2 maggio, giornata veneziana. Itinerario “antirinascimentale”: San Marco (in particolare gli esterni), Libreria Marciana, San Zaccaria, San Giorgio dei Greci, San Giovanni in Bragora, San Zanipolo, Scuola Grande di San Marco, Santa Maria dei Miracoli, San Giovanni Crisostomo, Ca’ d’Oro e Galleria Franchetti.
Un abbozzo di pensieri. Se è vero che il Battistero di San Giovanni è il punto genetico di tutto la visione fiorentina del mondo (misura, proporzioni, prospettiva: la realtà tenuta sotto un prodigioso controllo intellettuale; grande energia sintetica), è altrettanto vero che San Marco è il punto genetico della visione veneziana (varietas, sincretismo, molteplicità di punti di vista, crescita per aggregazione). È un punto di vista genetico che spiega e tiene dentro tutta Venezia, perché nell’accumulo delle diversità lascia aperti anche spazi di libertà inediti nelle altre tradizioni italiane. Mi ha incuriosito uno sguardo ravvicinato con il lato destro della basilica, quello che confina con la Porta della Carta di Palazzo Ducale. Il muro di quell’ambiente a cubo che all’interno accoglie il Tesoro, ha un rivestimento a specchiature di marmo una diversa dall’altra, per misure, per epoche e per zone di provenienza. C’è assoluta libertà di inserzione di elementi diversi: trovi bassorilievi con motivi simbolici o decorativi innestati nel rivestimento murario. Sullo spigolo il porfido dei Tetrarchi (che dialogano con il gruppo scultoreo – altre quattro figure, più bambino – dello stupendo Giudizio di Salomone, sull’angolo del porticato di Palazzo Ducale. Meno di dieci metri, ma dieci secoli di differenza). Sul basamento del sedile s’inserisce la prima scritta in volgare veneziano che si conosca: “l’omo po far e dire in pensar e vega quelo che li po inchontrar”. Latino, greco, italiano e volgare, San Marco è un crocevia linguistico e architettonico. È un coacervo di elementi che fioriscono uno sull’altra, che convivono senza mai sopraffarsi a vicenda. Di fronte le due colonne quadrate con racemi provenienti da san Giovanni d’Acri. Sopra i capitelli non reggono niente, non hanno una funzione: però ci stanno.
Da questo si capisce l’idiosincrasia che Venezia ha per il Rinascimento. Lo argina per decenni. Poi nel 1527 arriva Jacopo Sansovino, uno dei tanti protagonisti della diaspora romana dopo il Sacco, e quindi anche Venezia è costretta ad aprire la partita. L’impatto è raccontato in quel meraviglioso libro che è Rinascimento a Venezia di Manfredo Tafuri. Si vede come la cultura lagunare medi e addomestichi le nuove visioni d’importazione. E c’impieghi poco a metabolizzarle. Quando la sfida si farà seria, con l’arrivo del Palladio, Venezia pensa bene di tenere ai margini (in senso urbanisitico) la spettacolare compattezza intellettuale dei nuovi manufatti: San Giorgio e il Redentore fanno spettacolo di sé sull’altra sponda… Scrive Tafuri: «Sansovino imparerà la difficile arte della mediazione, ma Palladio imporrà (o tenterà di imporre) i suoi microcosmi architettonici in una Venezia da essi letteralmente “interrotta”».
1. continua