Il caso di Miquel Barcelò, il pittore spagnolo chiamato dall’Onu ad “affrescare” la volta della Sala XX del palazzo di Ginevra dedicata ai Diritti umani, si presta a qualche utile e anche un po’ velenosa considerazione.
Primo, ci troviamo davanti a un caso palese di megalomania. Una volta di 1300 metri quadrati con Diritti umani per la quale Barcelò ha utilizzato «più di cento tonnellate di pittura prodotta con pigmenti provenienti dai quattro angoli del mondo, avvalendosi di un’attrezzatura appositamente progettata e con la collaborazione di specialisti in varie discipline, tra cui fisici delle particelle, ingegneri, architetti e restauratori di caverne preistoriche» (così spiega il comunicato di Fundaciòn Onuart, committente dell’opera).
Secondo. Dalle foto diffuse e dalla conoscenza degli ultimi anni della grande promessa della pittura spagnola (deludente ridondante la sua mostra a Lugano un paio d’anni fa), mi permetto di avanzare qualche riserva su questo soffitto grondante. È figlio di un artista un po’ tronfio che si crogiola nella sua bravura e nella retorica che gli è stata creata attorno. Insomma è di una ridondanza molto “pompieristica”.
Terzo. Barcelò è figlio del modello spagnolo, che ne ha fatto praticamente un artista di stato: non a caso è riuscito ad imporlo a un ente sovranazionale e sia il re che il primo ministro Zapatero saranno presenti per l’inaugurazione. I giornali se lo coccolano come un novello genio: il suo intervento nei titoli è già diventato la “capila Sixitina de la Onu”. La Spagna in questo è davvero sciovinista e provinciale.
Quarto. L’Onu mette un sacco di soldi per un’opera che darà infiniti problemi di conservazione. Il bilancio finale è di oltre 20 milioni di euro. In buona parte messi dalla Spagna che li ha sottratti dai fondi destinati a interventi umanitari. Dite voi se ne valeva la pena.