Robe da chiodi

Corbu, Vermeer, Guttuso. Bellezze romane

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Le Corbusier, uno dei fogli-lavagna con gli schemi fatti nel corso della lezione milanese del 1934. (cliccando si ingrandisce)

Al Maxxi mostra di Le Corbusier e l’Italia. Spiccano quei cinque meravigliosi fogli- lavagna conservati all’archivio Bottoni del Politecnico di Milano, relativi a una lezione di LC a Milano del 1934. Il tema è l’abitare e la città. Lo sguardo di LC è di un’ampiezza attentissima però al particolare minuto della vita, è uno sguardo palesemente dettato da un amore verso l’oggetto che sta affrontando. L’abitare in città non è vissuto come un problema da risolvere, ma come un patrimonio di vita da conoscere, innanzitutto, e poi da custodire e far crescere sano. LC non ha uno sguardo superiore dell’esperto, ma è uno della partita: lo si vede dall’amore che muove i pastelli colorati sui grandi fogli di carta, in cui mostra come l’architettura debba sempre pensarsi a partire dal dato della vita. Sono fogli da cui si capisce che cosa significhi avere davanti un maestro nel senso completo della parola. e naturale. Riferendosi alle sue conferenze LC disse: “Esse con tutta la modestia, hanno aperto porte e finestre. Sono illustrate da schizzi, fatti sotto gli occhi del pubblico. Hanno permesso al loro autore di veder chiaro dentro se stesso, d’essere ingenuo una volta di più, nel contentarsi di porre i problemi e di dar loro la risposta più naturale”.

La Mostra di Vermeer alle Scuderie del Quirinale conferma un’impressione già avuta scorrendo il catalogo: che il dato di contesto è una bella palla al piede per un gigante come lui. Non che le decine di opere che accompagnano le otto opere di Vermeer non c’entrino. Ed è difficile pensare modalità alternative per esporre un pittore con 36 opere certe in catalogo. Ma l’impressione di modestia di tutto ciò che avveniva attorno a lui resta. Vermeer è un genio pulviscolare, visto da vicino ci si accorge che ogni millimetro di superficie dipinta è superficie non definita ma sempre in divenire. Più ti porta dentro il quadro più lui sfugge, perché concepisce l’esattezza come una vibrazione, non come un dato perimetrabile. Nella stradina di Delft impressiona il modo con cui ha dipinto il glicine sulla sinistra, non inseguendone le forme ma intercettandone il respiro, le intermittenze luminose. È certamente il modo con cui, senza muoversi e senza infrangere canoni, scappa via dalle prospettive anguste della sua Delft…

C’era molta voglia di riveder Guttuso, come dimostra la quantità di gente che affolla le sale del Vittoriano (se sale si possono chiamare questa sequenza di corridoi e di balconate: sede disgraziatissima). La mostra, che è quella del centenario con un anno di ritardo, è fatta senza molta testa, e certo non aiuta un grande artista generoso che ultimamente nin ha conosciuto grande fortuna. Sarebbe stato meglio fare una mostra con un taglio più ragionato e ambizioso, ad esempio su Guttuso e Roma, visto che Roma continua ad amarlo. Così si vedono alcuni quadri meravigliosi (il ritratto in rosso di Mimise, l’Antonio Santangelo, uno dei più bei ritratti del secondo 900), ci si chiede perché ne manchino alcuni fondamentali, come In spes contra spem. I disegni vengono “massacrati” in due salette anguste, ci sono un paio di pareti messe insieme come se fossimo ad un’asta di provincia. Eppure Guttuso dimostra di tenere e che la marginalità a cui è stato relegato (uno solo dei quadri esposti viene da fuori Italia…) è un destino del tutto immeritato. È un artista pieno di uno slancio che oggi sembra così raro tra suoi colleghi troppo calcolatori e cerebrali. È uno che vive la pittura senza riserve e senza complessi, pagando il dazio di tante cadute per mancanza di calcolo e di lucidità. Bellissimo a rivederlo, il grande funerale di Togliatti, con la soluzione pop dei fiori ritagliati su carta attorno al volto del defunto. Un quadro baldanzoso, un quadro di lotta ma soprattutto di amicizia, con quelle bandiere rosse, ancora piene di sogni e di ideali. Su un muro si rilegge una sua frase famosa: “Se io potessi, per un’attenzione del Padreterno, scegliere un momento della storia e un mestiere, sceglierei questo momento e questo mestiere”. C’è da amarlo anche solo per questa frase….

Written by gfrangi

Novembre 25th, 2012 at 11:00 pm

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6 Responses to 'Corbu, Vermeer, Guttuso. Bellezze romane'

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  1. Ciao Giuseppe,
    concordo con quanto dici in merito a Vermeer. Mi è servito comunque visitare la mostra perchè, per differenza, ho potuto vedere e intuire quando un’immagine è viva. Contrariamente agli altri presenti in mostra, che risultano ultimamente più realisti del re non suscitando particolari sorprese se non nella loro incredibile capacità tecnica (stupefacente Metsu), Vermeer il reale lo accusa e lo rielabora, magari con piccole sfasature nei punti di luce creando un’immagine non fissa ma quasi ondivaga (sto pensando alla Ragazza con cappello rosso), restituendoci il suo reale (e non può che essere un reale personale)ed è allora che un’immagine risulta viva, vibrante.
    Un piccolo parallelo con Richter: secoli dopo, è sempre il contraccolpo con il reale che sta dietro a una pennellata ciò che colpisce e fa la differenza tra un’immagine vera o deludente. (cfr.le parole di Jerry Saltz riportate in “noname” di Luca Fiore – UN VERO FALSO RICHTER PER JERRY SALTZ)
    Saluti
    Patrizio

    Patrizio

    28 Nov 12 at 5:54 pm

  2. Su Kapoor: quando dice di non aver niente da dire, è perfettamente coerente e non contraddice il suo lavoro. Che noia. C’è una linea sottile tra dirlo come provocazione e dirlo come paraculata. Non trovi? Un rifiuto del peso mica lo risolve, ma lo copre, lo “rimuove”. Anche Ai Weiwei rifiuta ogni esistenzialismo o contraddizione, non mi sorprende che se la intendano.

    Non è leggerezza quella di Kapoor, è sindrome di peter pan. E’ cinismo…

    Beatrice

    1 Dic 12 at 4:06 pm

  3. Non sarei così drastico. Il non aver niente da dire può anche essere un modo per scaricare di enfasi la propria arte. È vero che c’è molta furbizia mediatica in tutti questi artisti, per cui si fa fatica a distinguere la sostanza. Kapoor è un artista che ogni tanto mi sembra come una bolla: un rigonfiamento di un nulla. Ma non sempre è così: per quanto non le abbia viste, la cosa di Parigi Grand Palais e il treno che sparava con una catapulta il rosso sulle pareti alla mostra di Londra mi sono sembrate immagini potenti.

    gfrangi

    2 Dic 12 at 10:34 pm

  4. Capitata qui per caso, cercando una foto dall’alto del cretto di burri da mostrare a un amico per fargli capire la grandiosità, in tutti i sensi, dell’opera.
    Mi piace il tuo blog.
    Ho visto la mostra di Vermeer, bello quello che scrivi, sul glicine, e sulla sfuggevolezza del pittore di Deft.

    sburk

    7 Dic 12 at 11:45 am

  5. Sì sempre meglio delle chiacchiere sicuro! Ma sono situazioni complementari. Sono i due estremi, sarebbe da andare a scavare nel centro. Si rifiuta l’estetica o la si fa a casaccio, mi sembra. Sì il colore sparato sulle pareti della Royal aveva una sua forza comunque.

    La risposta non la so, ma in parte penso che al di là del mercato eccetera, il fatto che artisti come Kapoor siano in balia dei curatori sia una mancanza di carica “esistenziale” proprio nel lavoro. La leggerezza zen non si può appiccicare all’Europa ignorando cosa c’è sotto. Per me la si deve raggiungere scalando una montagna, come Van Gogh…

    Beatrice

    7 Dic 12 at 7:02 pm

  6. Grazie. Ben arrivata su robedachiodi

    gfrangi

    8 Dic 12 at 12:13 am

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