Quali sono le mostre del 2017 che non dimenticherò? L’anno è stato prodigo ma prima di passare alla classifica, c’è da fare qualche sottolineatura.
Innanzitutto parlo solo di esposizioni che ho visto con i miei occhi. Quindi l’elenco è parziale: mi manca ad esempio quella di Bernini in corso ora a Roma; e purtroppo non ho visto il coraggioso tentativo pistoiese di un Omaggio all’immenso Giovanni Pisano. Ma pur nella sua parzialità è indicativo del fatto che l’Italia è in questo momento il miglior laboratorio di mostre che ci sia. Magari ha meno potenza di fuoco rispetto alle grandi piazze, ma certo è più innovativa e anche più diffusa. In Italia abbiamo visto mettere a punto percorsi sorprendenti, che non inficiano la serietà scientifica della mostra (vedi Ariosto a Ferrara). Ma viene da dire che una mostra come quella di Damien Hirst, che ha organizzazione francese non avrebbe potuto essere fatta che in Italia. È qui che c’è spazio per uscire dall’ortodossia. È qui che c’è anche un pubblico meno targhettizzato rispetto a quello che si incontra nelle grandi mostre all’estero. Per questo la classifica è solo di mostre italiane.
Seconda precisazione, nell’elenco non compaiono ovviamente le grandi mostre “ad accumulo” di grandi opere (Caravaggio e Manet a Milano, Van Gogh a Vicenza). Sono mostre da cassetta, in cui lo sforzo, a volte anche importante, di fare arrivare opere di peso e qualità non ha alle sue spalle un progetto espositivo e scientifico che renda ragione di quello stesso sforzo.
Ci sono poi le mostre rimaste un po’ sotto le attese. Due su tutte, quella sulla tv curata da Francesco Vezzoli alla Fondazione Prada di Milano e La Terra inquieta di Massimiliano Gioni alla Triennale.
Terza precisazione. Non ho inserito monografiche di artisti contemporanei che meritano certamente una menzione, nel bilancio di fine anno: Adrian Paci al Diocesano di Milano, Stefano Arienti al Museo Civico di Modena, Emilio Isgrò a Palazzo Reale di Milano, Luigi Ontani all’Accademia di San Luca a Roma, Hermann Nitsch a Foligno, Mimmo Paladino che ha occupato Brescia. Una menzione anche per il tentativo coraggioso di Demetrio Paparoni di rappresentare le Nuove frontiere della pittura alle Stelline di Milano.
Non è una classifica. È un elenco, più o meno cronologico. Escluso il primo posto, che non si tocca.
1. “Treasures from the Wreck of the Unbelievable” (“Tesori dal relitto dell’Incredibile”), a Palazzo Grassi e Punta delle Dogana a Venezia è senza dubbio la mostra dell’anno. La mostra con cui Damien Hirst, volenti o nolenti, piaccia o non piaccia, ha terremotato il panorama non tanto per il suo gigantismo, quanto per l’idea che sta all’origine. L’ha spiegata bene Francesco Bonami: «Gli artisti non potranno più non pensare al potere narrativo dell’arte, se non l’unico, sicuramente uno degli elementi essenziali per il futuro successo di un’opera. L’arte senza narrazione oggi come oggi potrebbe rischiare di rimanere indietro o di morire presto. Il racconto è tornato a essere più che mai importante. Hirst questo, nel bene e nel male lo ha capito» (La Stampa, 7 aprile)
2. “The Boat is Leaking. The Captain Lied.”, alla Fondazione Prada di Venezia. Altra mostra che ha sperimentato un approccio narrativo. Qui l’aspetto immersivo si è sostituito al gigantismo di Hirst. Si è trattato di un progetto espositivo transmedial. Protagonisti lo scrittore e regista Alexander Kluge, l’artista Thomas Demand, la scenografa e costumista Anna Viebrock e il curatore Udo Kittelmann. Mi auto cito « È una mostra storico-politica senza nessuna pretenziosità e soprattutto senza nessuna retorica. C’è una sobrietà tutta tedesca in questo tentativo riuscito di “trasformare un palazzo veneziano in un luogo metaforico nel quale identificarsi e identificare il contesto in cui oggi viviamo” (Udo Kittelman). Il senso della storia e del presente è tradotto in uno spazio esistenziale, da vivere più che da guardare». (Alias, 17 settembre)
3. Ettore Sottsass, “There is planet”, Milano Triennale. Altra mostra sorprendente per la sua grammatica compositiva. Un progetto che non presenta Sottsass, ma porta “dentro” Sottsass. C’è una perfetta concordanza tra concept espositivo e progetto di allestimento, curato da Michele De Lucchi. Sottsass con la sua genialità generosa e libera si prestava, ma certo questa mostra diventerà un ottimo punto di riferimento per come pensare esposizioni sui maestri del design. Anche il Csac di Parma si è allineato a questo mood esponendo in modo coinvolgente i disegni donati da Sottsass all’archivio. Mentre l’altra mostra del centenario, quella sui vetri all’Isola di San Giorgio a Venezia ha deluso proprio perché appiattita solo sugli oggetti. Ma Sottsass in vetrina non si sente a casa…
4. “Orlando furioso 500 anni”, Ferrara, Palazzo dei Diamanti. Terza mostra di una triade immaginata da Guido Beltramini (qui con Adolfo Tura), dopo Manuzio a Venezia e Bembo a Padova. Il segreto sta nell’aver poste le domande giuste per montare il percorso: Cosa vedeva Ludovico Ariosto quando chiudeva gli occhi? Quali immagini affollavano la sua mente mentre componeva il poema che ha segnato il Rinascimento italiano? Quali opere d’arte alimentarono il suo immaginario? Vedere cosa vedeva Ariosto… Anche qui si cambia la prospettiva.
5. “Bellotto e Canaletto. Lo stupore e la luce”, alle Gallerie d’Italia a Milano. A cura di Bożena Anna Kowalczyk. Diceva Longhi che Bellotto rappresenta «il trapasso all’“ottico” e al “narrativo”». Bellotto in sostanza anticipa tutti… La mostra con la sequenza delle vedute di Dresda e Varsavia (straordinario lo sforzo di portare tutte quelle enormi tele) è qualcosa che non si dimentica per la vastità d’orizzonte che si spalancava in quelle sale. Sono quadri che spaccano le misure prestabilite, con quelle prospettive sempre dilatate dalla centralità strategiche dei fiumi.
6. “Bill Viola. Rinascimento elettronico”, Firenze Palazzo Strozzi. Arturo Galansino centra l’obiettivo affiancando ai video di Viola le “matrici” rinascimentali. È un’operazione in cui si mette a tema il transito tra passato e presente, e viceversa. I debiti di Viola sono ben dichiarati. Ma è interessante sperimentare anche l’opposto: la contaminazione di uno sguardo contemporaneo su opere del passato. I video sono immagini che si muovono, come si muovono quelle dei video. Da sottolineare la complementarietà perfetta della sezione alla Strozzina con la documentazione degli anni fiorentini di Viola.
7. “Canova, Hayez, Cicognara. L’ultima gloria di Venezia”, Venezia, Gallerie dell’Accademia. A cura di Fernando Mazzocca, Paola Marini e Roberto De Feo. L’oggetto non era semplice: la nascita dell’Accademie e delle Gallerie (200 anni fa), e la figura dell’indiscusso protagonista di quell’ultimo tentativo di Venezia di restare al passo della sua storia. Un tentativo segnato però da una grande e attualissima visione civile del patrimonio, nel senso della conservazione e della valorizzazione. La mostra è esemplare, perché narra una storia comunque avvincente e ripropone un contenuto ben valido per l’oggi. Ne ho scritto su Alias
8. “Bob Wilson for Villa Panza. Tales”, Varese, Villa Panza. A cura di Anna Bernardini. È una mostra molto bella ma che lascia il segno soprattutto grazie “A house for Giuseppe Panza”. Un’installazione nel parco; geniale, poetica connessione tra il mondo di Wilson e quello di Panza. L’idea che una mostra finendo non finisca ma lasci una scia… Che la relazione tra le opere e il luogo non sia solo quella tra ospiti e ospitanti. Un antidoto intelligente alla natura effimera propria di una mostra.
9. “Genovesino. Natura e invenzione nella pittura del Seicento a Cremona”. A cura di Francesco Frangi e Marco Tanzi. Al museo civico Ala Ponzone e al Palazzo Comunale di Cremona. Una mostra di stampo classico, frutto di un lavoro scientifico di alto livello, solo un po’ sofferente per gli spazi troppo angusti che le sono stati destinati. Ma il valore aggiunto sta nell’intelligenza con cui si è fatto leva, nel percorso e nella scelta delle opere, su quei fattori di eclettismo e di eccentricità annunciati dalla parola “invenzione” nel titolo. Genovesino come un attore del presente, che tra le strade di Cremona spuntava in gigantografie sulle vetrine di tanti negozi dismessi. Come si può fare una mostra d’arte antica senza per forza star chiusi nel guscio dello specialismo.
10. “Il Cinquecento a Firenze. Tra Michelangelo, Pontormo e Giambologna”. Palazzo Strozzi. A cura di Carlo Falciani e Antonio Natali. Terza della triade iniziata con Bronzino, è una mostra che si occupa, a dispetto dei nomi civetta, di un periodo non felice e non facile della pittura fiorentino. Ma l’inizio con la parata delle tre Deposizioni di Rosso, Pontormo e Bronzino è da antologia. Il seguito è di una pittura un po’ stanca costretta ad essere però plateale: ma la mobilitazione economica e organizzativa per aver tirato fuori dal buio quelle immense tavole, di averle rimesse a festa, è ben degno di nota.
11. “L’ultimo Caravaggio, eredi e nuovi maestri”. Gallerie d’Italia a Milano, a cura di Alessandro Morandotti. Un caso scuola: come si voltano le spalle ad un genio. Nel 1610 arriva a Genova il Martirio di Sant’Orsola di Caravaggio, ma a Genova si dipinge come se quel quadro non fosse mai stato né dipinto né visto. La mostra è spettacolare nella narrazione di questa fuga da Caravaggio. Allestita in modo magnifico, con la spettacolare restituzione dell’Ultima Cena di Procaccini dalla SS. Annunziata del Vastato di Genova. Perfettamente integrati al percorso anche tutti gli apparati di supporto.
12. “Marino Marini, passioni visive”, Pistoia palazzo Fabbroni. A cura di Barbara Cinelli e Flavio Fergonzi. Una mostra viva, di ricerca, come quelle necessarie durezze proprie di ogni mostra di ricerca. Marino non è celebrato ma scandagliato senza renitenze, rispetto alle memorie visive che sono funzionate da input nelle sue varie stagioni. La sala con il Crocifisso trecentesco di proprietà di Marino circondato da quei suoi corpi volanti è uno delle sale che non si dimenticano.
13. Sol LeWitt – “Between the Lines”. Fondazione Carriero, Milano. A cura di Rem Koolhaas e Francesco Stocchi. Una mostra di Sol Lewitt è impresa ardua, quasi contronatura, tanto è decisiva la relazione tra i suoi interventi e i contesti. Ma qui l’impresa impossibile è invece riuscita, per la determinazione maniacale con cui ci si è calati nello spirito di Sol LeWitt. Una mostra che ha rinnovato, a livello intellettuale ma anche pratico, la ritualità spasmodica da cui si generano i suoi interventi.