Robe da chiodi

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Pasqua con Piero e Baxandall

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piero01È uscita la traduzione dell’ultimo libro scritto da Michael Baxandall (l’edizione inglese è del 2003; l’autore è morto nell’agosto delo scroso anno). Il titolo è bellissimo: Parole per le immagini (sottotitolo: l’arte rinascimentale e la critica; Bollati Boringhieri l’editore) Dove quel “per” ha funzione umilmente strumentale. Non parole sulle immagini, ma parole a servizio delle immagini. Quindi non tanto con la pretesa di risolverne gli enigmi, quanto di approfondirne la complessità. L’ultimo capitolo del libro è dedicato alla Resurrezione di Piero della Francesca, il capolavoro dipinto per il palazzo dei Conservatori di Borgo San Sepolcro, con un termine antequem del 1474 e una datazione probabile intorno alla metà del secolo.

L’approccio di Baxandall è condensato in queste quattro fantastiche righe in cui spiega perché il “gioco“ di cercare significati per ogni scelta operata dal pittore è un metodo sviante: «Il problema è che in questo modo, assegnando significati qua e là, un pezzo alla volta, mandiamo in cortocircuito la forza sistemica dell’immagine al cui interno gli elementi singolarmente descritti interagiscono. In questo modo ostacoliamo un possibile superevento pittorico capace di trascenderli». (il corsivo è mio)

Baxandall scava dentro quest’immagine che ha “prospettive disgiunte” tra quella delle guardie in basso e quella Cristo frontale. Coglie particolari carichi di potenza ma oggettivamente spiazzanti dal punto di vista percettivo (come la terza guardia da sinistra che sembra non avere le gambe). Anche Longhi aveva colto questo spiazzamento quando aveva parlato delle quattro guardie come «i quattro spicchi di un frutto»: immagine che rendeva bene la forza di coesine che lega il gruppo e dall’altro rimandava a un principio ordinatore altro. Sono tante le componenti dell’affresco che Baxandall va ad indagare, con il risultato non di risolvere ma di dilatare il senso di complessità di quest’opera.

Ma c’è un punto che riguarda proprio il cuore del dipinto (e quindi la festa della Pasqua). Baxandall coglie nel Cristo risorto «non prospettico che si rivolge a noi» una doppia matrice: «Possiamo vedere Cristo come eroe in posizione eretta o come un personaggio seduto… una delle ragioni per cui il riguardante era pronto a vedere il personaggio seduto, era l’esperienza pregressa di Cristo in Maestà… Si tratta di un’anagogia pittorica, un gioco di immagini da pittore invece che un gioco di parole da teologo». Un’opera come la Resurrezione è un concentrato di energia, in cui giocano un’impressionante pluralità di rapporti, per cui solo un individuo «dotato di eccezionali abilità organizzative» poteva tenere la regia. E lo spettatore è come se si preparasse a «danzare con un’agile sconosciuta», tra gli stimoli percettivi molteplici che sollecitano lo sguardo. e cercano scambi continui di energia visiva.

Written by giuseppefrangi

Aprile 11th, 2009 at 3:35 pm

Morandi, «avventuriero dentro» (i pro e qualche contro per la mostra di Bologna)

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Bella recensione di Barbara Cinelli alla mostra bolognese di Morandi su Alias, “Lo sparigliamento del monaco pittore” (sabato 28 marzo). La Cinelli sottolinea, catalogo alla mano, come la mostra bolognese sia stata sacrificata rispetto alla versione  newyorkese dal venir meno di molti prestiti, soprattutto nelle sale iniziali (la cosa curiosa è che si tratta tutti di prestiti italiani). La lettura della mostra avviene sulle tre direttrici dei rapporti di Morandi con altrettanti critici. Longhi, ovviamente, innanzitutto (sua la metafora del monaco, o dell’«austero viandante», «capace di attingere, in forza di virtù proprie alla perennità delle forme»). Il secondo è Ludovico Ragghianti, che raccomandava di guardare alle serie di Morandi come opere allineate in «costellazione», e non come variazioni, termine che allude all’esistenza di un prototipo e di una gerarchia a scendere (la forza della mostra è quella di aver seguito questo criterio espositivo). Infine Francesco Arcangeli, dalla cui collezione viene una cupissima, stupenda Natura morta con conchiglia non presente, chissà perché, in catalogo: Arcangeli cerca di piegare Morandi verso l’informale, facendo del male a se stesso come dimostrò la sfortunatissima vicenda del suo libro. Ma ci colse nel sorprendere l’“emilianità” di Morandi, come succede nel ricordo delle ripetute visite con il pittore alla mostra di Guido Reni del 1955. Morandi restava incantato, riferisce la Cinelli, «a guardare i grigi argentei, i banchi, le luci diafane, la capacità si orchestrare i toni in atmosfere di raffinatezza estrema, come nella veste dell’angelo che regge il bacile della Circoncisione della Pinacoteca di Bologna». Scrive dal canto suo Arcangeli: «Morandi gioca sui chiari, in questa fase, con un’altezza e una concentrazione, una distaccata ma profonda poesia, da richiamare per analogia, non per discendenza, quel raro, grande pittori di toni argentati che fu Guido Reni».

È senz’altro una chiave per capire le ultime due sale della mostra, le più belle e anche spiazzanti. Per le quali la Cinelli rimanda a una bellissima frase del Tonio Kröger. detta alla sua amica Lisaweta: «Come artisti si è fin troppo avventurieri dentro».

Nell’immagine Natura morta con drappo giallo, 1924, Collezione Longhi, presente alla mostra.

Written by giuseppefrangi

Marzo 29th, 2009 at 10:05 am

Caravaggio “oggi”

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Perché un artista di 400 anni fa, che ha dipinto una soggetto che oggi, in pieno analfabetismo religioso, poche persone riconoscono al primo colpo, riesce a esercitare un tale fascino sul grande pubblico? C’è solo una risposta plausibile. E l’aveva data Roberto Longhi, nell’introduzione al catalogo della grande mostra del 1951 a Palazzo Reale di Milano: parlando dei due capolavori della Cappella Contarelli, Longhi dice che Caravaggio li dipinge come fatti accaduti oggi. E ripete più volte quell’oggi. E per ribadire che quella è la categoria chiave per capire Caravaggio la mette in corsivo. È una cosa che mi commuove ogni volta che apro quel testo.

scan-090211-0006Aggiungo una piccola riflessione. Per Caravaggio il realismo non è il fine, ma il mezzo per riportare tutto al presente. Al suo presente, ma per immediata e contagiosa conseguenza, anche al nostro presente. Caravaggio non si limita a rappresentare delle storie in cui pur crede. Non gli basta. Lui le dipinge come le avesse davanti agli occhi, tanto da essere in grado di seguirne tutti i minimi dinamismi. Così l’esito è sempre di una evidenza folgorante, di una nettezza e semplicità che non richiedono discorsi né spiegazioni. Non che lui non ci metta se stesso, tant’è che mentre nella Cena in Emmaus di Londra scorgiamo un Caravaggio spavaldo e corsaro, in quella di Milano ne ritroviamo uno ben più cupo e drammatico. Ma è proprio l’aver messo se stesso, l’aver calato la propria esperienza in quelle storie che rende tutto assolutamente affascinante e vero. Caravaggio non rievoca qualcosa. Lascia che quel qualcosa riaccada.

Nell’immagine, le mani del discepolo Cleofa nella Cena in Emmaus di Brera.

Written by giuseppefrangi

Febbraio 14th, 2009 at 8:22 pm

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Canova, fu vera carne?

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Con una bella recensione alla mostra di Forlì su Avvenire (martedì 27)Maurizio Cecchetti tenta di riscattare Antonio Canova dal feroce e definitivo de profundis che Roberto Longhi gli affibiò nel Viatico per cinque secoli di pittura veneziana: «Lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all’Accademia e il resto non so dove». Cecchetti tenta il recupero, accusando l’obbrobrio di un Canova «cucinato alla Winckelmann» con i restauri alla candeggina dei capolavori dell’Ermitage. All’opposto non c’è Canova senza le patine che stendeva sui suoi marmi per renderli vivi (sino all’aneddoto del rossetto steso sulle labbra di Ebe). «…nelle sue levigatissime sculture, mostrando il marmo una leggera vena, ecco che lui, disperato, la copre con le patine, perché la bellezza della carne gloriosa, la carne del paradiso deve essere più desiderabile della carne terrestre». La chiave di lettura è suggestiva e intellettualmente generosa. Ma a me resta una invincibile ritrosia davanti a Canova. Le mani non affondano mai nel marmo come se fosse carne. Tutt’al più danzano. Della carne scorgo solo un simulacro. Canova si tiene sempre fuori con un’abilità e un eclettismo invidiabili. Molto più vicino a Jeff Koons che a Bernini. E son certo che se avesse avuto a disposizione la plastica, non l’avrebbe di sicuro disdegnata.
Per dirla tutta, amo più il Canova mattatore culturale tra papi e imperatori che il Canova scultore (e poi non riesco a perdonargli l’idea tetra delle tombe a piramide in cui, tra l’altro, è finito anche il suo cuore…)

canova_grazie

Written by giuseppefrangi

Gennaio 30th, 2009 at 12:19 am

Se un architetto entra nella taverna di Emmaus

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londrabrera1A proposito delle due Cene in Emmaus di Caravaggio, esposte a confronto a Brera, ho ripescato un breve saggio scritto da un non addetto ai lavori, Luigi Moretti, nel 1951 sulla rivista Spazio. Moretti entra nei quadri di Caravaggio con l’occhio che gli pertiene, quello dell’architetto (è stato un grande architetto: guardate il meraviglioso palazzo-prua “incagliato” in Corso Italia a Milano). Quindi il primo fattore che lo calamita è quello dello spazio. Le differenze, tra le due Cene, anche da questo punto di osservazione si fanno sostanziali. La Cena di Londra (immagine a sinistra): lo spazio qui è condizionato «dall’addensamento allucinante di realtà in alcuni punti… Addensare la realtà vuole dire stringerne la potenza in aree possibilmente limitate e riassuntive. Ed ecco in Caravaggio comparire alcune figure di taglio, si ricordi la Cena di Emmaus di Londra, sulle quali la potenza evocativa trova appoggio e densità più veementemente che nelle figure frontali; in una spalla di taglio si nomina un’intera struttura umana, in breve spazio si concentra un mondo… perforando lo spazio nel senso dello sguardo e non più fermandolo con apposizioni frontali». Sulla Cena di Milano (a destra) invece  plana un’idea di spazio che segnerà tutto l’ultimo Caravaggio. Moretti la identifica così: entra in gioco «l’indipendenza, la casualità del perimetro del quadro rispetto all’ordine della figurazione contenuta. Ricordiamo al proposito, la notazione elegantissima del Longhi sulla forma del perimetro del quadro, che vorrei traslare in forme definita da un’equazione che lega il campo magnetico interno al perimetro con il campo del mondo esterno in cui è immerso». Dallo spazio serrato e convulso della Cena londinese, si passa allo spazio calmo e dilagante oltre la tela della Cena milanese. Intuizione davvero profonda.

Written by giuseppefrangi

Gennaio 21st, 2009 at 11:57 pm

Exit Morandi (in mare aperto)

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Nel video che accompagna la bella mostra di Morandi a Varese, è compreso un documento straordinario: è il commiato che Roberto Longhi registrò davanti alle telecamere dell’Approdo il 28 giugno 1964 alla notizia della morte del pittore. Il testo divenne l’editoriale di Paragone  (n. 175) e oggi , con il titolo Exit Morandi, chiude il Meridiano che raccoglie i più importanti scritti di Longhi. Ma è un testo abbreviato da cui è stato espunto un passaggio che invece mi ha molto colpito. Il Longhi televisivo in un inciso parla di una grandezza “non gozzaniana” di Morandi. Forse per rispetto a Gozzano  ha voluto espungere quel passaggio. Ma quell’inciso è una geniale precisazione di geografia critica. Morandi veniva proiettato su una dimensione internazionale («austero viandante la cui “vox clamantis” raggiungeva anche le plaghe più desertiche dell’arte che gli fu contemporanea»).

Written by giuseppefrangi

Dicembre 14th, 2008 at 10:54 pm

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Bellini, carne e pane

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bellini31Ho contato 23 quadri di Madonne con il Bambino alla mostra di Bellini a Roma alle Scuderie del Quirinale. 23 su 62 opere esposte. In tutto ne ha dipinte più di una cinquantina. L’arte non è questione di numeri, ma in questo caso è difficile non pensare che i numeri non abbiano invece a che fare con l’arte. Una tale frequentazione ha portato Bellini ad avere una tale familiarità con il tema, da lasciar stupiti e commossi ogni volta. La ripetizione infatti non produce stereotipi. E questo è un dato che deve far pensare.

Se si guardano con attenzione queste infinite varianti, si possono notare alcune costanti. La prima è che la Madonna sembra sempre porgere il Bambino, tant’è vero che alcune traslitterano direttamente nella scena della Presentazione al Tempio senza dover cambiare posa. Ogni volta c’è poi il gioco delle mani, che proprio per quanto detto qui sopra, è sempre un gioco delicatissimo: sono mani che proteggono, ma non trattengono. Che toccano il Bambino quasi solo sfiorandolo. Mani amorose e insieme adoranti. Mani trepidanti, ma senza darlo a vedere. Sono mani piene di cautele, consapevoli di quel che stanno toccando. Protettive ma affatto escludenti. La terza costante di questa lunga serie bellinana è il corpo del Bambino. Tantissime volte nudo. Sempre di una tenerezza che non è fuori luogo definire di “un altro mondo”. Se Dio si è fatto carne, Bellini sembra aver avuto il privilegio di sentire il calore di quella carne («per lo cui caldo…», Dante, Paradiso XXXIII). Il privilegio di esserne accarezzato dal fiato. Per questo non teorizza ma testimonia con la sua pittura. La sua è pittura che si fonde con quella certezza percepita, incontrata, riconosciuta. Pittura che si fa carne, allo stesso modo del farsi del pane (“pane disceso dal cielo”, Gv 6,51). Bellini non si sovrappone mai con le sue intuizioni intellettuali. Si lascia ogni volta prendere per mano. In questo è davvero inarrivabile.

La mostra di Roma (ci tornerò) è bella soprattutto per questa straordinaria serialità. Un appunto: Mauro Lucco, il curatore,  nella sua furiosa (e a volte persin divertente) vis antilonghiana, accusa Longhi di aver attribuito a Bellini una matrice neobizantina. Ma se questa serialità avesse invece proprio una radice bizantina? Queste Madonne sono come icone tolte dalla teca, scongelate e riportate alla vita. Icone strappate all’apnea ma mantenute nella loro dimensione d’assoluto (non lo dico io, lo dice in una scheda nel catalogo Peter Humfrey, uno dell’equipe del furioso Lucco…).

Ho la presunzione di pensare che questa sia la migliore chiave critica (cioé intellettualmente affidabile) per approcciare Bellini. Oppure datemene voi un’altra…

Nell’immagine, Madonna che regge il Bambino in grembo, Roma Galleria Borghese (n.60 del catalogo della mostra romana)

Written by giuseppefrangi

Novembre 19th, 2008 at 1:55 am

Caravaggio, questione di sguardi

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Dopo tanti anni di nuovo a Genova, a Palazzo Bianco, davanti all’Ecce Homo di Caravaggio. Dell’allestimento delicato e perfetto di Franco Albini restano solo poche reliquie, ma una di queste tocca proprio al capolavoro: la parete con lastre di granito che gli fa da sfondo. Dobbiamo a Roberto Longhi e a Caterina Marcenaro, la mitica direttrice delle Bella Arti a Genova, la riemersione di quest’opera abbandonata tra uffici, magazzini e sottotetti e tenuta in condizioni penose sino al 1954. La Marcenaro si accorse che non era un quadro qualunque. Longhi la pubblicò, senza incertezze sull’autografia caravaggesca, su Paragone nel febbraio 1954. Il quadro ha un’evidenza clamorosa nella sua semplicità: tre personaggi, su tre piani, dietro a una balaustra. C’è un Pilato senza tentennamenti che mostra al popolo (che siamo noi, aldiqua della balaustra), un Cristo di struggente dolcezza e remissività. Dietro lo sbirro regge il mantello e guarda la vittima con l’abitudinario disprezzo. Ma basta una lettura epidermica del quadro per accorgersi come Caravaggio condensi genialmente la scena nel gioco degli sguardi. C’è lo sguardo di Pilato, sgranato, potente, aggressivo. Lo sguardo di uno che sa quel che vuole e che ruba la scena (nel senso letterale, perché a differenza dell’iconografia tradizionale conquista il primo piano). E c’è il non-sguardo di Cristo. Che sta con la testa china e le palpebre abbassate, un passo indietro. Non li vediamo gli occhi di Cristo, emblema di innocenza. E a memoria non ricordo un’immagine simile. La voracità di Pilato contro il silenzio denso d’obbedienza di Cristo. Non si poteva pensare nulla che potesse restituire con più definitività l’Ecce Homo.

Longhi poi aggiunse un’altra ipotesi tremendamente suggestiva. Pensò che nel Pilato Caravaggio si fosse rappresentato, e portò una serie di credibili analogie somatiche con effigi note del pittore («la somiglianza profonda delle orbite incassate, delle palpebre spesse come di cuoio, delle sopracciglia rialzate quasi per orrore fisso…»). Portò allo scoperto un altro particolare che poteva confermare la sua ipotesi: le mani di Pilato sono nella posizione di un pittore che si fa un autoritratto, la sinistra che tiene la tavolozza, la destra che con il pennello s’appresta a dipingere il «torso di Cristo che sboccia intatto e virginale, come dal mallo, una scultura arcaica». Il tutto senza una briciola di compiacimento. Chiude Longhi: «Anche per noi oggi, è pur questa l’iilusione di realtà intrepida e straziante che promana dall’Ecce Homo ritrovato a Genova»

Written by giuseppefrangi

Novembre 4th, 2008 at 12:04 am

Bellini in periferia

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Mi ha commosso vedere spuntare sull’invito di una mostra che si terrà alla Pinacoteca provinciale di Bari il volto di questo San Pietro Martire di Bellini. La mostra viene organizzata in occasione del restauro della tavola. Dobbiamo immaginarla nelle sue dimensioni ragguardevoli: 194 x 84 cm. Non era la prima volta che Bellini affrontava san Pietro Martire: lo aveva fatto in quel “verde” capolavoro con la rappresentazione della scena del martirio, oggi conservato al Courtauld Institute di Londra. Intorno al 1487 questa tavola di Bari, anche firmata “Ioannes Bellinus”, venne imbarcata da Venezia e raggiunse le coste pugliesi per arrivare alla sua meta, la chiesa di San Domenico a Monopoli (Pietro Martire era santo domenicano). Oggi “riappare”, con questo suo volto di un patetismo solenne, con questa dolcezza potente negli occhi. Come disse Longhi: «Una calma che spazia tra i sentimenti eterni dell’uomo: cara bellezza, venerata religione, eterno spirito, vivo senso».

La mostra apre l’11 ottobre, con tanto di catalogo per illustrare il restauro e di convegno con intervento di Carlo Bertelli, su «Giovanni Bellini dalla laguna all’Adriatico».

La mostra romana di Bellini oggi è oggetto di una bella recensione di Maurizio Cecchetti su Avvenire.  Ancora una volta Mauro Lucco, che avvea già curato la mostra su Antonello sempre alle Scuderie del Quirinale, usa dell’occasione per attaccare la lettura di Longhi («L’argo­mentazione del Lucco è serrata, si abbandona in certi momenti a u­na prosa sarcastica e stucchevole»). Ancora una volta nel mirino è la centralità di Piero della Francesca, affermata da Longhi e già spiegata da Ferdinando Bologna. Scrive Cecchetti: «Ferdi­nando Bologna dava di ciò una spiegazione apparentemente lo­gica, ma certo non meno ipoteti­ca della stessa forza argomentati­va della prosa longhiana: “Il pro­blema dell’orma di Piero non è già di natura appunto morfologica e grammaticale, bensì di ordine sin­tattico e strutturale” . È come so­stenere che Piero rivive in Bellini per un transfert che si palesa nel­la mente dello spettatore quasi per telepatia. Va invece colta la pre­gnanza del discorso longhiano, considerandone le forzature di ta­glio ideologico- critico, come quando per vedere in profondità occorre sfocare il particolare in primo piano».

Written by giuseppefrangi

Ottobre 7th, 2008 at 8:22 am

Bellini vs. Mantegna

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In un’intervista Giovanni Agosti, principe dei mantegnisti, ammette che per lui Bellini è più grande. I due, si sa, erano cognati avendo Mantegna sposato la sorella di Bellini, Nicolosia. E i due sono d’attualità per le due mostre in corso: Mantegna a Parigi, Bellini alle Scuderie del Quirinale. Il confronto, in effetti, è roba sulla quale si potrebbe scrivere un libro. Roba tra arte e psicoanalisi. Per capire il mondo di Bellini bastano le parole di Longhi nel Viatico (1946): «…accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia, e il manto della natura; accordo tra le masse umane prominenti e le nubi alte, lontane, e cariche di sogni narrati», e così via… (ma su Bellini l’aveva detta giusta anche Marco Boschini a metà ‘600: «Zambelin se puol dir la primavera… e senza lù l’arte in inverno giera»). Su Mantegna valgono gli aggettivi di Agosti: sdegnoso, eroico, di legnosa risoluzione, visionario, pittore di testa, classico moderno. In sintesi: “ne cherchez plus mon coeur”.

Sono due polarità opposte. Mantegna testardo, solitario, furente pur nella glacialità del suo archeologismo. Non sente ragioni né voci fuori da lui. L’arroccamento a Mantova sembra quasi un volersi togliere dal dovere di fastidiosi confronti. La mischia o le contaminazioni non sono cose per lui. Il suo è un orizzonte mentale, ma capace di una energia visiva impressionante.

Bellini è il rovescio. S’imbeve di tutto, senza per questo venir meno alla sua grandezza. È femmineo. È un ricettore senza complessi. È un grande che ha la coscienza di essere relativo. È internazionale senza togliere nulla alla sua provincialità. Da Bellini siamo tutti a casa. Con Mantegna siamo tutti su un ring. Da Bellini carezze, da Mantegna pugni. Bellini è la luce del tramonto. Mantegna ti bombarda con il suo un accecante riflettore mentale. Bellini è tenero come una guancia. Mantegna è come una scorza indurita dal corso dei millenni. Bellini è il fremito del presente, Mantegna ha incatenato il tempo. Bellini è collinare, Mantegna è tellurico…

Chi ne ha più ne metta… Sarebbe da farci un referendum: belliniano o mantegnesco?

Written by giuseppefrangi

Settembre 29th, 2008 at 12:21 am