Robe da chiodi

Che Prado!

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15 capolavori del Prado ad altissima definizione. Andate a vedere che spettacolo sul sito del museo. Qui sotto un assaggio (Raffaello e Dürer). Realizzate con la tecnologia di Google Earth.

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Written by giuseppefrangi

Gennaio 19th, 2009 at 11:41 pm

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Le Corbusier, Matisse e la testimonianza del vero

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le-corbu2Nico, Riccardo, Cristina e Luca hanno portato da Vence un piccolo gioiello: è la lettera che Le Corbusier scrisse a Matisse nel 1953 dopo aver visitato la cappella di Vence. È una lettera piena di stupore e di gratitudine. Eccone una trascrizione (con qualche parola d’incerta interpretazione):

«Caro Matisse, sono andato a vedere la cappella di Vence. Tutto è gioia e limpidezza e giovinezza. I visitatori, per uno slancio sponetaneo, sono rapiti e affascinati. La vostra opera mi ha dato uno slancio di coraggio – non che me ne manchi – ma ho riempito le mie otri. Questa piccola cappella è una grande testimonianza: quella del vero.
Grazie a voi, una volta di più, la vita è bella. Grazie. A voi il mio ricordo più amichevole.
Le Corbusier».

Colpisce come le biografie di due giganti del 900 s’incrocino in questo luogo piccolo, nato quasi per una coincidenza fortuita («Questa cappella non sono io  che l’ho voluta, è venuta da altrove, de plus haut que moi»). Un luogo che non ha nessuna pretenziosità né culturale, né spirituale. Come dice sempre Matisse di questa cappella, è «un fiore»: «Un giorno sono entrato a Nôtre Dame e sono rimasto impressionato dalla folla, dai canti, dalla solennità. E mi sono detto: in confronto cos’è la mia cappella di Vence? È un fiore.Non è che un fiore. Ma è un fiore» (8 marzo 1952). Come un fiore, è nata da sola: «È curioso: ero guidato non guidavo io. Io non sono che un servitore». Sono meravigliose le riflessioni di Matisse sulla cappella (contenute in Ecrits et propos sur l’art, Hermann). Quando Picasso gli contesta la decisione di fare arte religiosa («Picasso era furioso che io facessi una chiesa»), non si scompone: «Io gli ho detto: faccio la mia preghiera, e voi pure e lo sapete bene: quello che noi cerchiamo di trovare con l’arte, è il clima della nostra prima comunione».
Ha ragione Le Corbusier: la grandezza di Vence è nella sua piccolezza, nella sua semplicità e leggerezza. E fa pensare il fatto che un’intelligenza dall’ambizione colossale come quella di Le Corbusier, si chini sulla bellezza umile e architettonicamente anonima (uno stanzone con i muri squadrati) della cappella di Vence. È una spia del cuore, della tensione vera che lo muoveva.
Ultima riflessione: nel rapporto con l’arte, la chiesa di oggi si barcamena tra ripiegamento sugli stereotipi del passato, sudditanza verso le mode spiritualiste del presente e qualche tentativo di quadratura teologica. Invece deve far pensare come a Vence si sia messa in movimento un’altra dinamica: una grazia che ultimamamente apre soluzioni e esiti imprevisiti. Un fiore. Matisse: «C’è bisogno di un coraggio per l’artista, che deve vedere le cose come le vedesse per la prima volta: bisogna vedere ogni cosa per tutta la vita come quando si era bambini».

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Written by giuseppefrangi

Gennaio 18th, 2009 at 2:32 pm

Caravaggio, cena contro cena

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caravaggio-supper-at-emmausCon il volano mediatico di Caravaggio si cerca di rilanciare la vecchia e gloriosa Pinacoteca di Brera. È arrivata la Cena in Emmaus dalla National Gallery di Londra ed è stata messa al fianco di quella che dal 1939 fa parte dei tesori del museo milanese. Tra l’una e l’altra ci sono circa sei anni: la prima è stata dipinta a cavallo del cambio di secolo, l’altra (quella milanese) dovrebbe essere il primo quadro dipinto nel 1606 dopo la fuga da Roma per il delitto commesso. Anche l’impostazione della composizione è molto simile. Eppure i quadri sembrano lontani decenni uno dall’altro. La biografia di Caravaggio vive di accelerazioni violente, di strappi implacabili. Nella Cena di Londra siamo davanti a un Caravaggio olimpico, con un passo trionfale. Realista, ma anche teatrale. Con quell’effetto riflettore che alza la tensione sulla scena, e quel cesto in bilico in primo piano, che è una spericolata prova di bravura. È un quadro, che ha un che di clamoroso nel suo dna, che intercetta l’impeto e lo supore di quel momento, che sfonda il velo della normalità. Il discepolo a braccia spalancate è un capolavoro che sullo slancio fa sobbalzare il cuore anche dell’ignaro osservatore di oggi.

2006924172118678Sei anni dopo invece la stessa stanza si è ammutolita. Il punto di vista del pittore è un po’ più ribassato. Il muro è tutto nero. Ogni riflettore è stato spento. L’atmosfera ha la mestizia della normalità, il suo tono polveroso, immutabile nel tempo. Caravaggio si è lasciato alle spalle ogni baldanzosità giovanile e si inoltra nell’ultima cupa e drammatica fase della sua vita. Non è più il tempo degli entusiasmi: è un Caravaggio che non fa più sconti, che non cerca più scorciatoie, che non accende più la tenebra del reale ma sembra subirla. Persino la tavola si è immesirita, e le vivande sono all’essenziale. Quella stessa realtà che aveva incendiato di invenzioni nella galoppata dei suoi anni giovanili e della maturità, ora pesa come il piombo. È una coltre fatta di fatica, e di zone d’ombra impenetrabili. Il destino della storia dell’arte, lui, lo aveva cambiato: ora la partita è solo con se stesso e con il proprio destino. Caravaggio è entrato nella caverna da cui uscirà solo con la morte. Ma quant’è grande, e quanto è vero questo Caravaggio che si lascia alle spalle tutti gli effetti speciali!

Written by giuseppefrangi

Gennaio 16th, 2009 at 4:22 pm

Michelangelo non ripete

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ITALY-ART-MICHELANGELO-CRUCIFIXÈ la ragione più che plausibile con cui un personaggio autorevole mi spiega perché il Crocifisso comperato dallo stato italiano ed esposto in questi giorni alla Camera non può essere di Michelangelo. Il Crocifisso resta bellissimo, il tempo è quello (ultimo scorcio di ‘400), ma la mano non è quella. L’idea di “ripetersi” è radicalmente estranea a Michelangelo. Non è tipo da tornare mai sui suoi passi: lo dice a chiare lettere il catalogo della sua opera. Ma lo dice ancor più chiaramente la sua tempestosa natura artistica. Michelangelo è uomo da idee uniche: nessuno lo è più di lui, neppure Leonardo che bissa la Vergine delle Rocce. È un incontentabile, che non conclude. Perché il concludere è un diminuire. E uno che non conclude come può ripetersi?

Post scriptum. Comunque è bellissimo. E mi richiama questo breve passaggio da Passio Laetitiae et Felicitatis, di Testori (è Felicita, davanti al Crocifisso in cui ha riconosciuto immedisimato il fratello morto): «Sarà stato che quella medesima lux o luse dava a quella carna statuaria la tenerezza d’una carna viventa o viva fin a pochissimi minuti prima…».

Written by giuseppefrangi

Gennaio 14th, 2009 at 12:23 am

Mantegnissima

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La mostra parigina di Mantegna si è chiusa superando i 330mila visitatori. Un numero da record.

Nel consueto referendum indetto dal Giornale dell’Arte sul meglio e il peggio dell’anno passato, la mostra di Mantegna è la più votata dagli “addetti ai lavori”: nove preferenze. Secondo Bellini con otto. Terzo Sebastiano del Piombo con cinque. Tra i moderni vince la mostra londinese di Cy Twombly (quattro preferenze). Mantegna tira anche come catalogo (nell’edizione italiana, edizioni Officina Libraria: in vendita scontato sul sito dell’Associazione Testori): è indicato tra le migliori pubblicazioni d’arte dell’anno. Vediamo di tener conto di tutto questo…

Written by giuseppefrangi

Gennaio 11th, 2009 at 2:41 pm

Macugnaga in gloria

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Ogni volta che mi capita di metter piede nella Parrocchiale di Macugnaga, paese alle pendici del Rosa, con qualche centinaio di abitanti, mi viene lo stesso pensiero: perché mai la gente di qui trecento anni fa ha sentito il bisogno di fare una chiesa così maestosa? E dove ha scovato le risorse per tirarla in piedi? Facendo un mero discorso economico, si può pensare che il budget di questa Parrocchiale fosse più o meno pari al pil prodotto dal villaggio. Perché mettere tutte le proprie ricchezze in un bene collettivo ma non destinato a scopo utilitaristico? E che fatica avranno fatto a protar su da fondovalle quelle colonne torrili di marmo nero per gli altari di fondo? E come avranno retto le impalcature alzate ai 20 e passa metri della volta nell’inverno non certo tenero di Macugnaga? E non c’era neppure l’ambizione di apparire, di far girare per le valli e le contrade il nome del paese capace di una simile impresa. C’era un qualcos’altro che oggi sfugge, o quanto meno che ci è radicalmente estraneo. Un qualcosa che ha a che vedere con l’idea che si ha del nostro destino, io penso. Ma ogni cvolta che il 31 dicembre, dopo la messa della sera, sotto quelle volte ascolto il Te Deum di ringraziamento in latino, mi sembra di percepire il senso ultimo di tutto questo. Un qualcosa che ha che fare con la gratitudine e con la gloria.

Comunque la Parrocchiale di Santa Maria Assunta venne iniziata a Macugnaga nel 1709, conclusa una decina di anni dopo. Ha una grande abside e una navata unica con sei cappelle laterali. Venne costruita pur in presenza di un’altra bellissima chiesa, bassa e montana, di origini trecentesche, tutt’ora esistente. Tra le cose belle, c’è l’aquila-basilisco dell’Apocalisse, che regge il pulpito e che accese la fantasia e il cuore di Giovanni Testori.
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Written by giuseppefrangi

Gennaio 10th, 2009 at 3:09 pm

C'è Fontana dietro l'angolo

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Via Senato angolo via Sant’Andrea a Milano. Il palazzo è un edificio noto progettato da Roberto Menghi e Marco Zanuso nel 1947. Ed è noto per i fregi astratti in gres, disegnati da Fontana: li si vedono sotto la serie di finestre, purtroppo schermati da vetri che ne frammentano il ritmo. Ma c’è dell’altro sulla facciata di quel palazzo. E sono quegli elementi sempre in gres che Fontana ha concepito come sottofinestre: camminando li si possono anche toccare o fotografare. Sono lastre molto semplici, di un marrone denso e scuro, pettinate in orizzontale come dei campi arati visti dall’alto sulla loro verticale.

C’è un che di luminoso in questa idea di Fontana. Di molto umano (lui stesso diceva: «… gli architetti, solo occupati nei problemi funzionali e urbanistici e non umani»). Fontana ha sempre questa grazia, che lo porta alle intuizioni più ardite senza mai tagliare i ponti con la concretezza della vita. La sua è un’arte ultimamente inclusiva, per quanto radicale nelle sue opzioni. A questa data lo spazialismo e i buchi stanno per “sbocciare”, ma già qui si vede una propensione di Fontana a uscire fuori dal seminato. Quelle righe così regolari lasciano presentire un percorso che si proietta oltre il confine assegnato. C’è un qualcosa che le fa brillare che che non è in loro ma in ciò che evocano. E poi è bello che siano a portata di mano (come le maniglione delle porte del palazzo, disegnate sempre da Fonatna, nella sua verve più barocca).

Altra perla, al cimitero Monumentale, sempre a Milano. A poche decine di metri dalla tomba di don Giussani, c’è una tomba semplice, davanti alla quale passi via senza quasi accorgerti, la Tomba Rescali (1956), che Fontana ha concepito come un Prato verde (questo è il titolo) in ceramica. Distesa dentro una cornice di granito rosso, c’è questa increspatura di foglie, di fili d’erba e di fiori pallidi. È un piccolo capolavoro di land art, che commuove, perché Fontana ha sempre questa grazia che gli fa intercettare la bellezza in modo facile e mai pretenzioso. E poco importa che il Prato di ceramica sia sempre “sporcato” dagli aghi del pino che lo sovrasta…

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Written by giuseppefrangi

Gennaio 6th, 2009 at 7:53 pm

Bellini pittore non dialettico

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Note romane. Ritorno alla mostra di Bellini alle Scuderie del Quirinale. Colpisce la calma con cui Bellini accetta sempre di arrivare secondo. Non ha mai l’ansia di anticipare i tempi, di innovare e però non ha neppure mai paura ad adeguarsi alle innovazioni in corso. Per intenderci: prima è un mantegnesco intenerito, poi antonelliano senza arbitrarietà, infine giorgionesco senza ambiguità. Come se il veicolo “stilistico” sul quale salire, per lui fosse un problema in seconda battuta. In prima battuta c’era sempre una fedeltà di fondo al proprio mondo e al proprio universo morale e poetico. È un caso abbastanza unico, di un ”secondo” a livello di stile, che non è secondo a nessuno a livello poetico. (Per altro la coerenza data dalla poesia è molto più forte di quella data dallo stile).
Registro anche un libretto di Roger Fry, pubblicato lo scorso anno da Abscondita. Un libretto modesto (lo ammette la stessa curatrice), scritto nel 1899, ma che testimonia un amore profondo del critico inglese per Bellini. Tant’è che nell’ultima pagina centra un giudizio bellissimo (anche lui insiste, quasi sorpreso, sulla “costanza” di Bellini in tanto variare di riferimenti stilistici): «I sentiimenti belliniani, nonostante l’intensità, sono controllati da un giudizio squisito e istintivo, da una ragionevolezza che è essa stessa un sentimento più che da una dialettica… in lui il dolore non è mai disperazione, la compassione non è mai effemminata, l’affetto più tenero non approda mai al sentimentalismo».

Per altro alla lettura del libretto di Fry ci si può consolare: certa superficialità dominante nella pubblicistica d’arte di oggi non è una novità. Fry nel suo discorso cita un quadro dimenticandosi di dire di che quadro sta parlando (è la Madonna delle Alberelle di Venezia) e chiama Isabella duchessa di Mantova, quando, ahinoi, la grande Isabella fu solo “marchesana” (leggete lo stupendo Rinascimento privato della Bellonci).

Written by giuseppefrangi

Gennaio 4th, 2009 at 7:11 pm

La morte-morte di Bill Viola e la morte-vita di Michelangelo

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Note di viaggio romano. Al Palazzo delle Esposizioni, la mostra “estatica” di Bill Viola. Confermo tutte le mie riserve, anzi, se possibile, le incremento. L’apice è nel video Emergence, del 2002, in cui si vedono due donne accasciate ai lati di un sepolcro aperto. Da lì, con lentezza che è la cifra stilistica dell’artista americano, esce il corpo mortalmente bianco di un uomo. Esce facendo strabordare il sepolcro di acqua (tralascio le possibili, e un po’ frustre, interpretazioni simboliche). Le due lo accolgono stupite, ma stabili nel loro dolore. E in effetti l’uomo esce dal sepolcro per andarsi a deporre, morto, nelle loro braccia. Una morte dopo una resurrezione. L’idea più necrofila che un artista potesse immaginare (non accosto i nomi, tanto mi suona davvero blasfema questa messa in scena). Il tutto con una calligrafia di immagini perfette, con ritmo tenuto magistralmente sotto controllo, impaginazione impeccabile.
Ma, come più volte ciascuno ha sperimentato, il Signore è davvero buono. E a poche centinaia di metri dal Palazzo delle Esposizioni, ecco che salta all’occhio il grande manifesto che annuncia l’acquisto da parte dello Stato di un piccolo Crocifisso giovanile di  Michelangelo. È alto poco più di 40 centimetri, ed è in legno di tiglio. È un’immagine che pulisce lo sguardo (in senso molto “fisico”): nella sua perfezione trasmette tenerezza. Verrebbe davvero voglia di accarezzarlo, tanto è l’umano che vibra in quella piccola scultura. Se Viola rappresenta un uomo morto nonostante la resurrezione, Michelangelo fa l’opposto: rappresenta un uomo – Cristo – vivo nonostante sia stato ucciso sulla croce. È un Crocifisso in cui la morte già appare come vinta. Un uomo di passione che riesce a sopraffarti con un abbraccio di speranza. Ed è pur così piccolo…
(la foto di Michelangelo, di Aurelio Amendola nel suo bianco e nero un po’ troppo calligrafico non rende l’idea. Meglio quelle a colori sui manifesti).

Written by giuseppefrangi

Dicembre 30th, 2008 at 1:29 pm

Giacomelli, il fotografo assorbente

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giacomelli27editedLetto il bellissimo libretto di Mario Giacomelli, La mia vita intera (Bruno Mondadori, 2008). Sono dialoghi raccolti negli ultimi tempi di vita del grande fotografo da Simona Guerra, che ne ha curato l’archivio: un’autobiografia leggera, fragile nei riferimenti cronologici, senza nessuna pedanteria com’è nel personaggio. Giacomelli è soprattutto un uomo innamorato delle cose, della vita, delle persone: un puro, un mite che gioca questi rapporti per cercare la verità di sestesso. Segnalo alcuni passaggi straordinari. (Nella foto Giacomelli con la sua Kobell, obiettivi Zeiss Bessa: ha fotografato tutta la vita con questa macchina).

Pagina 39 (capitolo Prime opere): «Penso che ci siano cose che non si possono capire, ma si può essere come carta assorbente messa sopra una macchia. La macchia è sul tavolo, la carta è neutra e vergine; se ce la metti sopra, quando la alzi vedi che sulla carta c’è il segno della macchia, che però rimane sempre anche sul tavolo… quindi rimane sempre lì, come la macchia, ma io ho appreso qualcosa, come fossi una carta assorbente!».

Pagina 74 (capitolo Vita d’ospizio): «La vecchiaia se ci rifletti è la cosa più grande che esista – la gente non riflette su queste cose -, è così vera, forte, così volgare e dolce contemporaneamente, come il giorno e la notte, come il mare e la felicità. La vecchiaia è completa di tutto, perché ha questa forza cui tu non puoi sottrarti e quindi non c’è nessuno, per quanto grande, che possa dire: “Io sono il Papa e non muoio! Io rappresento Dio sulla Terra!”. Eh no,tu muori come muoiono tutti. Quindi la vecchiaia è la cosa più grande che esista sulla Terra».

Pagina 91 (capitolo Una donna, un uomo, un amore): «A me il realismo interessa da morire, mi piace questa corrente, però la mia realtà è sempre deformata. Il fotografo ha sempre bisogno della realtà, non ne può fare a meno, perché lui fotografa quello che sta di fronte, e quello che sta di fronte, in fondo, è reale (…). il mio realismo è molto poetico, nel senso che trascura, va a discapito di alcune cose (…). A me interssa provare emozioni, saper guatdare dentro di me. Mi interssa capire chi sono, cosa voglio in quel momento di fronte a quella cosa, perché sono lì e non là, o perché voglio questo e non altro».

Written by giuseppefrangi

Dicembre 26th, 2008 at 7:55 pm