Robe da chiodi

Fontana mano volante

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fontana1Bella, intelligente, precisa la mostra che il museo di Mendrisio ha dedicato a Fontana (1946-1960, il disegno all’origine della nuova dimensione; a cura di Simone Soldini e Luca Massimo Barbero). Una mostra sobria, “necessaria” che attraverso lo scavo nei materiali della Fondazione Fontana, documenta il momento cruciale della più importante esperienza artistica del secolo, in Italia. Nel piccolo, ironico doppio Autoritratto del 1946 con cui si apre il percorso, si vede in primo piano un Fontana sconsolato e quasi accasciato e alle sue spalle l’altro Fontana, illuminato dal guizzo dell’“idea”. È come un passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo. L’idea si fa strada su piccoli foglietti fruscianti, senza nessuna ambizione estetica. È l’arte che entra in un territorio nuovo mai percorso. Si sente l’ebrezza dei primi passi caracollanti nello spazio, proprio come quelle degli astronauti che di lì a poco avrebbero cominciato le loro “danze”. Vediamo grandi bolle colorate navigano nei confini della carta come tuorli di uova concettuali. E poi le intuizioni semplici, i buchi, i tagli, prima timidi, quasi esitanti, poi sempre più certi e solenni. Si avverte il punto “genetico” di un’idea, di una di quelle idee da cui non si torna indietro. «Da questo momento entra sempre più in me il convincimento che l’arte aveva concluso un’era, dalla quale dovevano salirne attraverso nuove esperienze che evadessero completamente dal problema pittura scultura» (Fontana nell’imprescindibile Autoritratti di Carla Lonzi).

Come Duchamp Fontana ha il grande pregio di non caricare mai di retorica nessun suo passo. È quasi discreto e delicato nel portare più in là la barra. E nessuno direbbe che tra quei graffi su centinaia di foglietti stava prendendo forma un’idea epocale. Neanche adesso lo si direbbe, che pur sappiamo com’è andata a finire…
Non perdetevi il big bang di Fontana in quel di Mendrisio (c’è tempo sino al 14 dicembre).

La “mano volante” del titolo la devo a Fanette Roche-Pézard che così chiamò la mostra dei disegni di Fontana al Beaubourg del 1987.

Leggi anche il pensiero di Damien Hirst su Fontana, dal catalogo della mostra genovese.

Written by giuseppefrangi

Novembre 12th, 2008 at 11:48 pm

Barcelò, un pompier all'Onu

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onuart-foto-c2a9agusti-y-antonia-torres-3539Il caso di Miquel Barcelò, il pittore spagnolo chiamato dall’Onu ad “affrescare” la volta della Sala XX del palazzo di Ginevra dedicata ai Diritti umani, si presta a qualche utile e anche un po’ velenosa considerazione.
Primo, ci troviamo davanti a un caso palese di megalomania. Una volta di 1300 metri quadrati con Diritti umani per la quale Barcelò ha utilizzato «più di cento tonnellate di pittura prodotta con pigmenti provenienti dai quattro angoli del mondo, avvalendosi di un’attrezzatura appositamente progettata e con la collaborazione di specialisti in varie discipline, tra cui fisici delle particelle, ingegneri, architetti e restauratori di caverne preistoriche» (così spiega il comunicato di Fundaciòn Onuart, committente dell’opera).

Secondo. Dalle foto diffuse e dalla conoscenza degli ultimi anni della grande promessa della pittura spagnola (deludente ridondante la sua mostra a Lugano un paio d’anni fa), mi permetto di avanzare qualche riserva su questo soffitto grondante. È figlio di un artista un po’ tronfio che si crogiola nella sua bravura e nella retorica che gli è stata creata attorno. Insomma è di una ridondanza molto “pompieristica”.
Terzo. Barcelò è figlio del modello spagnolo, che ne ha fatto praticamente un artista di stato: non a caso è riuscito ad imporlo a un ente sovranazionale e sia il re che il primo ministro Zapatero saranno presenti per l’inaugurazione. I giornali se lo coccolano come un novello genio: il suo intervento nei titoli  è già diventato la “capila Sixitina de la Onu”. La Spagna in questo è davvero sciovinista e provinciale.
Quarto. L’Onu mette un sacco di soldi per un’opera che darà infiniti problemi di conservazione. Il bilancio finale è di oltre 20 milioni di euro. In buona parte messi dalla Spagna che li ha sottratti dai fondi destinati a interventi umanitari. Dite voi se ne valeva la pena.

Written by giuseppefrangi

Novembre 11th, 2008 at 7:04 pm

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Beuys in Vaticano (se ci fosse stato Ravasi)

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Gianfranco Ravasi, da pochi mesi “ministro” della cultura vaticana, è un uomo intelligente e non affetto da clericalismo. In un’intervista rilasciata alla Frankfurter Allgemeine Zeitung (e pubblicata questo mese dal Giornale dell’arte) affronta in modo finalmente coraggioso il tema del rapporto tra la chiesa e l’arte moderna. Bacchetta severamente il sin troppo sbandierato nuovo Lezionario in cui sono state inserite opere di Paladino e Chia («artisti validi ma persino i loro lavori sono parsi privi di ispirazione»). Dice Ravasi: «…Forse allora è la chiesa ad aver perso contatto con la creatività». «L’arte contemporanea deve essere presente nei nuovi spazi delle chiese. Ci vorranno anni per dar vita a un nuovo gusto, ma da qualche parte bisognerà pur cominciare». Come esempio di questa incapacità di comprendere quel che di nuovo si presenta sulla scena del mondo Ravasi cita la piccola Crocifissione di Joseph Beuys, del 1963. «La Chiesa avrebbe dovuta acquistarla negli anni 60, sarebbe stata un grande segnale».
beuys-crocifissioneLa Crocifissione (nella foto) si compone di due flaconi già usati per la conservazione del plasma, vuoti, posati su blocchetti di legno: rappresentano San Giovanni e Maria ai piedi della croce. Nel mezzo un altro pezzo di legno, verticale con una croce rossa in alto. Dissacrante? Non direi. Sofferente, piuttosto. Della sofferenza di un artista che cerca di rappresentare un’immagine sulla quale è incardinata la storia (non solo quella dell’arte), e si trova tra le mani solo questi poveri resti ancora pregnanti di un significato.
Grazie quindi a Ravasi per aver sollevato la grande questione. Ora guardiamoci da chi dice di avere soluzioni in tasca. Su una materia così bisogna procedere, senza enfasi, tentativamente. L’importante è procedere, e prendersi dei rischi. E tenere gli occhi (e anche le porte: quelle delle chiese) aperti.
Post scriptum: l’importante è invece lasciar fuori dalla porta la retorica della presunte, periodiche rinascite del sacro. E lasciar fuori dalla porta anche le “elemosine” di  quegli artisti che regalano qualche soggetto sacro per vanità. Meglio il balbettio anche ambiguo di un Beuys. Almeno lui si gioca con le sue domande e l’asprezza dolorosa del suo sguardo.

Written by giuseppefrangi

Novembre 9th, 2008 at 4:16 pm

Hello Chicago

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lobbyHa iniziato così il suo discorso l’altra notte ( la sua notte) Obama. «Hello Chicago». Bello slancio, dedicato a una città magnifica e dura, spazzata dal vento (windy city) e abbarbicata al suo loop, il treno che sferraglia ad altezza camera da letto nel cuore della città. Chicago ha qualcosa di impresentabile, di irrimediabilmente banditesco. Poi è capace di sorprendere con perle di purezza inarrivabile. Due su tutte, per me: i Lake shore drive apartments di Mies Van der Rohe, architettura di trasparenza perfetta affacciata sul “mar” Michigan (nella foto). E la Dimanche à la Grande Jatte di Seurat, nel museo che a me è sempre sembrato uno dei più bei e sintetici musei del mondo. Chicago mi piace perché ha qualcosa di Milano. Una città in cui nessuno vorrebbe stare, ma in cui finiscono per arrivare tutti. Non città da vetrina, ma città di sostanza. Città piatte, più forti dei miasmi con cui sono costrette a coesitere. A quando qualcuno che lanci un “hello Milano”? (Nel senso di un qualcuno che s’inchini alla città mostrando un attaccamento così sobrio e così commosso)

Written by giuseppefrangi

Novembre 7th, 2008 at 2:39 pm

Tutti in estasi per Bill Viola

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bill-viola-ocean-without-a-shore-woman1Piace, quanto piace Bill Viola il videoartista americano che sta esponendo al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Da Repubblica ad Avvenire abbiamo letto apologie senza riserve. Viola fa tutte le cose giuste: è moderno nella scelta del mezzo espressivo, è elegante e impeccabile e quindi anche molto glamour; è naturalmente molto religioso, di una religione, come funziona oggi, ritagliata su misura. Ha una qualità formale e tecnica che rende inattaccabili le sue opere. I suoi video sono rallentati allo spasimo, perché Viola vuole stare aldilà del tempo, perché sente nel tempo una zavorra. In questo ha condizionato anche i suoi fans, che arrivano a dire che chi vuol vedere la sua mostra è meglio che butti via l’orologio (Lorenza Trucchi). È un mondo liberato dal peso di se stesso quello di Viola, come recita il titolo del video presentato all’ultma Biennale veneziana “Oceano senza una sponda” (Ocean without a shore: fatevene un’idea, per la verità molto parziale, guardandolo su Youtube; oppure accontentatevi della foto qui a sinistra). Un titolo che vuole essere una metafora di Dio. La sua è una religiosità che sfuma nel nirvana, che scioglie la fisicità portandola ai confini dell’immateriale.
Per coincidenza la sua mostra aviene in contemporanea e a poche centinaia di metri da quella di un artista da lui quanto mai amato, Giovanni Bellini. A lui Viola ha dedicato un breve scritto pubblicato da Repubblica (qui lo potete leggere in integrale). Uno scritto bello e rivelatore. in forma di lettera. Scrive Viola: «Una delle tue ultime opere è un ritratto di Cristo che ci guarda dritto negli occhi. In quel momento, solo nel tuo studio, sentivi che Dio era lì con te? Avevi l’ impressione di vederlo nel medesimo istante in cui lui vedeva te? E ora che non sei più su questa terra, che mondo vedono i tuoi occhi?». Che mondo vedono i tuoi occhi: probabilmente il programma di lavoro per lui stesso.

Detto questo, ammetto di non andare in estasi per Bill Viola. Mi sembra che sia troppo prono ai gusti del tempo. Troppo elegantemente accomodante. Troppo mistico, di una mistica patinata. Soprattutto troppo ostile alla dimensione del tempo. (Del resto non ho mai nascosto che tra Mantegna e Bellini io sono del partito di Mantegna).

Written by giuseppefrangi

Novembre 5th, 2008 at 8:53 pm

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Caravaggio, questione di sguardi

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Dopo tanti anni di nuovo a Genova, a Palazzo Bianco, davanti all’Ecce Homo di Caravaggio. Dell’allestimento delicato e perfetto di Franco Albini restano solo poche reliquie, ma una di queste tocca proprio al capolavoro: la parete con lastre di granito che gli fa da sfondo. Dobbiamo a Roberto Longhi e a Caterina Marcenaro, la mitica direttrice delle Bella Arti a Genova, la riemersione di quest’opera abbandonata tra uffici, magazzini e sottotetti e tenuta in condizioni penose sino al 1954. La Marcenaro si accorse che non era un quadro qualunque. Longhi la pubblicò, senza incertezze sull’autografia caravaggesca, su Paragone nel febbraio 1954. Il quadro ha un’evidenza clamorosa nella sua semplicità: tre personaggi, su tre piani, dietro a una balaustra. C’è un Pilato senza tentennamenti che mostra al popolo (che siamo noi, aldiqua della balaustra), un Cristo di struggente dolcezza e remissività. Dietro lo sbirro regge il mantello e guarda la vittima con l’abitudinario disprezzo. Ma basta una lettura epidermica del quadro per accorgersi come Caravaggio condensi genialmente la scena nel gioco degli sguardi. C’è lo sguardo di Pilato, sgranato, potente, aggressivo. Lo sguardo di uno che sa quel che vuole e che ruba la scena (nel senso letterale, perché a differenza dell’iconografia tradizionale conquista il primo piano). E c’è il non-sguardo di Cristo. Che sta con la testa china e le palpebre abbassate, un passo indietro. Non li vediamo gli occhi di Cristo, emblema di innocenza. E a memoria non ricordo un’immagine simile. La voracità di Pilato contro il silenzio denso d’obbedienza di Cristo. Non si poteva pensare nulla che potesse restituire con più definitività l’Ecce Homo.

Longhi poi aggiunse un’altra ipotesi tremendamente suggestiva. Pensò che nel Pilato Caravaggio si fosse rappresentato, e portò una serie di credibili analogie somatiche con effigi note del pittore («la somiglianza profonda delle orbite incassate, delle palpebre spesse come di cuoio, delle sopracciglia rialzate quasi per orrore fisso…»). Portò allo scoperto un altro particolare che poteva confermare la sua ipotesi: le mani di Pilato sono nella posizione di un pittore che si fa un autoritratto, la sinistra che tiene la tavolozza, la destra che con il pennello s’appresta a dipingere il «torso di Cristo che sboccia intatto e virginale, come dal mallo, una scultura arcaica». Il tutto senza una briciola di compiacimento. Chiude Longhi: «Anche per noi oggi, è pur questa l’iilusione di realtà intrepida e straziante che promana dall’Ecce Homo ritrovato a Genova»

Written by giuseppefrangi

Novembre 4th, 2008 at 12:04 am

Il gomito di Mantegna

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Nella prima sala della mostra parigina si incontra su Mantegna un quadro, datato 1443/1448, conservato a Francoforte, che è l’emblema della mostra e di Mantegna stesso. È un San Marco, che spunta da dietro una finestra ad arco, ornata da una ghirlanda senza troppe pretese. Sul davanzale sta appoggiato il Vangelo con una rilegature poderosa e un frutto minuto, che sembra quasi fuori scala. È il primo quadro che si incontra, ed è perfetto per annunciare la sarabanda trascinante della prima sala, dedicata alla Padova eccitatissima, stregata da Donatello e aggregata attorno alla bottega poco ortodossa ma contagiosa dello Squarcione (un nome, un programma).
Il san Marco di Mantegna ha un particolare che non può non colpire: è quel suo gomito sinistro che si sporge platealmente e anche in modo un po’ innaturale oltre il largo davanzale. Viene insomma indisciplinatamente dalla nostra parte, rompendo la convenzione e l’ordine stabilito, dichiarandosi parente stretto (o per dirla, tutta, fratello) degli apostoli che Donatello aveva lasciato in piena colluttazione sulle porte della Sagrestia Vecchia a San Lorenzo. Quel gomito è un po’ la cifra che Mantegna si terrà attaccata per tutta la sua vita. La sua natura lo porta sempre a forzare, a mettere pressione all’opera e a chi la guarda. Mantegna è un pittore che vive di accelerazioni precipitose e impreviste. Che deve sempre scavalcare la convenzione o lo status quo. Tra i suoi capolavori padovani ci sono gli affreschi della cappella Ovetari agli Eremitani (foto qui sotto): lì aveva fatto i fuochi d’artificio, con quel pergolato in prospettiva che s’infila nel muro a velocità supersonica o con quel cielo surrealmente nero sopra la città.
Mantegna è uno che non le manda a dire, né si nasconde. Gioca sempre allo scoperto, e d’attacco. Forse per questo sembra così moderno (e ancora una volta Bellini con il suo immenso e poeticissimo pudore sta sull’altra riva).

Written by giuseppefrangi

Novembre 1st, 2008 at 10:46 am

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Fontana, dove meno te lo aspetti

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Due belle mostre intelligenti e insolite dedicate a Lucio Fontana. Una a Mendrisio, l’altra a Genova. In preparazione alla visita, ecco un pensiero su Fontana che non ti aspetti (specie riferendosi a chi lo ha avuto)

«Quando Jackson Pollock faceva colare il colore dal pennello, ci sembrava che il mondo così come lo conoscevamo fosse cambiato per sempre. Lo stesso vale per Fontana, le sue aggressioni e le sue profanazioni da un lato si possono considerare infantili atti distruttivi e dall’altro un inno alla vita, esplosioni cosmiche o danza insolite ma stupende. Con le sue traiettorie nello spazio e nel tempo, Fontana parla al bambino che è dentro di noi, ci ricorda che per quanto complicata sia la nostra vita, ci salva la bellezza che si trova dove meno ce lo aspettiamo, e questo è l’importante perché come diceva Brancusi “quando non si è più bambini si è già morti”».

Sarebbe da fare un quiz sull’autore. Ma è troppo difficile e quel riferimento a Pollock spiazza dal punto di vista generazionale. È niente meno che Damien Hirst, un artista da gossip che ha uno sguardo intelligente come pochi sull’arte. Leggete il suo Manuale per giovani artisti.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 29th, 2008 at 9:14 pm

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Le pietre addormentate di Rauschenberg

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Così Robert Rauschenberg spiegava le sue Early Egyptians (1974; in mostra ora a Napoli, al Madre): «Cospargo le scatole di cartone di un materiale speciale come fosse colla. Poi le ricopro con due o tre strati di sabbia. Questo è così, quando pensi che siano scatole, ti sembrano pietre. Poi dopo aver pensato che sono pietre, torni alla prima impressione. Non sono pietre! Pensi di nuovo che siano scatole. Quest’ ambiguità è quello che mi piace. Poi ne dipingo il retro in modo che riflettano il colore sui muri. Come pietre che si sono addormentate dentro a un arcobaleno».

Written by giuseppefrangi

Ottobre 29th, 2008 at 1:08 am

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Seurat, senza indecisioni

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Ci sono 13 quadri di Seurat nella mostra milanese sul neo impressionismo. E sono un motivo più che sufficiente per non snobbare questa mostra che certamente, di per sé, lascia il tempo che trova. Mostra dalla scontata impostazione didattica un po’ a prova di asilo. Ma Seurat è Seurat, e solo per inerzia culturale si finisce sempre per metterlo nella truppa di questi pittori che stanno a distanza siderale da lui, Signac compreso. Seurat è di un’altra famiglia: lui vien giù da Piero della Francesca, per lui in pittura c’è nessuno spazio per la casualità. È tensione verso un’esattezza senza concessioni. Certamente è impregnato sino al midollo di luce impressionista, ma è come se l’avesse sottratta da una parte al tempo, dall’altra alla meteorologia. Così trasforma, o meglio trasfigura, l’impressionismo in un fatto zenitale. La luce, còlta d’après nature viene riportata alla sua radice. Diventa veicolo di un qualcosa che ha a che fare con l’assoluto.
Il metodo scientifico nella stesura dei colori su cui si indaga sino alla nausea è la via con cui Seurat si sottrae al felice soggettivismo dei suoi fratelli maggiori impressionisti. Lui cerca un’oggettività che gli faccia fare il balzo aldilà di tutto ciò che è transitorio.
L’inarcamento della schiena dei contadini nei due bozzetti in apertura di mostra, vien giù dall’inarcamento dell’astante che si toglie il camice nel battesimo di Piero. È postura che in qualche modo riposta a un senso dell’eterno. Così la sabbia bianca della spiaggia di Honfleur (1886), dipinta a piccoli tocchi luminosi e pastosi, ha la solidità abbagliante di un territorio immutabile.

Quando Seurat tira una linea o alza un palo (vedi Il Canale d Gravelines: di sera, 1890), è difficile immaginare che quella linea o quel palo potessero avere un tracciato diverso. Seurat è sempre di un’esattezza che non lascia spazio a varianti. C’è talmente tanta concentrazione mentale nei suoi quadri, da chiudere ogni spazio all’indecisione.

(Per questi motivi, e per tanti altri che sarebbero da aggiungere, La Baignade à Asniére (1883) è tra i grandi quadri dell’Ottocento, forse forse il più grande: c’è la vocazione all’assoluto di Seurat accompagnato da una grazia che non lo avrebbe mai toccato in modo tanto abbondante…)

Written by giuseppefrangi

Ottobre 28th, 2008 at 1:15 am

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