Vista alla mostra del futurismo a Milano. Il percorso è un po’ claustrofobico, la selezione delle opere per quanto ridondante, lascia alla fine un’impressione di stitichezza. Eppure le prime sale lasciano balenare grandi premesse e grandi promesse. Sono gli anni in cui Boccioni e Balla (ma a sorpresa anche Carrà) sembrano schiudere il guscio, liberandosi d’incanto dalle pastoie simboliste del divisionismo italiano. C’è un senso stupito soprattutto nei ritratti di Boccioni, in particolare quello dell’Avvocato C.M. sullo sfondo delle spiagge del Lido (1907): sembra un avventuriero della modernità, che scruta l’orizzonte con saldezza di sguardo. Così l’Autoritratto di Balla (1902), che sbuca dall’opacità ovattata dell’800 per calarsi con grande calma nella luce abbagliante del nuovo secolo. È questo fragore luminoso che colpisce. Un fragore che non ha nulla di intellettualistico né di visionario: si capisce come la genesi del futurismo si alimenti della vita della nuova Milano pulsante, quella dell’Expo 1906. Il futurismo non è arte che si mette di traverso, ma aldilà dei proclami, è arte collaborativa. È figlio di quella Milano, ma ne è anche pungolo, stimolo. Scossa continua. Non c’è mai l’altezzosità nichilista delle avanguardie. Forse è un limite. Ma a me piace che sia così. Non è un caso che chi più chi più meno approdino tutti pacifivamente alle arti applicate, disponendosi a disegnare servizi di piatti e attrezzerie domestiche: Sottsass e Mendini ringraziano.
PS: A proposito, a quando una grande mostra per Boccioni? (nella foto uno dei Boccioni in mostra. Il Bevitore, 1909. Che dire? Mi piace la dolcezza di quel personaggio affaticato, accasciato sul tavolo. Esausto di vino o esausto per una giornata di lavoro? Anche nella deflagrazione dinamica delle forme, Boccioni preserva sempre un’ultima tenerezza che fa da collante decisivo. Il futurismo è questo: un piede sulla frontiera del mondo, l’altro dentro la soglia di casa).