Robe da chiodi

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La sensualità di Cézanne

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Come si direbbe nel gergo calcistico, in occasione dei sorteggi per la Champions, ad esempio, Milano è una città di terza fascia. La mostra di Cézanne ospitata in queste settimane a Palazzo Reale è una mostra modesta, frutto di una pur generosa intuizione, ma con una fragilissima idea alle spalle. Di Cézanne abbiamo visto almeno quattro mostre di alto o altissimo livello negli ultimi anni. La straordinaria Cezanne finished-unifinshed a Vienna (2000); le due mostre per il centenario a Parigi (Cézanne e Pissarro) e ad Aix and Provence (Cézanne e il Midi) e infine Cézanne and Beyond, a Filadelfia due anni fa. Tutte mostre dettate anche dal’idea di far avanzare in qualche modo la conoscenza e gli studi su questo pittore cardine della modernità. Ovviamente non è il caso della mostra milanese, ma è inutile infierire. Basta sapere che siamo in terza fascia…
Comunque Cézanne è sempre Cézanne e nella scelta delle opere portate a Palazzo Reale c’è una serie di acquerelli conservati al Dipartimento di Arti Grafiche del Louvre, quindi difficilmente visibili, che da soli meritano la mostra. Sono tre “interni”: una serie di vasi di fiori, un interno con un grande tendaggio e una natura morta con mele, pere e una pentola. I primi due degli anni 80, l’ultimo invece a cavallo del secolo. Vedendoli mi sono chiesto se davvero le chiavi con cui ho sempre approcciato Cézanne fossero sufficienti per darmi ragione della sorpresa che questi tre acquerelli mi hanno riservato. E mi sono dato un tentativo di risposta: in Cézanne gioca anche una golosità del reale, inversamente proporzionale alla complicata riservatezza del personaggio. Mi spiego: Cézanne si rivela pittore di una sensualità potente e inaspettata. Le sue mele sono da toccare. O meglio ancora da tastare e palpare. Riempiono le mani, mi verrebbe da dire. Hanno forme che richiamano corpi nella loro pienezza. Hanno l’allure potente di chi non censura nulla del reale. I vasi di fiori hanno una prorompenza mediterranea. La tenda si apre su un interno vuoto ma denso di respiri e di vita. Forse non si spiega pienamente Cézanne se si censura quest’attrattiva sensuale che il reale esercitava su si lui. Che poi lui la controllasse con la disciplina mentale propria dei grandi, e con l’energia morale che lo contraddistingueva, non è affatto cosa che contrasti. Ma si ha una percezione più esatta di Cézanne se si tiene presente questa golosità potente che il reale accendeva in lui e che lo attira sin dentro il cuore del reale stesso. Le mele non sono solo forme, volumi (il famoso “cilindro, sfera, cono”): sono polpa.

Qui leggete il grande articolo di Testori sull’altrettanto grande mostra parigina del 1978 sull’ultimo Cézanne.

Written by gfrangi

Ottobre 25th, 2011 at 8:03 am

Ci vorrebbe un workshop su e “con” Leonardo

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Ieri incontro su Leonardo e l’acqua al Diocesano. Tanta gente, oltre ogni mia aspettativa. E tanta gente che vedevo stupita del racconto assolutamente elementare che ho provato a tracciare sul tema. Un’esperienza che mi ha portato a capire alcune cose. La prima: Leonardo è uno dei pochissimi grandi del passato che noi viviamo come un file ancora aperto. È uno che non ha mai chiuso i conti, per questo ce lo ritroviamo più vivo che mai davanti a noi. La seconda: che Leonardo è un genio dell’osservazione. Osserva e poi descrive con tutti gli strumenti che ha a disposizione: dal disegno alla parola. In questo è davvero sistematico. La terza: è un genio frammentario. Leonardo vive con il taccuino in mano e raccomanda ai suoi allievi di fare altrettanto. Un modo per annotare e approfondire la conoscenza degli spezzoni di realtà che incontra. Ma i taccuini non diventano mai trattati. Non vengono mai sistematizzati in un insieme. Per questo ci lascia in eredità un’immensa quantità di file aperti. Davvero come l’acqua “non ha mai requie” (parole sue). La quarta: guardando vicino, osservando l’infinitesimale, aveva una capacità di visione che ancora lascia affascinati. L’osservazione circoscritta diventa con lui un metodo per spalancare orizzonti. La quinta: l’osservazione ha una mortivazione nella ricerca di verità. Rimando alle grandi parole di Gadda: «Fantasioso, certo, può dirsi il suo peregrinante ingegno, in quanto precorre bene ogni possa dell’arte ( nel senso di tecnica) e del secolo suo: ma da qui, questo riscontro, appare anche confermata una misura di ragione, un rigore dell’osservazione: una conoscenza faticata e vissuta, e infine propria, di molte cose della natura. Non arbitrio o gioco: ma un lento cammino della indagine, verso lontane, forse, ma già intravedute verità».
Bisognerebbe davvero riaprire il file Leonardo. Il libro di Ballarin offre l’occasione, oltre che un’infinità di spunti. È il momento giusto (in particolare per Milano) per un workshop su e “con” Leonardo.

Written by gfrangi

Settembre 1st, 2011 at 4:55 pm

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Ancora su Ballarin. Contro la tracotanza dei documenti

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Dal libro di Ballarin su Leonardo a Milano mi sono segnato questa riflessione, pagina 256, a conclusione del saggio sul Ritratto di Cecilia Gallerani (la Dama con l’ermellino).

«Da una parte vedo una disinvoltura, che a volte si esprime con toni di tracotanza, nel mettere sul tavolo i dati storici e documentari, in qualche caso neppure completi, e senza neppure avere fatto il possibile per comprenderne il significato, e comunque sempre con la presunzione di una loro assolutezza, di una loro autosufficienza rispetto alla serie dei documenti figurativi; dall’altra si capisce che lo storico dell’arte non si ritiene più capace, partendo dal documento figurativo correttamente acquisito in campo ad un’analisi formale dell’opera iuxta propria principia ed in relazione al contesto delle altre opere di quell’autore e delle opere degli altri autori che gli stanno intorno, di interferire nella serie storico-documentaria, verificandone la completezza e la plausibilità delle informazioni, interrogando il vuoto che per solito circonda la puntualità del dato archivistico, cioè il tanto non detto – perché interrogarsi sul che cosa il documento non ha detto è il modo migliore per capire il poco che ha detto -, inducendo eventualmente il ricercatore d’archivio ad un nuovo controllo della serie stessa, ed infine, se questo è il caso, procedendo autorevolmente per conto proprio, contro la stessa documentazione archivistica, nella costruzione del risultato».

Postilla: la pagina (241) in cui Ballarin legge l’opera lasciando sullo sfondo i documenti, è una pagina di straordinaria bellezza e un vero “affondo” nella grandezza di Leonardo.

Written by gfrangi

Agosto 21st, 2011 at 10:50 pm

Il Leonardo di Ballarin, un libro che è come un mondo

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Ho approfittato della sosta ferragostana per una lettura che durante l’anno sarebbe complicata: il Leonardo a Milano di Alessandro Ballarin. Ovviamente è solo un inizio di lettura di un’opera immensa (quattro volumi, 2900 pagine, 2700 illustrazioni, 22 chili di peso…). Ho letto le 200 e passa pagine dedicate alla questione delle due Vergini delle rocce e la prima parte della Corte e il castello. È raro che la lettura così specialistica riesca a prendere l’attenzione anche di un non specialista. Ballarin attorno a questa vicenda, che fotografa un momento straordinario della vita di Milano ma non solo di Milano, avanza con una completezza di sguardo che lascia stupefatti. Non lresta inevaso niente e non restano zone d’ombra nel suo percorso. Se è il caso apre capitoli di dimensioni tali che da soli costituirebbero affascinanti saggi (ad esempio quello sul battistero di san Johannes ad fontes a Milano, che sorgeva dove poi Azzone costruì la cappella palatina – oggi san Gottardo in Corte: affondo importante per scavare nelle ragioni e nell’iconografia della prima Vergine delle Rocce, quella parigina. Qui il significato battesimale è molto esplicito).
Ma ci sono due aspetti dello “stile Ballarin” che da profano non specialista mi piace sottolineare. Primo, la scelta di procedere senza note. Tutto è testo, e tutto è necessario. Una scelta inedita, ma che non inficia la leggibilità del testo: infatti il contenuto delle note sono trasformati in incisi che scorrono nella lettura senza soluzione di continuità. La scelta è dettata dall’idea che tutto è necessario per arrivare a uno sguardo completo sulla vicenda. Ma la scelta credo sia motivata anche da un altro fattore, che coincide con la seconda osservazione che da profano mi sento di fare. Si avverte leggendo che Ballarin, mentre scrive, ha davanti una platea di studenti e deve rendere ragione loro, ad ogni passo, delle tesi che presenta. Non c’è spazio per le note mentre si fa una lezione… E Ballarin da questo punto di vista si dimostra un maestro perfetto che usa uno stile piano, un andamento persuasivo, che non lascia ombre nei suoi interlocutori, anche se chiede loro la pazienza di seguirlo nei percorsi che non conoscono scorciatoie. Porta i suoi interlocutori dentro “quel” mondo, passo dopo passo, pensiero dopo pensiero. Mi piace, ad esempio, come a volte gli capiti di infilare nel testo raccomandazioni che sono proprie da “maestro”. Ne ho in mente due.
“Chiunque a proposito, dovrebbe conoscere le pagine nelle quali Pier Desiderio Pasolini, scrivendo dell’adolescenza di Caterina Sforza, racconta l’assassinio del padre, quel giorno, attingendo ai testimoni oculari ed alle fonti: pagine di bellissima scrittura e di forte tensione drammatica” (pag. 293; Caterina è figlia di Galeazzo Maria Sforza, il primogenito di Francesco, ucciso nel 1476).
“… rimando il lettore alla lettera 426 della citata raccolta di Rubinstein, del 18 settembre ( 1479) al medesimo Morelli, dove Lorenzo (il Magnifico), ancora febbricitante per un attacco di terzana, svolge una serie di riflessioni generali sulla nuova situazione che si è venuta a creare a Milano e in Italia con il rientro di Ludovico a Milano. È una pagina che dovrebbe essere antologizzata nei manuali di storia e che tutti dovrebbero conoscere. È una sapienza politica che egli spera di poter mettere a disposizione di Ludovico attraverso il suo ambasciatore” (pag. 285).

Written by gfrangi

Agosto 16th, 2011 at 1:29 pm

Dieci sguardi che mi fanno innamorare di Milano

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Hanno chiesto a Giuliano Pisapia i dieci luoghi di Milano che ama di più. L’outing devo dire è deludente: un po’ scontato e troppo politicamente corrette nelle sue scelte. L’amico no name mi sfida a scoprire le mie carte. Lo faccio volentieri, consapevole di avere un debole: più che i luoghi amo le architetture che li plasmano. Più che luoghi sono punti di vista sulla città, omaggio a quegli architetti che hanno saputo esprimere un’idea così alta, moderna e civile di città. (e manca all’appello uno di questi luoghi, di cui conservo ancora il sapore e l’odore – per via della gomma bullonata: la banchina del Metro 1 alla stazione Duomo, con le linee perfette di Albini e l’helvetica di Bob Noorda. Un vero capolavoro di eleganza in dimensione quotidiana. Tutto saccheggiato. Ci resta solo la foto di Ugo Mulas).
1. Lo stadio di San Siro visto da via San Giusto, con in primo piano la stecca a somma perfetta di quadrati di Figini Pollini e dietro l’immenso vascone di tanti trionfi.
2. Il grattacielo Pirelli visto di spigolo
3. Il Duomo visto da dietro, nel punto in cui via Larga sfiora piazza Fontana.
4. L’uscita da Milano su viale Scarampo con i grandi trapezi di vetro di Gino Valle sulla sinistra. Un frammento metropolitano meraviglioso se avete la fortuna di passare di lì nel pieno di un tramonto.
5. Vialba, dove la strada curva tra il campo Bariviera Tadini e le case di Franco Albini.
6. Corso Italia nel punto in cui irrompe la prua bianca del palazzo di Luigi Moretti.
7. Il chiostro grande della Statale, stando nell’angolo, dove si vede la torre Velasca spuntar sopra i tetti del
Filarete.
8. Il sagrato della Madonna dei Poveri a Baggio.
9. Il porticato di Aldo Rossi al complesso Monte Amiata al Gallaratese.
10. La sala firmata BBPR del Castello, nello snodo che nasconde la Pietà Rondanini alla tomba di Gaston de Foix.
11. Mi permetto di sforare: piazza degli Affari, esaltata nelle sue line dall’innesto della mano di Cattelan.

Written by gfrangi

Maggio 27th, 2011 at 8:57 am

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E Pasolini mise a nudo Milano

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Geniale e corsaro questo estratto di Pasolini su Milano, ripubblicato dal Corriere (è un testo del 1961, che uscì su Paese Sera).

«… una città con una sua grandezza rosminiana confinata nei topai illusti della città. Su questa Milano – che permane, permane – si è sovrapposta prima la Milano della borghesia capitalitica fascista, più provinciale ancora, biecamente sfruttatrice, celebre per il suo cattivo gusto: e poi la Milano della borghesia neocapitalistica, con visuali europee, comprensiva della fatica degli sfruttati, e celebre per il suo buon gusto».(notazione interessante: il buon gusto indiscutibile – basta guardare quel che design, architettura e moda hanno saputo produrre a Milano: forse non c’è città che abbia prodotto tanto buon gusto al mondo – non ha contaminato i modelli di vita. Non è diventato consapevolezza profonda in grado di portare il buon gusto anche nelle relazioni, nei rapporti sociali. Così si capisce con quanta facilità oggi si svenda il patrimonio ereditato da quelle straordinarie officine del buon gusto)

«Tutti i milanesi tendono ad esser biblici, catastrofici, a fare la tragedia dal nulla, a tormentare gli altri. Sono cristiani, cattolici, controriformisti i poveri milanesi. E quindi repressi, e quindi scontenti: e ogni scontento vuole scontenti anche gli altri, detesta l’altrui libertà. Si sono buttati a capofitto nei destini del neocapitalismo, mentre a Roma si vive ancora tra i palmizi, come a Bandung. Dato che sono anch’io, in fondo, come i milanesi, vivo meglio a Roma». (Qui c’è dell’autentico astio. PPP si diverte a rigirare, da vero corsaro, il coltello nella piaga. Ma a Milano i palmizi non crescono, e non soffia neanche il ponentino. E quindi non resta che buttarsi a capofitto. Certo se Milano fosse contenta di se stessa, cioè sapesse – o avesse saputo – andare orgogliosa del proprio pragmatismo cattolico, delle proprie officine del buon gusto sarebbe tutta un’altra Milano).

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Marzo 5th, 2011 at 5:58 pm

La Girardot, meraviglia tra le guglie

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Ieri è morta Annie Girardot. Per me è uno dei volti più indimenticabili della storia del cinema: per la bellezza, per l’intensità umana, per quella sua drammatica capacità di tenerezza. A lei e a Visconti siamo debitori anche di quella sequenza in Rocco e i suoi fratelli che ha consacrato l’immagine del Duomo di Milano come cattedrale-casa, cattedrale-città, cattedrale-piazza. Non esiste nulla di paragonabile nel mondo dell’architettura: non c’è  un’altra cattedrale che si lasci abitare in ogni spazio, come il Duomo di Milano. Non è certo la più bella cattedrale, ma è la più larga, la più aperta al tesssuto della vita che la circonda. Un tutt’uno tra le pietre e le persone. Stessa famiglia. E nulla meglio di questa sequenza lo testimonia. Riguardatela!

Written by gfrangi

Marzo 1st, 2011 at 9:06 am

Il museo “rinascimentoso” del Novecento

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È un bel colpo d’ala il Museo del Novecento a Milano (qui le foto). Un museo tutto italiano, per nulla spocchioso, un po’ “rinascimentoso” (nel senso di stile Rinascente, che sta dall’altra parte della piazza e che non a caso ha chiamato artisti ad arredare le sue vetrine per questo Natale 2010) con tutte quelle scale mobili, quelle luci sparate, quel variare degli intonaci ai muri, e quel muoversi degli ambienti pensati per non tener sempre desta l’attenzione. Per non parlare di quegli espositori e supporti così spavaldamente plasticosi (del resto il progetto è di Italo Rota, designer di alberghi di lusso). I puristi forse arricceranno il naso, ma questa mi sembra una sfida vinta in nome di Boccioni (pensare che tutti questi meravigliosi Boccioni se sono stati in deposito per vent’anni…), Morandi, Sironi, Fontana, De Chirico, Marini, Melotti, Manzoni per citare quelli che lasciano più il segno.

E poi c’è lo spettacolo di quel che si vede aldilà delle grandi vetrate: una Milano stupenda e finalmente ripulita da troppe superfetazioni (ieri sera le vetrate di Foppa del Duomo si accendevano illuminate da dentro…). Ma tutto ci sta: è un museo che sa un po’ di festa, un’allegra apologia dello spirito migliore della città, che culmina nel grande neon danzante di Fontana, guizzo di felicità davanti alla bellezza delle pietre respiranti del Duomo.

È buona cosa poi che a dirigere il museo non ci sia uno dei soliti guru-curatori, ma una funzionaria ostinata, che dopo anni di precariato ha colto l’occasione della vita con passione. Se possiamo fare un appunto a Marina Pugliese, ci sono quelle sale troppo larghe (anche nella scelta degli artisti, a volte) verso la fine, che contrastano con quelle troppo stipate dell’inizio del percorso (la serie straordinaria di Boccioni avrebbe meritato più enfasi: è il vero tesoro del museo).

L’arco teso tra Boccioni e Fontana, prima sala e ultima del percorso dentro l’Arengario (poi si entra in Palazzo Reale), è un arco esaltante. C’è una dimensione comune di persone che scorazzano per la realtà, che, senza nessuna prosopopea, mettono sul piatto invenzioni epocali, con l’aria di far semplicemente della normalissima routine. La novità svuotata di enfasi. Boccioni e Fontana non guradano dentro, ma guardano fuori, anche quando uno dei due dipinge gli Stati d’animo. L’idea germinale di opera che entra nello spazio di Boccioni diventa idea compiuta nel concetto spazioale di Fontana. In un caso e nell’altro c’è una certezza di fondo: l’affidabilità dello spazio, che non è affatto un vuoto ma un “diversamente pieno”

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Dicembre 6th, 2010 at 11:27 pm

San Carlo, centimetro per centimetro

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Oggi festa di San Carlo. Ci sono pochi santi di cui ci è rimasta così impressa la faccia. È una memoria forte che si è tramandata di sguardo in sguardo a partire da quelli che ebbero la fortuna di vederlo con i loro occhi. È una memoria quasi fotografica, tanto i lineamenti si sono tramandati con riferimenti certi: le due vistose vene pulsanti sulla fronte, il naso magro e ricurvo, le pieghe attorno alla bocca, le grandi orecchie, una pelle che aderisce alle ossa, gli occhi incavi e profondi. È una immagine così forte da reggere anche all’inevitabile processo di edulcorazione iconografica iniziata dopo la canonizzazione. E l’immagine è quintessenza della persona: ci dice chi era stato San Carlo. Ci dice della sua energia umana, di quella carica drammatica che si traduceva sempre in azione. È il santo ariete che attraversa un tempo devastato senza illusioni ma senza mai arretrare. Un santo così presente allora tra gli uomini del suo tempo da essere “presente” con un’immagine che conserva la forza di una presenza fisica anche per noi. Il merito, sia detto per onestà, va in gran parte al genio di Tanzio da Varallo che ci ha restituito almeno due straordinari ritratti di San Carlo (naturalmente in azione: comunica gli appestati – immagine a sinistra – e porta la corce con il santo chiodo in processione) che sembrano quasi dipinti a “ricalco” sul corpo del vescovo. C’è la fedeltà folgorante della fotogarfia in quei due quadri, che metto nella lista dei quadri che hanno segnato la mia vita…

Due notazioni. L’ultimo numero di 30Giorni riporta un brano del Cardinal Newman scritto dopo un suo passaggio a Milano, nel 1857. Anche lui folgorato dalla presenza di San Carlo. Sentite cosa scrive: «San Carlo sembra vivere ancora. Tu vedi i suoi ricordi da ogni parte – il crocifisso che fece cessare la peste quando egli lo portò lungo le vie –, la sua mitra, il suo anello – le sue lettere. Soprattutto le sue sacre reliquie: ogni giorno si celebra la messa presso la sua tomba, e puoi vedere questo da sopra. O bone pastor in populo sembra conficcato nella mente da ogni cosa che si vede. Ed è come se ci fosse una connessione tra lui e noi…».

Seconda notazione. I resti di San Carlo sono esposti in Duomo, in occasione dei 400 anni dalla canonizzazione. Dalla cripta sono stati portati all’altare di san Giovanni Bono, altro grande vescovo di Milano. Ha fatto bene Tettamanzi a decidersi per questa esposizione. Un aiuto vero a Milano a capire se stessa. Oggi più che mai.

Written by gfrangi

Novembre 4th, 2010 at 7:06 am

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Cattelan, il bambino che sono io

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Bellissima l’intervista di Francesca Bonazzoli a Maurizio Cattelan, apparsa sul Corriere. Qui la potete leggere in integrale. Io ne ho fatto uno smontaggio a temi (così bella da chiedermi se queste parole non siano un compimento dell’opera stessa. Cioé necessarie alla loro esistenza. Comunque colpisce il venire a galla dell’anima bambina di Cattelan: questa è la sua forza)

Un trittico perfetto «Molti dei miei lavori migliori sono frutto o di errori o di situazioni come questa dove sei costretto a trasformare in positivo gli imprevisti. Alla fine le tre opere che esporrò a Palazzo Reale sono un trittico perfetto, la mia famiglia autobiografica: il padre, la madre e il figlio. Se mi fossi seduto a tavolino non mi sarebbe venuta in mente una mostra così». Ha messo in mostra la sua famiglia? «È una famiglia disfunzionale, come è stata la mia: il padre fa il Papa; la madre sostituisce il figlio in croce e il figlio non riesce a comunicare se non battendo il tamburo».

Il Papa colpito dal meteorite. «La statua di papa Wojtyla è un lavoro del 1999 che era nato in piedi, ma non mi convinceva. A una settimana dalla mostra cominciai a pensare a come distruggerlo. Alla fine mi venne l’ idea del meteorite e fu come un’ illuminazione: capii che avevo abbattuto la figura del padre. Questo è quello che sanno fare i lavori importanti: se io ho avuto un’ epifania, allora può averla anche qualcun altro». Chissà come sarà contento suo padre a leggere questa rivelazione. «A diciassette anni tentai di strangolarlo; fu allora che andai via di casa. Di giorno lavoravo otto ore, alla sera andavo a scuola: niente divertimento. Ma avevo bisogno di silenzio intorno a me: la casa era piccola e noi eravamo in troppi. È stato il cruccio di mia madre che era orfana e ha rivissuto l’ abbandono».

Il bambino che sono io. Il bambino tamburino allora è lei?  «Decisamente: non posso togliermi dalla partita. Penso di essere un caratteriale, forse da piccolo molto più di adesso. Mia mamma, presa dalla disperazione, venne a chiedermi cosa non andava. Mi ricordo mezz’ ora di silenzio dove nella mia testa c’ erano migliaia di inizi di possibili dialoghi che non hanno mai preso forma verbale. Non era solo l’ incapacità di esprimere le mie necessità, era un blocco emotivo. Io non avevo un tamburo, ma usavo il silenzio. Come ho montato il bambino nella sala delle Cariatidi è perfetto: è in alto sul cornicione, solo e distante; c’ è e non c’ è. Non è a livello delle altre figure ma è sospeso nel punto di vista esterno dello spettatore, quello che ho sempre usato nella vita».

Mia madre in croce. Dunque la donna crocifissa è sua madre, quella che non l’ ha mai baciato? «Nell’ arte la donna è la Madonna e la rappresentazione della bellezza, ma nella mia famiglia la donna era sofferenza. Quest’ opera per me non è mai nata come una crocifissione invertita, ma in questo trittico mi sento di giustificarla come la mia visione domestica femminile». Non pensa che il bambino tamburino e il Papa assieme nella sala delle Cariatidi faranno pensare agli scandali di pedofilia che hanno colpito la Chiesa? «Si possono smembrare le opere e dare anche letture di attualità. Però l’idea a monte è unire tre opere che hanno significato moltissimo per me».

Il dito medio a piazza Affari. Si aspetta polemiche come per i manichini impiccati a Milano nel 2004 che furono tolti dopo un solo giorno? «Questa ormai è una mostra certificata e già discussa sulla stampa. Quando andremo a vederla qualcuno si chiederà perché c’ è stato tanto rumore per nulla. Anche la statua della mano in fondo viene da un’ immagine classica come quella della mano di Costantino ai Musei Capitolini. Se non ci fosse stata la precedente avventura milanese sarebbe stata una mostra senza tanti problemi. Quando dicono che sono un manipolatore o un pubblicitario, io dico: voi che fate i giornali, i blog, siete i manipolatori. Io produco, sono gli altri che parlano».

50 anni con i calzoncini corti. Ma lei non era il ribelle dell’ arte? Non le dà fastidio che questa mostra arrivi, come dice lei, certificata? «Non ho mai perseguito polemiche o strategie del ribellismo. Sono felicissimo che il vicario episcopale per la Cultura della diocesi di Milano, interpellato dal Comune per non urtare la Curia, abbia visto quello che in realtà è la statua del Papa: un lavoro spirituale che parla di sofferenza. Il titolo La Nona Ora allude a quella in cui Cristo, sulla croce, chiede al Padre perché l’ ha abbandonato, ma il Papa cadente si aggrappa al crocifisso. Certe cose hanno bisogno di tempo per essere digerite. Forse dieci anni non sono ancora abbastanza». Il 21 settembre compirà cinquant’ anni. Un bilancio? «Mi sento ancora con i calzoncini corti, come se fossi cresciuto durante l’ ultima notte. Sono il primo a essere sorpreso di essere arrivato qui integro».

Written by gfrangi

Settembre 14th, 2010 at 7:35 am