Robe da chiodi

Archive for the ‘Giovanni Testori’ tag

Don Milani e la ragione dei colori

leave a comment

Don Milani, Autoritratto, 1942

Don Milani, Autoritratto, 1942

Vedendo la mostra sul don Milani pittore al Museo diocesano di Milano ho scoperto che era nato 15 giorni dopo Giovanni Testori. E che come Testori in quegli anni tra 41 e 43 si era immaginato un destino da pittore. Per poi, ancora in perfetta analogia, cancellare in un sol colpo quell’esperienza (per Testori era accaduto nel 1949). Certamente don Milani era meno pittore di Testori. Le opere di questa esperienza, per quanto vissuta con grande convinzione (si iscrisse anche a Brera), sono opere alquanto balbettanti. Ed è difficile rintracciarne tracce significative nell’esperienza del don Milani prete, anche se nelle foto e in un filmato lo vediamo alle prese con i suoi allievi muniti di artigianalissimi cavalletti per le lezioni di educazione artistica. Per cui le cose più interessanti sono quelle che spiegano l’uscita dall’esperienza artistica: spiegazioni che rivelano già una lucidità e anche una determinazione che non lasciavano scampo. Scrive al suo maestro Staude, che gli chiedeva il perché del ripensamento: «È tutta colpa tua perché tu mi hai parlato di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come unità dove una parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada». E poi in un’altra lettera a Oreste del Buono (suo compagno al Berchet): «Cominciai ad andare in Duomo perché, come pittore, mi interessava dipingere i paramenti dei proporti in certi riti solenni. Pensai che se esistevano quei colori, doveva esserci una ragione. E la cercai…»
Cercare la ragione del perché esistono i colori (che, dalle tante testimonianze a Don Milani, continuavano a piacere: li segnalava sempre ai suoi ragazzi): ma quello è un compito della vita e non della pittura…
La pittura per don Milani ha quel peccato originale di dar troppo rilievo all’“io”. Lui era tutto il contrario. (Rothko gli avrebbe dato ragione…) «Ad esempio perché teneva sempre la tonaca?», dice di lui un prete amico, don Giubbolini. «La tonaca era un simbolo, perché in questo grande sacco spariva l’uomo, l’uomo-prete completamente coperto dalla tonaca».
Restava spazio per un creare collettivo, come gli accadde quando si decise ad abbellire la chiesa di Barbiana, ovviamente mettendo all’opera i suoi ragazzi che avevano potuto fare un’esperienza in una scuola in Germania, durante la prima gita all’estero. Ne sono venute fuori vetrate più che discrete, realizzate usando solo materiali di scarto. La più bella è la più “donmilaniana”: si vede un monaco in piedi in un prato pieno di fiori, con tanto di aureola; un libro aperto gli copre il volto. Il titolo, bellissimo, lo diede don Milani stesso: il Santo scolaro. Non molto ortodosso, ma a papa Francesco piacerebbe moltissimo…

Written by gfrangi

Giugno 8th, 2014 at 9:26 pm

20 anni dopo, il metodo Testori

leave a comment

Vincenzo Foppa, Polittico, Pinacoteca di Brera

Vent’anni fa moriva Giovanni Testori. Oggi, alle 16, alla pinacoteca di Brera di terrà un convegno a lui dedicato. Si terrà nella sala XV, davanti a questo Polittico di Foppa, da lui tanto amato, e su cui scrisse questa stupenda pagina, all’interno del saggio su Gian Martino Spanzotti del 1958. Stupendo rileggerlo.

Per scendere al concreto dell’esemplificazione, io ricordo come nelle visite che, ragazzo, facevo alla Pinacoteca di Brera, vicino a tant’altre pale, il polittico di Vincenzo Foppa mi desse, e non sapevo spiegarmi come, né d’altronde pago del calore che me ne derivava insistevo nel chiedermelo, l’impressione d’un grande armadio domestico, finito nelle sale d’un palazzo per le strane combinazioni di qualche trasloco o di qualche testamento; un po’, insomma, quello che dalle nostre parti si chiama “ el vesté”. Appetto quello delle opere circonvicine, l’oro dei suoi scomparti mi sembrava, lo ricordo bene, tanto meno lussuoso e tanto più vero da confondersi col colore e la sostanza stessa d’un legno stagionato, che avesse custodito per generazioni e generazioni i corredi di chissà quante spose, la biancheria di chissà quanti parenti e tutto lo strano armamentario d’oggetti e cose che piano piano, col tempo, in quegli armadi va a finire.
Passati i tumulti dell’adolescenza, in cui molte cose m’attrassero senza darmi, non dico la quiete, che forse è un bene impossibile, ma neppure la dolorosa pace di coscienza che dà l’accettazione del reale, e rivisitate quelle sale, l’impressione e con essa quell’immagine mi riapparvero come se risalissero dal fondo della mia stessa esistenza a prendermi per mano in un’onda di commozione; una commozione che mi sembrò allora e mi sembra tuttavia simile a quella che si prova rivedendo dopo una lunga assenza la propria madre.

Written by gfrangi

Marzo 16th, 2013 at 10:24 am

Proviamo a “Rovesciare il 900”

2 comments

«Spesso mi sono chiesto perché la pittura fosse così progredita e perché la letteratura si fosse lasciato tanto distanziare». Lo scrisse Andée Gide nel suo Faux-Monnayeurs. Non ho competenze tali per dire se l’ammissione di Gide corrisponde alla realtà, ma mi piace molto pensare che davvero le arti figurative nel secolo scorso abbiano saputo metter a segno una progressione clamorosa. “Progressione” dà l’idea di un’intensità incalzante di esperienze che portano avanti la storia molto più di quanto si sarebbe potuto immaginare. Progressione è anche una coscienza che si fa sempre più acuta, pur nella molteplicità delle visioni e delle sensibilità. Io penso che, come diceva Testori (che pur è stato amico solo di un pezzo di 900…), l’espressione artistica abbia giocato a suo vantaggio un fattore costitutivo: quello di aver comunque sempre (o quasi sempre) a che fare che l’irriducibile fisicità del manufatto. E quello che poteva sembrare un vincolo si è trasformato in stimolo e fattore di forza.
Insomma, mi piace davvero pensare che il secolo passato sia stato, dal punto di vista delle arti figurative, davvero un grande secolo, forse uno dei più grandi. E che letture complessivamente un po’ “depressive” (venute dopo quelle ideologiche) non tengono conto della quantità di energia e anche di positività messa in campo. Sono letture scontate, stereotipate, che ingabbiano tutto il “nuovo” emerso. Per questo mi è venuta l’idea (e la voglia, soprattutto) di organizzare con l’Associazione Testori e il Centro culturale di Milano questo percorso, e di intitolarlo proprio Rovesciare il 900. È un percorso in otto tappe (la prima lunedì 25), che affronterà con la voce di esperti che hanno accettato questa “sfida” otto nodi (Elena Pontiggia, Marco Meneguzzo, Elio Grazioli, Flavio Fergonzi, Riccardo Venturi, Maria Teresa Maiocchi e Demetrio Paparoni). Avrebbero potuto essere infinitamente di più, ovviamente, a testimonianza di quanta ricchezza c’è stata in questo secolo. Il secolo più irruente della storia artistica. Mi piace provare a rivederlo come secolo vitale, positivo aldilà delle grandi inquietudini che lo hanno percorso. Un secolo che ha nelle Demoiselles d’Avignon la clamorosa porta d’accesso. (nell’immagine sopra, un disegno di Picasso dai Taccuini per le Demoiselles d’Avignon). Un quadro che ha dentro l’energia di una scossa tellurica, un quadro esito di una lotta, un vertice espressivo furioso che ha dato slancio a tutto il secolo. Come se Picasso avesse detto a tutti: si può fare, si può essere assolutamente moderni e assolutamente grandi (quindi anche classici) al livello dei grandi del passato. Cominciamo da lì.

Written by gfrangi

Febbraio 23rd, 2013 at 10:21 am

Testori a Visconti: “Quel Rocco è troppo gesù”

leave a comment

Alain Delon in Rocco e i suoi fratelli

Presentazione dei Segreti di Milano al Castello, per Bookcity (pienone di pubblico). Con me Mauro Giori, bravissimo studioso di cinema, autore di due libri su Visconti, di cui uno su Rocco e i suoi fratelli. Per realizzarlo ha studiato tutti i copioni conservati alla Fondazione Gramsci di Roma. Ce n’è uno anche annotato da Testori, a cui era stato chiesto di sistemare i dialoghi in milanese (il film è tratto dal suo Ponte della Ghisolfa). Lui non si limita a quello e annota ai margini alcune considerazioni. Non gli gira il profilo del protagonista, Rocco Parodi (lo avrebbe interpretto Alain Delon). Dice che è troppo angelico, che sembra non vero. Non lo si vede mai fare cose normali, come mangiare, perdere la pazienza… Ad un certo punto annota: «Deve essere più crapone e meno gesù cristo (in minuscolo)». Giori spiega che Visconti non l’ascolta perché lui aveva in testa un Rocco stile principe Myskin dell’Idiota di Dostoevskij. Altra annotazione sulla scena celebre dell’incontro sul tetto del Duomo tra Delon e Girardot: Testori non voleva il Duomo. Non centrava con quella sua Milano.

Quale fosse la sua Milano è ben chiaro. Una città con una cintura vitale esterna e un grande buco al centro, da sorvolare (sarebbe diventato nucleo dell’apocalisse nel Testori tardo). Notavo nella presentazione, che nel momento in cui T. scriveva i Segreti di Milano, alle spalle di via Mac Mahon già c’era il complesso case Mangiagalli Iacp di Gardella Albini (1953) e nel cuore di Vialba, in via Orsini, la Casa per lavoratori Incis, queste firmate solo da Franco Albini. Case meravigliosamente milanesi, per quella capacità di essere popolari e non massificanti. Quella di Vialba in particolare, con la pianta a “J” e i ballatoi che tagliano il grande angolo, reinterpretazione del tema delle case a ringhiera. Sono case in cui il fattore della relazione tra chi abita è ancora un fattore architettonicamente rilevante. Come nella narrativa di Testori, le case sono palcoscenici che tengono un lato sempre aperto, così le case di Albini tessono dialoghi continui tra chi le abita. Non appartamenti (nel senso etimologico) ma luoghi di continue contiguità.

Written by gfrangi

Novembre 19th, 2012 at 7:03 am

Pedagogia testoriana, all’ombra di Beniamino Simoni

leave a comment

Beniamino Simoni, Il ladrone “linguainfuori", Cerveno

Oggi si tiene la Santa Crus di Cerveno. È una cosa unica che cade ogni 10 anni, una macchina scenica che coinvolge tutto questo paese della Valle Camonica (la Santa Crus non cade tradizionalmente nella Settimana Santa ma a maggio, perché legata alla festa del Ritrovamento della Croce, che nel vecchio calednario liturgico cadeva il 3 maggio). Ma soprattutto la Santa Crus è una sorta di memoria vivente dell’opera di quel grande scultore che è stato Beniamino Simoni. Lui ha lasciato a Cerveno il suo capolavoro, nelle 14 cappelle della Via Crucis allineate ai lati della scala di accesso alla parrocchiale. A quella Via Crucis ho leagto uno degli episodi più formativi della misa storia: ci ero salito con Testori che aveva in programma di realizzare per la Grafo di Roberto Montagnoli un libro che finalmente rendesse giustizia di quel capolavoro. Eravamo saliti con il fotografo e ricordo l’occhio quasi rapace e impetuoso di Testori che suggeriva (è un eufemismo, naturalmente: era una regia che non ammetteva discussioni, la sua) i particolari, e soprattutto il punto di vista da cui riprenderli. La fotografia doveva finalmente svelare la grandezza e l’energia plebea di Simoni, non doveva ammansirla come sin lì si era colpevolmente fatto (e come si sarebbe fatto anche in seguito, purtroppo). Il libro pubblicato nel 1976 è un gioiello, ampio, agile, graficamente impeccabile. Testori riprendeva un primo studio con tanto di campagna fotografica di dieci anni prima. Ma questa volta le dimensioni del volume, la maestria dell’editore e l’osmosi del fotografo di Roberto Pedriali con l’occhio di Testori. E nelle pagine irrompono i volti del popolo di Simoni, presenze che non si possono dimenticare per quel loro concentrato di energia umana. Lo sguardo ravvicinato esalta anche la pasta del legno, lavorato con la sgorbia, una specie di “pellaccia” più vera del vero.
Ma quello che conta è il metodo; l’arte vive perché uno sguardo non banale, intelligente criticamente e capace di immedesimazione (quindi non culturalmente supponente) la fa di nuovo sussultare.
Ecco un assaggio delle parole di Testori:
«…il Simoni, in effetti, non polemizza; si pianta lì, nel bel mezzo del secolo (il 1700, ndr), con le sue zampe da toro testardo e senza requie; si pianta lì e vive; vive e soffre fino all’ultima stilla di sudore e di sangue le presenti e passate sofferenze, ingiustizie, violenze, servitù, turpitudini, fami e vergogne del suo povero, disperato popolo, vive, soffre e constata; e constatando pietoso della sola pietà possibile a quei tempi (che era l’indignazione), una scultura gli cresce nelle mani, potente, tragica, nuovissima (quasi venisse trovata o inventata lì, ecco, proprio lì, a Cerveno, per la prima volta da che l’uomo era uomo)…»

Written by gfrangi

Maggio 20th, 2012 at 11:31 am

Quei dialoghi tra Testori e Arbasino

4 comments

Lunedì 19 marzo Repubblica ha pubblicato nel paginone di cultura un lungo articolo di Alberto Arbasino sulla mostra di Ravenna dedicata al Testori critico d’arte. L’articolo si conclude con una raccolta citazioni tratte da dialoghi che Arbasino ebbe con Testori in diversi momenti e pubblicate in alcuni suoi libri. È una raccolta realizzata con l’acutezza e l’intelligenza caratteristiche dello scrittore di Voghera. Per questo mi sembra importante riproporla.

Alberto Arbasino mentre legge in pubblico il suo Ingegnere in blu

Pessimi i giudizi sulla cultura contemporanea. «Mi pare fatta di piccoli particolari. Non fa che seguire viottoli di piccole esperienze e piccole emozioni. Un fatto privato, insomma. Anche se sembra e afferma di essere molto pubblica. Si vende alle occasioni, continuamente, non ha tenuta. Nessuno di noi è più in grado d’affrontare un argomento totale, pur partendo, come si deve, da un fatto particolare. A questo modo mi pare che si voglia riscrivere il mondo, invece di interpretarlo, dandone tutte le lacerazioni e i nonsensi…»

E da noi? «In Italia la letteratura non mi interessa quando testimonia la sua insoddisfazione e non se suppone di distribuire talismani. Mi pare che si tenda troppo a far credere d’aver tra le mani una giustificazione della vita, una speranza esterna e obiettiva che dia alla nostra vita una ragione sicura. Mentre forse è vero che uno scrittore, per dare veramente una speranza, non deve averne alcuna. O almeno, neanche una che sia sicura e preventiva».

E proprio qui? «L’interesse di fondo, affettivo, per dir così, è per la cultura lombarda. Soprattutto per le sue arti figurative. Sono quelli i miei testi, non è una novità: io guardo i quadri assai più di quanto non legga. Mi paiono sempre più materiati e meno facili a lasciarci adescare dalle chimere ideologizzanti…»

E i tuoi autori contemporanei, quali sono? «In pittura, seppure con molte riserve, Bacon. E comunque Caravaggio è il mio mito di sempre. E Ceruti, il Pitocchetto: per quanto concerne l’umano, l’amore e il sentimento umano, è sicuramente il più grande poeta che sia mai apparso. E quello che forse è stato l’ultimo momento di allarme e ribellione totale nella cultura dell’uomo: il tragico connubio tra romanticismo e realismo che vide nascere Géricault, Delacroix Courbet. E Gros. Quando entro nel salone del Louvre dedicato a quei maestri, ricevo una emozione e una spinta di vitalità incomparabile. È strano, non ci sono che i grandi pessimisti, quelli che vivono di fronte alla morte per farci amare la vita. O per non farcela odiare troppo».

Ma fra gli scrittori? «L’ultimo grande libro che ho letto rimane Sotto il vulcano di Malcom Lowry. Ma in teatro morto Brecht? Prendiamo Beckett: a me sembra più forte nel romanzo. Nel teatro mi pare troppo scopertamente favolistico, troppo esemplificatore.Tutti gli scrittori come lui mancano, secondo me, di quel fondo, di quelle radici e quelle viscere senza le quali ogni sforzo per arrivare a proposte universali diventa astratto. Si ha l’impressione che possa fra tutto quello che vuole, manovrando i suoi manichini per portare una tesi a conclusioni estreme. E poi? Perché non fare i conti con cose più precise? Perché chiamare una certa faccenda Godot e non Dio? A me sembra una soluzione parziale: mentre in Kafka i personaggi chiamati con una certa lettera dell’alfabeto si riepmiono sempre di un certo uomo, quelli di Beckett se ne vuotano continuamente».

Written by gfrangi

Marzo 21st, 2012 at 8:29 am

Le parole che s’incollano ai quadri. Il Ceresa pittore “lenzuolesco”

leave a comment

Ceresa, la manica della Maddalena nella Crocifissione di Mapello, 1641

A proposito di parole che si attaccano agli artisti e non li mollano più, sono quasi spettacolari quelle che Testori incollò al destino Carlo Ceresa, di cui si apre ora una grande mostra a Bergamo. Parole fiondate su Ceresa a 30 anni di distanza le une dalle altre. Più controllate ma comuqnue “definitive” quelle del 1953, dove su Paragone, a proposito dei ritratti scrive: «… da questa accettazione che è sua né più né meno dei suoi personaggi… nasce quella monumentalità urbana che gli è così particolare: non ingrandimento parenetico, ma espansione libera della persona nel proprio ambiente…»
Più libere e immaginifiche le parole usate nel 1983, per la recensione della mostra bergamasca su Corriere della Sera. Ricordando come il padre di Ceresa fosse calzolaio e lui dunque di pelli e di cuoi ne avesse dovuto ben viste passare scrive: «È ben più di un’infantile memoria, … è il luogo d’identificazione del suo croma, diciamo pure la parola, del suo pittorico impasto, non capendo il quale, e prima, non amandolo, poco, credo, si possa capire ed evocare dell’imposto figurale e scenico, in che tale impasto, di volta in volta si realizza». Ma l’apice nella stessa recensione è questo: «…il Ceresa una sua poesia aveva pur saputo crearla: una poesia concreta, familiare, alpigiana, polentesca, cascinesca, catechistica, rosariante, castagnosa, lattea, formaggesca; a questo ci fan pensare, ad esempio, i suoi bianchi… Taleggio della paterna valle se ci sei, batti un colpo!… Il Ceresa non inventò pressoché nulla, ma è la “pasta” che egli impiegò per trasferire le immagini altrui nella sua valle, che risulta una vera invenzione… affinché lei la materia, pur nelle rovine del tempo rivelasse il suo calore lento e profondo, la sua lenta, opaca, ma come lenzuolesca bellezza.
(i corsivi sono miei)

Written by gfrangi

Marzo 9th, 2012 at 6:38 pm

Posted in mostre

Tagged with ,

Testori a Ravenna. Ovvero, Testori nella giusta prospettiva

2 comments

Uno scrocio della sala dedicata a Morlotti

Vista la mostra su Testori a Ravenna. Ecco qualche prima sommaria valutazione.
È una mostra che riesce ad essere compatta nonostante l’arco temporale che deve coprire e la diversità di esperienze e di personaggi che in qualche modo hanno fatto capo a Testori critico e storico dell’arte. Il merito va Claudio Spadoni che ha saputo tenere in pugno la regia senza cedere a compromessi che avrebbero aggiunto poco e avrebbero reso confuso il percorso disorientando il visitatore. In mostre come queste tener presente l’occhio di chi verrà a vedere è preoccupazione giusta e costringe a render chiaro se stessi l’obiettivo. Tante altre volte abbiamo visto Testori in melassa testoriana, qui per fortuna vediamo un Testori affrontato con lucidità intellettuale.

La mostra è anche una mostra ricca, nel senso che è alta la qualità di gran parte delle opere esposte, e nel senso che tante sono le sorprese che il percorso riserva. Soprattutto il percorso non è affatto monocorde: un dato che fa pensare e che sgombra il campo dal “testorismo”…

Il percorso. Apre con il colpo di scena dell’Apocalisse, il grande ritratto (5 metri di base!) che Varlin fece a T. Si intrattiene fugacemente sul nodo culturale degli anni 40 (tra Matisse e Manzù: belli i disegni delle Erbe). Poi si incammina in modo classico e ben recepibile in senso cronologico. Foppa (l’inizio di tutto, lo si guarda con ammirata gratitudine) e Romanino danno il via. Manca il grande Spanzotti, ma c’è un Gaudenzio giovanile che fa per lui… Poi il primo piano segue con 600 e 700, con la lucidità di Tanzio che tiene banco e con il grande cuore di Ceruti che attraversa i secoli: il suo Pellegrino a riposo, che viene dalla Fondazione Longhi, sembra un quadro dipinto per parlarci oggi. Non c’è nessuna paura del tempo in lui. Solo pienezza umana. Il meno per Ceruti diventa un più.
Il secondo piano balza all’800, partendo da Géricault, passando per Courbet per poi transitarci nel 900 con la Nuova Oggettività e un po’ di Novecento italiano. Poi lo snodo svizzero di Varlin e Giacometti. In queste sale lasciano il segno i due Gruber, tesi e come attraversati da un vento di vetro.
Il terzo piano si apre con una sobria selezione di ritratti a Testori (testimonianza dei sodalizi umani che il suo essere critico comunque originava: qui è meraviglioso il ritratto al Testori malato di Rainer Fetting). Segue la “banda” dei tedeschi che negli anni 80 avevano riacciuffato il filo perduto della pittura. Poi arriva il colpo maestro di una grande sala morlottiana, in cui si dimostra quanto sia impropria la dimenticanza calata sul grande lecchese.

Bacon, After Muybridge, man on a rowing machine, 1952

Nelle ultime sale Spadoni ha messo in scena un cannocchiale prospettico che vede da una parte la “larva” del vogatore di Bacon e dall’altra il sigillo di Caravaggio: un’ottima idea che permette, senza muoversi, di percepire il legante tra quelle due figure caposaldo del mondo di Testori. Su quell’asse, oltre alla sala morlottiana, si apre che una sala che ripropone il ritorno della pittura degli anni 80, ancora con (tra gli altri) Fetting, Hoddicke e Paladino e Cucchi. Chiude un malinconico, stupendo, straziante Guttuso: Passeggiata nel giardino di Velate (1983). Un quadro che resta innamorato della vita, nonostante la vita sfugga… Ed è un quadro che invita a passare alla sala finale, dove con un colpo di teatro Spadoni ha scelto di raccogliere cinque artisti totem di Testori, già visti in mostra, ma qui radunati come per un crescendo finale, al massimo registro: la scossa elettrica del Caravaggio collezione Longhi, si accompagna a Giacometti (il dottor Corbetta, dottore anche di Varlin…), Bacon di nuovo, alla inarrivabile Erodiade di Del Cairo (da cui l’avventura del Testori critico aveva preso il via), alle Bagnanti di Morlotti (1988), vero sorprendente colpo al cuore, grande quadro costruito di tra e di sole.

Punti deboli. Ne ho riscontrati solo un paio: troppo esangue rispetto alla centralità che ebbe per Testori la sala di Gèricault. E nella sala della Nuova Oggettività manca il perno: che non poteva essere altro che Christian Schad (ma degli anni giusti).

Il catalogo. Bello nella parte dei saggi, specie i tre più storicizzanti di Davide Dall’Ombra, di Claudio Spadoni stesso e di Marco A. Bazzocchi. Deludente invece nella parte delle schede. Era molto meglio seguire il percorso della mostra piuttosto che presentare gli artisti un po’ scontatamente in senso cronologico (per altro scorrendo il catalogo si capisce come il “flusso” non organizzato avrebbe generato grande confusione nei visitatori. E quindi indirettamente si apprezza ancor di più la mostra). Certo che le riproduzioni…

Qui le immagini della mostra sala per sala.

Written by gfrangi

Febbraio 19th, 2012 at 12:33 pm

Maddalena dorata e alata (Masaccio in rima)

one comment

Esce in questi giorni negli Oscar Mondadori un’antologia delle Poesie di Giovanni Testori. Nella raccolta c’è anche una selezione delle Maddalene, le poesie che Testori scrisse per un lussuoso libro di Franco Maria Ricci, come “didascalie” in versi di alcune tra le più celebri Maddalene della storia dell’arte. Quella per Masaccio la ricordavo come una delle più fulminanti letture, atrtraberso le parole, di un’opera figurativa del passato. Una lettura di una rapinosa sinteticità che restituisce la forza iconica della Maddalena massaccesca (da leggere ad alta voce: la ricordo letta magistralmente da Walter Malosti).

Il sunto,
il punto,
il prima,
l’adesso, il sempre,
il poi.
Non sapremo noi
che faccia hai avuto
mai
né quella che
voltandoti
potresti avere
ed hai.
Solo ci mostri
la nuca dorata-disperata
con ordine – disordine
ravviata – scompigliata.
Quasi alata,
inchiodata
all’Assoluto adorato,
all’Assoluto assassinato,
urlo e silenzio,
carne e scisto
coì vicina a Cristo
che ne senti l’afrore,
che ne divori
l’odore,
preghiera e pianto,
dolore e canto,
l’unico tuo vanto
è di gridare senza voce
santo,
santo!

Written by gfrangi

Febbraio 16th, 2012 at 5:55 pm

Apologia della “renzitudine”

leave a comment

Oggi si chiude la mostra di Lecco, dedicata a Testori e Manzoni. È stata un successo oltre ogni previsione (ieri è stato staccato il biglietto numero 9mila). Ma a parte questo consenso, resta la sensazione di aver realizzato una mostra risucita proprio nella sua idea di base e nel suo dispositivo. La chiave di Testori è una chiave straordinaria per entrare in Manzoni. Il legante è il legante del luogo, concepito e vissuto come punto fisico in cui il destino ti viene incontro con indicibile tenerezza. Il luogo: Lasnigo, per Testori, Lecco alla fine e sempre per Manzoni. Lui lascia Lecco ventenne, un addio per sempre. Ma quel luogo per lui resta il luogo del destino. Mi ha sempre impressionato e commosso come Manzoni rende l’impatto che Lecco ha su Renzo che torna alla fine dell’avventura, capitolo XXXVII dei Promessi Sposi (i corsivi sono miei): «Non era mai spiovuto; ma, a un certo tempo, da diluvio era diventata pioggia, e poi un’acquerugiola fine fine, cheta cheta, ugual uguale: i nuvoli alti e radi stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano; e il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d’intorno. C’era dentro il suo; e quel che sentì, a quella vista, non si saprebbe spiegare. Altro non vi so dire, se non che que’ monti, quel Resegone vicino, il territorio di Lecco, era diventato tutto come roba sua». Tutta come roba sua: segno di un destino compiuto, di un approdo in porto, di una corrispondenza riacciuffata. Non una storia che finisce, ma una storia che può davvero cominciare… Chi non vorrebbe poter in un momento della propria vita dire quel che Manzoni fa pensare a Renzo in quell’istante?

Written by gfrangi

Gennaio 30th, 2011 at 12:49 pm

Posted in mostre

Tagged with , ,