Nel catalogo della mostra dedicata all’ultimo decennio di Andy Warhol (che Maria mi ha gentilmente portato da NY), ad un certo punto compare l’infilata degli autoritratti “atomici” del 1996. Warhol li aveva fatti nel 1986, un anno prima di morire, su commissione del gallerista londinese Anthony D’Offay per una mostra nel suo spazio. Warhol si fece fotografare da Benjamin Liu, con una posa ispirata ai cappelli rasta di Basquiat. In realtà la posa è di una drammaticità da resa dei conti finali, con la bocca semiaperta e i capelli che s’impennano sulla testa come per un fremito apocalittico. D’Offay volle quadri a taglio più stretto, senza il gioco dei capelli e con l’epicentro sullo sguardo e la bocca aperta. Warhol, in mostra, girava ossessionato. «La stanza era piena dei peggiori quadri che tu abbia visto di te stesso», disse. Finita la mostra (era agosto) continuò la serie prendendo tutta la fotografia. Lo sguardo è quello, ma i capelli accennano a un moto ascensionale che comunica un senso di mistero: come quello di un’anima che se ne va, in alto…
Ma è un’anima chiamata a una drammatica collutazione come dimostrano i due ultimi quadri della serie, che non avevo mai visto (sono conservati a Pittsburg). Qui il volto si riduce, naviga nello spazio vuoto della tela, che è molto più piccola (quadrato, 35 cm di lato, contro i 2 metri e passa delle versioni precedenti; la scanzione qui sotto è parziale: la rilegatura catalogo non permette di prendere tutto lo spazio vuoto attorno) Spariscono anche i colori. Resta solo un bianco nero terrificante come quello di uno scalpo indiano. Sembra davvero la scena finale di un film, che va a sfumare. Lasciando lo spettatore nell’incubo. Difficile vedere delle immagini di tale intensità premonitrice di morte. È un Warhol che toglie il fiato. Un fantasma che non lascia scampo a tutta la beata ideologia warholiana. Il 22 febbraio 1987 Warhol moriva.
di warhol non vorrei sentir parlare. Come di un grande ustionato che appena lo guardi grida di dolore. Anche quando ha fatto le litografie dei fiorelloni arancio rosa e lilla. Mi ricorda, rispetto alla america del suo tempo, Jan Palach che si è bruciato in piazza nel 69 come segno di rivolta del popolo cecoslovacco.
Forse che gli artisti sono un po’ tutti così? Degli urlatori in cui si libera, esplode e cerca forma, il più grande che non ci sta nelle stanzette?
Poi ne scende la Praga consumistica e la grafica moderna. irrisione? Implosione?
paola
23 Set 10 at 7:24 pm edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>
[…] L’aura di spensieratezza che pervade la prima sala si perde ben presto e lascia il posto a un senso di inattesa inquietudine (me l’ha fatto notare Petra, ed è vero). Dietro l’ostentato vitalismo un po’ cazzone che Warhol coltivava alla Factory e smerciava nelle interviste e nelle serate mondane, c’è un dramma mica da ridere. Marilyn appena morta (in mostra ce n’è una perforata da un proiettile), Liz Taylor dopo la malattia, i car crash, i teschi… Fino alle feroci pennellate degli anni settanta sulle serigrafie di Mao o al grande autoritratto rosso dell’ultimo periodo (di questa serie ha parlato qui robe da chiodi). […]
A MILANO I CRISTI FOSFORESCENTI DI ANDY WARHOL | NO NAME
22 Nov 13 at 10:18 pm edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>