più o meno deciso, si ripete quasi per istinto anche laddove Lichtenstein sembra mettersi più disteso e libero, come nel caso della bella serie di cieli a matita e pastello del 1964 che troviamo in apertura di percorso. Trent’anni dopo, per il Chinese style landscape (Study), il dispositivo è ancora assolutamente lo stesso. Spiega Bernice Rose in catalogo: «L’artista costruì un mondo nuovo, strutturato su queste immagini, ma la sua costruzione dipendeva dalla creazione di una nuova realtà nella sua interezza. Perché questo accadesse, l’oggetto andava rimosso dal suo contesto abituale e scomposto nei suoi elementi costruttivi. Ecco perché Lichtenstein ripeteva che i suoi oggetti erano innanzitutto segni da organizzare, collegare e ricostruire in una visione unificata».
L’interesse della mostra consiste proprio nella messa a nudo di questo processo e nello disvelamento di quella coerenza interna propria delle immagini, mai create ab novo ma sempre rimontate da Lichtenstein. È questa coerenza che determina quel senso “sempre nuovo” delle sue opere, sulle quali il tempo sembra non lasciare nessuna patina. Figlie di una stagione ben identificata culturalmente e sociologicamente, in realtà riescono a sfilarsi da quell’identificazione. Il percorso si popola così di tante, continue reinvenzioni di quel mondo che Lichtenstein aveva davanti agli occhi. Un mondo in cui le immagini non hanno più gerarchie, perché sono tutte chiamate indistamente a far parte di questa “nuova realtà”. Emblematica ad esempio è quella sontuosa carta (sontuosa anche per le sue dimensioni: 2,44 m. di altezza) Picture and Pichter (Study) del 1978. Qui Lichtenstein ricorre a un meccanismo linguistico sofisticato, in quanto rappresenta sullo sfondo della brocca picassiana, un suo quadro filtrato dal consueto lavoro di ricomposizione. Eppure l’immagine s’impone al nostro sguardo – sinceramente ammirato – con chiarezza sia stilistica e senza nessuna ambiguità concettuale.

L’unico appunto per la mostra è la compressione del percorso, che ad un certo punto crea un inganno per via della sala alla fine del primo corridoio, in cui ci troviamo davanti un gioiello come il Landscape with boat del 1996 (con i relativi lavori di cantiere). La tela appartiene all’ultima stagione, straordinariamente rarefatta, di Lichtenstein. Quell’apparizione anticipata da una parte crea un cortoircuito nell’occhio del visitatore. Dall’altra però finisce con il darci la conferma di quanto sia coerente e tutta sempre perfettamente concatenata la parabola di Lichtenstein.

Written by gfrangi

Gennaio 19th, 2015 at 11:57 am

Posted in mostre

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