Recensione scritta per Alias e pubblicata domenica 22 settembre
Era nato a Kiev, città appartenente all’allora impero russo, nel 1879, da genitori cattolici polacchi. Si era formato a Mosca come disegnatore tecnico e lavorando per le ferrovie. Nel 1915 si rivelava al mondo con una mostra in una galleria a San Pietroburgo. Città dove sarebbe morto nel 1935, e che nel frattempo aveva cambiato nome in Leningrado. Nel mezzo, anche un periodo di insegnamento a Vitebsk, in Bielorussia, dove aveva preso la cattedra a cui l’aveva chiamato l’ebreo Marc Chagall. Bastano pochi cenni dalla biografia di Kasimir Malevich per intuire come la mostra che la Tate Gallery gli ha dedicato (Malevich, a cura di Achim Borchardt-Hume, sino al 26 ottobre), sia oltre che l’occasione di esplorare uno dei grandi innovatori del 900, anche un’opportunità per capire quale siano la complessità e le stratificazioni che segnano un territorio e la sua cultura. Quella di Malevich, in un certo senso, è quindi una mostra di inattesa attualità.
Allestita al terzo piano della Tate Modern, l’esposizione non si fa e non ci fa mancare niente: solo il primo dei Quadrati neri, quello del 1915, non ha potuto arrivare da Mosca per la sua fragilità. Per il resto i prestiti sono di qualità eccezionale, grazie alla rete di istituzioni che hanno fatto da promotori della mostra: dallo Stedelijk Museum di Amsterdam, alla Khardzhiev Foundation, sempre olandese, sino alla Costakis Collection di Tessalonica (quella della Tate è la seconda tappa, dopo Amsterdam e prima della conclusione alla Bundeskunsthalle di Bonn).
«Un artista russo»: non è il sottotitolo della mostra, che ai sottotitoli accalappia-visitatori giustamente non ricorre, ma è il titolo che è stato assegnato alla seconda sala. Siamo intorno 1910 e l’identità di Malevich, per quanto sia artisticamente ancora incerta, intellettualmente e poeticamente è già ben delineata. Ha avuto modo di vedere quel che un grande collezionista come Sergei Shchukin aveva portato da Parigi, in particolare i Picasso e i Matisse della grande accelerazione di inizio secolo, ma non se ne è lasciato contaminare. Malevich da subito marca la sua differenza, a costo di pagare il dazio di qualche ingenuità di troppo e di sperimentare stili espressivi in modo che a volte sembrano un po’ random.
Ma lui è russo (per quanto parli anche polacco), e non ha né l’intenzione né la tentazione di sottrarsi a questo suo destino. Si capisce presto cammin facendo, che il suo è un obiettivo, o meglio una missione, precisa: portare l’antica Russia, rispettandone sono in fondo l’anima, in prima linea sulle frontiere della modernità. Il primo aggancio tra Russia e modernità prende forma non su una tela ma su un palcoscenico nel 1913, quando Malevitch cura, nell’allora San Pietroburgo, costumi e scenografie per Vittoria sul Sole, opera cubo-futurista musicata da Mihhail Matyushin con un tsto del poeta Velimir Khlebnikov. Le scene sono in bianco e nero, e dominate dalla ripetizione di forme quadrate: cinque in fuga, per dare profondità di campo, e uno alle spalle dello spettatore, per dargli la sensazione di essere chiuso nella dimensione intima di un cubo. Il Quadrato nero arriverà due anni dopo, anche se Malevich lo data al 1913. Lo avrebbe “svelato” il 15 dicembre 1915 con un’operazione che ha tutte le caratteristiche di un passaggio storico. La mostra “Ultima esposizione futurista di quadri 0,10“ si tiene alla Dobychina di San Pietroburgo. Lo zero sta indicare l’anno di inizio di una nuova storia, il 10 il numero di artisti che inizialmente avrebbero dovuto esporre (in realtà furono di più). Il riferimento al futurismo ha qualcosa quasi di canzonatorio: il futuro dell’arte non va nella direzione indicata dall’avanguardia che pur aveva fatto maggiormente breccia nella cultura artistica russa. A documentare quella sala ci resta un’unica, storica fotografia: dei 39 quadri esposti riconoscibili, è nota la sorte di 12. Ben nove di questi sono stati portati in mostra. Ma il cuore della sala è il Quadrato nero su fondo bianco, posizionato con una scelta che più “russa” non si sarebbe potuto, nell’angolo della stanza. Cioè rispettando la tradizione con cui venivano appese le icone nelle case.
Certamente più delle tambureggianti novità che venivano dall’Europa occidentale, Malevich fu interessato da quella mostra evento che si tenne a Mosca nel 1913, quando per la prima volta vennero presentate 147 icone, dal XIV al XVII secolo, liberate dalle ridipinture con cui nel tempo si era tentato di ovviare all’ingiallimento delle tavole. Fu una mostra evento che colpì tutta la nuova generazione di artisti, da Tatlin alla Gontcharova. Ma come ha scritto Tatjana Vlibinkova, «l’interesse più coerente mostrato per l’icona fu quello di Malevitch… Le composizione delle icone, costruite con nitore, facilmente riconducibili a forme geometriche impiegate talvolta in modo diretto, trovarono una prosecuzione nella sua aspirazione a creare una “nuova icona”». Quando qualche anno dopo iniziò a insegnare a Vitebsk, in classe teneva spesso un’icona. Non c’era un’adesione religiosa, evidentemente. Ma c’era un’adesione a quel principio per cui l’arte si è liberata dal dovere di un’espressività e anche da un contenuto, essendo che il contenuto dell’icona è qualcosa che non appartiene a chi le realizza. «L’arte nuova ha posto in primo piano il principio secondo cui l’arte può ammettere solo se stessa come contenuto. Così in essa troviamo non l’idea di qualche cosa, ma solo l’idea dell’arte stessa», scrive nel testo fondante del Suprematismo.
È un’idea che si radicalizza sino ai quadri bianco su bianco che Malevich ribattezza come “morte della pittura” e confluisce in un percorso pedagogico, negli anni dell’insegnamento a Vitebsk e poi a Leningrado. Alla mostra londinese questa esperienza viene illustrata in una magnifica sala dove trovano spazio le grandi tavole che spiegavano teorie e percorsi della Nuova arte (UNOVIS, il collettivo che Malevitch aveva messo insieme era l’acronimo di Utverditeli Novogo Iskusstva, cioè Campo della Nuova Arte). Sono frutto di un lavoro collettivo, con scritte a volte anche in tedesco, perché Malevich volle portarli con sé in una missione all’estero nel 1927, a Berlino e in Polonia. Durò poco quella missione. Perché venne richiamato in Russia e Malevich dovette lasciare quelle tavole a Berlino. Il colima, con la salita al potere di Stalin era cambiato, e l’oscillazione che questa svolta aveva sulla linea dell’arte russa la si può registrare nella grande sala posta come snodo centrale della mostra, dove sono allineati un centinaio di disegni, veri e proprio “pensieri” grafici messi su carta, che coprono tutto l’arco della carriera di Malevich. L’input era quello di tornare alla figurazione. Malevich non se ne sottrae e inizia un percorso per “reinventare la pittura”. Ancora l’icona funziona da ancoraggio per queste sagome semplificate e rigorosamente frontali che raccontano una Russia profonda e che contrassegnano la fine degli anni 20. Sono volti svuotati di identità, che diventano quasi emblema di quella stagione di totalitarismo cieco. Ma è chiaro che quella non è strada che possa convincere Malevich, tanto più che non lo protegge dalle malversazioni del potere (nel 1930 viene anche arrestato con l’accusa di spionaggio a favore della Germania).
Gli ultimi anni sono gli anni dell’eclissi. Malevich sparisce dalla sfera pubblica e s’abbandona ad una pittura strana, affascinante, forzosamente anacronistica. A chiudere la mostra c’è quel famoso Autoritratto in cui posa con una strana solennità, con il costume di Cristoforo Colombo. È un artista evidentemente rassegnato ad essere quello che non avrebbe dovuto essere; rassegnato a dipingere secondo un’idea per lui certamente fuori tempo massimo: ma per quanto costretto ad essere straniero a se stesso, con questo Autoritratto così scopertamente ingenuo, ci dice una cosa che colpisce e anche commuove. Che la libertà di un artista vive anche dentro i muri di una costrizione ideologica ed estetica che può sembrare intollerabile. Che la sua coscienza può restare intatta, anche se non ha più spazi per esprimersi, anche se costretta ad una sorta di mutismo. Non a caso nell’angolo, l’Autoritratto, al posto della firma, come tante altre opere di questi anni estremi, ha un piccolo quadrato nero, dipinto come lo dipingerebbe un bambino. È un segno distintivo, che non ha più l’esatta definizione di un tempo. Non ha più quella forza, quella chiarezza, quella baldanza. Ma è lì, anche nel momento dell’impotenza, a suggerire che quella comunque era la strada. Malevich morì nel 1935. Con lui venne accuratamente sepolta anche la sua opera. Per rivedere in pubblico il Quadrato nero bisognerà addirittura aspettare gli anni 80. Nel frattempo il monocromo aveva conquistato gli artisti di mezzo occidente. Ma a dispetto dell’apparente somiglianza, era tutta un’altra storia. Perché la Russia ha tutta un’altra storia.