Il protagonista del mio 2013 è stato Edouard Manet. Merito anche della mostra veneziana a Palazzo Ducale, importante per i pezzi raccolti e per la proposta eccezionale del parallelo tra l’Olympia e la Venere di Urbino, un po’ meno convincente rispetto alla tesi (l’italianità di Manet a bilanciare lo spagnolismo che gli è sempre attribuito). Ma vedere Manet in carne ed ossa, in un contesto alto come Palazzo Ducale, mi ha aperto gli occhi. C’era stata come preparazione la bellissima lezione tenuta da Flavio Fergonzi nel corso su Rovesciare il 900, e c’era stata la lettura di due piccoli libri che vi raccomando, quello di Michel Foucault e quello di Georges Bataille, tutt’e due editi da Abscondita. Il punto è questo: Manet è il vero punto di rottura da cui scaturisce la modernità. La cosa fantastica è che questo punto di rottura è così profondo da non aver bisogno di forme esterne accentuatamente innovative per produrre i suoi effetti. Non ha bisogno neanche della libertà degli Impressionisti, da cui non a caso Manet si terrà sempre alla larga.
Manet realizza un’operazione più radicale: svuota l’arte dal suo potere enunciativo ed evocativo. I soggetti non raccontano più nulla (impressionante da questo punto di vista il paragone tra il Tre maggio di Goya, 1808, con la morte dipinta negli occhi del fucilato, e L’esecuzione di Massimiliano di Manet, 1868, dipinto invece con la massima indifferenza, quasi fosse la stessa cosa che dipingere un fiore o un pesce). Come scrisse Malraux, Manet «distrusse il significato del soggetto». Il soggetto è ridotto a insignificanza, semplice pretesto dela pittura.
Questo annientamento di ogni eloquenza, riporta la pittura a concepirsi come fatto totale, con conseguenze destabilizzanti innanzitutto sui primi visitatori. Il rifiuto clamoroso dell’Olympia non è spiegabile con ragioni di moralismo borghese, ma da un orrore sacro che quel quadro emana. E che emana partendo da un soggetto in fondo consueto all’occhio di un borghese di quel tempo. Bataille la definisce «un’opacità della violenza»; i giornali del tempo, documentano lo scandalo, parlavano di una «scena da obitorio». Eppure l’immagine non narra né di violenze né di morti in corso.
È questo slittamento tra il soggetto e il senso che lo fa essere a provocare la defintiva rottura con un modo di concepire la pittura che aveva trovato i suoi ultimi grandi, generosissimi epigoni in Delacroix e Courbet. Manet azzera tutto: la partita si gioca tra l’artista e quel rettangolo di spazio che deve coprire di segni e di colori, rinunciando all’illusione che possa esserci uno spazio da terza dimensione. La pittura di Manet è pittura tornata piatta, cioè aderente al suo supporto. Il 900 parte da qui (pensate alla lotta titanica di Picasso per stringere nelle due dimensioni le sue monumentali Demoiselles, altro grande quadro-terremoto). Interessante che il 900 cominci rinunciando a quella che era stata la grande conquista intellettuale del 400 italiano: la costruzione certa di uno spazio pur dentro le due dimensioni. La questione non era che la soluzione non funzionasse più; era che l’energia intellettuale da cui era scaturita si era esaurita. Non si poteva più fingere, si doveva brutalmente ricominciare. Manet è colui che per primo ha tratto il dado. Dopo la storia non è più stata la stessa. Manet un po’ come Masaccio, è un punto di non ritorno.