Robe da chiodi

Archive for the ‘moderni’ Category

Van Gogh, quell'alta nota gialla

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Ci sono pochi artisti capaci di suscitare commozione come Van Gogh. La ragione sta in quella sua capacità di mettersi a nudo, di non cercare mai difese né nella vita né nell’arte. In genere diffido dalle mitologie biografiche che si sovrappongono alle opere, ma nel caso di VG le cose funzionano sempre a meraviglia, le parole delle Lettere sono una chiave insostituibile per guardare i quadri.  Proprio per tutto questo un’altra caratteristica di VG è quella di essere materia di passione più per i non specialisti che per gli storici dell’arte.

Lo conferma il piccolo libro appena uscito, scritto da uno psicoanalista, Massimo Recalcati (Melanconia e creazione in VVG, Boringhieri). La  melanconia di VG secondo Recalcati è una melanconia attiva (lettera a Teo: «Le cose misteriose, la tristezza e la melanconia restano ma l’eterna negazione viene bilanciata dal lavoro positivo che in tal modo tutto considerato, si riesce a fare»). La pratica dell’arte come rimedio alla melanconia;  la pratica dell’arte che gli ridà il sentimento della vita. Il nesso tra arte e vita; quella dimensione di fragilità che si travasa dall’una all’altra (VG parla della propria inadeguatezza anche come pittore); la fedeltà assoluta alla realtà; quel senso di purezza che ne deriva: ecco le componenti che in parte spiegano la commozione.

Recalcati segue VG affidandosi alla categoria lacaniana della Cosa, e sono le pagine più belle del libro: la Cosa per Lacan è «un luogo impossibile da rappresentare e impossibile da avvicinare senza  mettere a rischio la propria vita. La Cosa sfugge alle immagini e al linguaggio pur essendo il loro centro esterno… è il reale che eccede la trama immaginaria e simbolica di ogni discorso, che nessuna operazione è in grado di addomesticare». Il vuoto è il nome della Cosa. Ma è un vuoto che incendia. «VG mira a raggiungere il cuore della Cosa, costeggia il vuoto terrificante della Cosa… La barriera che lo separa dall’assoluto della Cosa non lo protegge ma lo soffoca. Esige di raggiungere il cuore della Cosa». Giustamente Recalcati accosta l’esoperienza di VG a quella di Bacon: «Bordare il luogo incandescente della Cosa… questa prossimità perturbante nei confronti del reale».

Il punto di approdo, il luogo della Cosa, è  l’«alta nota gialla» di cui VG parla nelle lettere a Teo. «Avrei voluto dipingere solo il volto dei santi. Nient’altro» (VG, lettera a Teo 344, citata in chiusura da Recalcati).

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Written by giuseppefrangi

Novembre 8th, 2009 at 3:36 pm

Warhol non era uno schizzinoso

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È uscito anche in Italiano America di Andy Warhol. Lo ha pubblicato Donzelli in versione tascabile, ma l’originale (dell’85) era un libro grande così, traboccante di fotografie. Perché Wrahol non era uno schizzinoso…  leggi qui

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Written by giuseppefrangi

Ottobre 20th, 2009 at 10:21 pm

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Se Matisse fosse impazzito sarebbe stato Monet

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Vista la (bella) mostra di Monet a Palazzo Reale di Milano. Qualche considerazione.

Monet e i giapponesi. Chiaro che li amasse, chiaro che il parallelismo proposto nella mostra sia pertinente. Ma poi, se guardi gli esiti, ti vien da dire: che c’entrano? Monet  affonda (nel senso che va al fondo) laddove Hokusai e soci restano sempre rigorosamente sulla superficie. Monet è gestuale, mentre i giapponesi sono zen: non si vede un segno. E allora c’è da chiedersi: perché Monet sentiva oggettivamente tanta affinità. Vedendo la mostra e osservando le date mi sono fatto un’idea. Monet realizza questo suo straordinario forcing finale mentre in Europa ne accadono di ogni. Lui muore nel 1926, s’è visto passare sotto gli occhi i fauve, i cubisti, i futuristi, gli astratti, i surrealisti, i dada e Duchamp… Lui non ha fatto una piega, ma è naturale che cercasse riparo in un altro mondo. Il Giappone è il palcoscenico sul quale lui si sente perfettamente a suo agio a continuare un film che poteva sembrare anacronistico. Quasi un Aventino (ce ne dimentichiamo spesso: ma sino agli anni 50 il Monet ultimo non era affatto considerato. C’è voluta la rivolta rancida degli informali per far capire quanto avesse visto lontano).

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Monet e Matisse. È l’unico parallelismo possibile in quell’Europa travolgente di inizio secolo. Matisse è un altro artista positive-thinking. Non aveva grilli avanguardistici per la tesa: o quanto meno, non erano mai grilli prevalenti. A Milano è esposto un quadro straordinario Les Agapanthes, 1914 (qui sopra), al quale si può riferire un pensiero geniale di Francesco Arcangeli, giustamente riportato in mostra. «Ora se io volessi riassumere l’effetto di un quadro come questo nel suo intero e nel suo particolare, direi che è una sorta di Matisse impazzito. Se Matisse  fosse diventato pazzo avrebbe dipinto un quadro come questo. Non ne ha dipinti. Matisse è grande perché è Matisse, però Monet verso gli 80 anni era tanto potente e tanto presente da dargli risposte di questo tipo».

Le scintille di Monet. Ma Arcangeli ha scritto una cosa ancora più grande su Monet. Un’intuizione chiave per capire le caratteristoiche della sua grandezza. Sentite: «…questa ripercussione della scintilla luminosa su una superficie che è la tela di un quadro, è di una potenza artistica e mentale che a mio parere è paragonabile soltanto all’invenzione della prospettiva in Filippo Brunelleschi ed è altrettanto sconvolgente. Non ha nulla da invidiare all’atto mentale di Brunelleschi… potrà sembrare un fatto istintivo invece riassume, in un battito della luce e dell’ombra, nel quadro immaginato come una finestra sul vero un principio luministico … che è già potenzialmente una visione di ordine universale di ordine cosmico». Una grande lettura che brucia ogni nella lettura istintiva di Monet.

Infine: scordatevi di capire Monet dalle riproduzioni. Ci sono pochi pittori più irriproducibili di lui (a dimostrazione che quella scintilla luminosa ha davvero dentro una potenza difficilmente catturabile). Quando si esce dalla mostra e si sfoglia il catalogo della Mostra (Motta), ti passa qualsiasi tentatzione di comperarlo. Sembra che abbiano messo in pagina un altro pittore…

Written by giuseppefrangi

Agosto 28th, 2009 at 2:51 pm

Delacroix, naturaliter cristiano

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C’è un tratto comune in due libretti che ho letto quest’estate. Sono  Mon Histoire, raccolta un po’ sconclusionata di testi di e su Monet, e Verso l’Immateriale dell’arte, di Yves Klein. Il tratto comune è rappresentato dal comune amore per Eugène Delacroix. Un amore strano, perché a prima vista le relazioni sembrano inconsistenti. Eppure Delacroix ha questo potere, di essere un artista padre, sotto le cui ali ciascuno si sente libero e protetto. Bella, a proposito, la frase di D. che Klein cita nella sua conferenza alla Sorbona del 1959: «Guai al quadro che non mostri niente aldilà del finito! Il merito del quadro è l’indefinibile: ciò che sfugge appunto alla precisione».

20061110164946Ovviamente Delacroix ha attraversato anche la strada della vacanza. A Parigi, per due volte a messa Saint-Sulpice, mi sono ancora una volta lasciato agganciare dai due grandi affreschi del Delacroix estremo. C’è in lui una strana capacità di essere antico senza pregiudicare la propria modernità. Di dipingere quadri sacri in assoluta naturalezza, senza imbarazzi e senza sentirsi un “fossile”. Non lo percepisci mai “obbligato”: lo slancio dell’angelo che punisce Eliodoro, o la grinta del Giacobbe che lotta con l’angelo sono figli di una passione per il mondo, per la vita, per la Chiesa. Nel visitare il suo atelier a Place Furstenberg (chi non sogna un atelier così?) si vede un quadro affascinante. Il soggetto è di quelli che i pittori non dipingono più da 300 anni: l’Educazione della Vergine. La genesi del quadro è emblematica, come racconta Delacroix in una lettera, scritta da Nohant dov’era ospite di George Sand: «Ho visto rientrando dalla passeggiata un motivo superbo per un quadro, una scena che mi ha profondamente toccato. Era una contadina con la sua nipote. Ho potuto guardarle con agio, da dietro un cespuglio senza che lor mi vedessero. Tutt’e due erano sedute su un tronco. La vecchia teneva una mano posata sulla spalla della bambina che imparava con attenzione la lezione di lettura». Da quel “motif” Delacroix trasse il quadro, agganciando lo squarcio di vita al soggetto sacro con assoluta naturalezza. Attorno c’è il consueto “incendio” di cieli e di alberi.

Sempre all’atelier si scopre un’altra vicenda strana. Delacroix nel 1821 aveva dipinto un quadro che era stato commissionato a Géricault, ma di fronte al quale Géricault era rimasto paralizzato. Il tema era la Devozione del Sacro ciore di Gesù e di Maria, destinato alla cattedrale di Nantes. La tela non venne ritenuta adatta e nel 1827 fu dirottata alla cattedrale di Ajaccio. Ma tutti credevano si trattasse di Géricault, perché Delacroix non ne aveva preteso la paternità. L’opera è ancora lì. Nell’atelier se ne vede il bozzetto.

Written by giuseppefrangi

Agosto 18th, 2009 at 11:27 pm

Una bella Biennale, anche troppo per bene

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In genere quando si visita una Biennale dopo qualche settimana dalla sua inaugurazione ci si trova davanti a installazioni in disordine, video non funzionanti: questa volta, invece, si ha una bella impressione di ordine e di rispetto per i visitatori di “seconda classe”. Ed è una bella impressione. Merito di un curatore, Daniel Birnbaum, che ha allestito una Biennale lineare, attorno a un tema chiaro, evocativo ma anche semplice: Fare Mondi. C’è molta multietnicità, nelle biografie degli artisti, scovati con occhio curioso nei laboratori delle grandi metropoli soprattutto europee e latino americane. I big hanno presenze marginali e lasciano spazio al vocìo del nuovo. È una Biennale piacevole, senza quelle sconvenienze a scopo mediatico cui ci aveva abituato. A volte una Biennale un po’ ovvia per questa insistita intenzionalità di fare un’arte che vuole bene al mondo, un’arte a forte vocazione sociale. Un’arte molto orizzontale, che non vuole imporre o proporre idee o visioni, ma vuole solo aprire gli occhi sul quotidiano, tessere rapporti, costruire coesione. È arte al limite, molto consolatoria. Quasi per bene.

djurbergIn questo la Biennale è comunque molto omogenea e trova la sua sintesi più emblematica nella grande installazione, messa proprio al centro del percorso dell’Arsenale di Pascale Marthine Tayou. Un artista già molto noto nel circuito, nato a Yaoundé, in Camerun, operativo a Bruxelles, che  ha messo in scena una sorta di villaggio tribal-globale, popolato di rumori, di immagini, di capanne, di figure, attraversato dai segni di traffici illeciti, con una discarica alle porte. Ma tutto sommato un villaggio che resta vitale e felice seppure esposto dall’irrompere caotico e devastante della modernità.
Nel percorso c’è una sola presenza che si mette di traverso. È quella di Natalie Djurberg, l’artista svedese che avevamo conosciuto lo scorso anno alla Fondazione Prada di Milano, e che qui ritorna nella sala bassa e senza finestre del Palazzo delle Esposizioni ai Giardini. Già la location sembra quella di una cripta. Per di più lo spazio è stato riempito sino quasi al soffocamento da enormi fiori fantastici modellati in materiali plastici. È una specie di foresta dove la bellezza sembra essere cresciuta esageratamente e assumere un aspetto spaventevole. I filmati completano la sensazione di un mondo che si autodivora. Più che un fare mondi quello della Djurberg è una documentazione di mondi che si disfano. In questo è anomala nel bel percorso della Biennale. Ma in questo ricorda a tutti che l’arte prima o poi deve affondare. Per esempio affondare nello scompaginamento che l’uomo ha fatto del corpo e della natura. La Djurberg ce lo dà come scompaginamento non riparabile. Questo è il suo scandalo.

Written by giuseppefrangi

Luglio 20th, 2009 at 4:21 pm

Kounellis, intervista nell'ossario

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k4La cosa più bella dell’installazione del grande Kounellis all’oratorio di san Lupo a Bergamo è il video proiettato nell’antico ossario, nel “sottosuolo” della chiesina. Il video, girato da Alessandro Uccelli, viene proiettato nello stesso luogo in cui è stato girato, così il muro che fa da sfondo alle immagini è lo stesso su cui le immagini stesse prendono corpo davanti ai nostri occhi. Kounellis, dalla posizione fissa da cui ci parla, viene fuori per quel che è: un artista tutto di un pezzo, con le spalle larghe di un classico, e il pensiero semplice e chiaro. L’aver scelto di far “sparire” gli intervistatori (Simone Facchinetti e Giuliano Zanchi) intercalando le domande con delle semplici scritte rende ancor più forte e compatto l’insieme. Kounellis, come dice lui, parla da «dentro una tomba, in questo sapzio di quattro pareti piccole». Le domande riguardano il rapporto tra artista e arte sacra, visto che la sua opera, sopra le nostre teste, nasce da una committenza del Museo Diocesano di Bergamo (la mostra è a cura di Simone Facchinetti). Kounellis ne parla senza preconcetti ideologici, ma facendo leva su un concetto semplice: gli artisti in questo secolo (ma nono solo in questo) si conquistati una libertà che la chiesa non può sentire come nemica. «La chiesa deve assumere questa libertà», dice Kounellis. E deve saperne leggere i significati. «I tagli di Fontana sono l’equivalente dei tagli nel costato di Cristo dipinto da Caravaggio nell’Incredulità di san Tommaso»: idea non nuova (a Brescia avevano messo un taglio di Fontana vicino al sublime Redentore di Raffaello, con la ferita segnata sul costato), ma l’energia che Kounellis mette nel ribadirla, va dentro la questione, la rende meno astratta. «Ogni artista obbedisce a una visione drammaturgica», dice ancora Kounellis. E poi spiega che l’apice di ogni visione drammaturgica è la Crocifissione con tutto quel che si consuma ai suoi piedi.

Belli anche i parallelismi in cui si avventura, come quello tra Pollock e Caravaggio, uniti da un senso di epicità che l’America ha conservato e che l’Europa ha perso. «Sono uniti nella radicalità dei loro discorsi; si assomigliano per questa idea di verticalità che apparitene ad entrambi. Non hanno il senso dell’orizzontale». Poi una conclusione onesta e disarmata sull’arte sacra oggi: «La Chiesa oggi si presenta con molta verginità. Ma il problema è un altro: non si sa esattamente che fare».

Guardatelo. Lo trovate in due spezzoni su youtube.

Written by giuseppefrangi

Maggio 24th, 2009 at 9:48 pm

Biennale '58, la generosità spaziale di Fontana

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Leggo quest’episodio in un libro che raccomando (Corrado Levi, È andata così. Cronache e critica dell’arte 1970-2008, Electa, 28 euro – purtroppo): «Ricordo una cosa straordinaria, ero andato ad aiutare Licini a montare la mostra alla Biennale, era il 1958, avevo fatto incorniciare i quadri, messo i titoli ecc., stavamo  montando la sala e passa Fontana, aveva la sala anche Fontana, e con la generosità dei grandi artisti, dà un consiglio straordinario all’allestimento della sala di Licini. C’erano i due angeli, poi c’era un quadretto in mezzo e dice: “No, i due angeli devono essere vicini perché l’apoteosi della sala si chiude così”. Fontana ha dato questa idea spaziale incredibile per cui ha dato un colpo straordinario all’allestimento di un artista che era suo concorrente. Poi Licini ha preso il premio… va bé non è per quello, ma tanto per dire la generosità. Mi ricordo che Fontana diceva, c’era Rothko, gli americani, “Ah… ma questa spazialità, questa cosa che io avevo intravisto e che invece hanno realizzato in questo modo”, cioé un grandissimo personaggio»

Written by giuseppefrangi

Maggio 19th, 2009 at 10:01 pm

Piccolo ragionamento scandaloso su Francis Bacon

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Mi è capitato recentemente di proporre in termini forse poco canonici, un caso Bacon: quest’anno del resto è anche il centenario dalla nascita.

Il punto di partenza è questo: non si deve restare ostaggio di uno sguardo reattivo, che finisce ovviamente con il privilegiare l’aspetto “orrorifico” della sua opera. Il focus drammatico e se si vuole, anche blasfemo, di Bacon esiste. Ma è un errore restarne soggiogati. A dispetto dell’intensità a volte folgorante delle sue tele, Bacon ha bisogno, da parte nostra, di uno sguardo calmo e controllato. Tutto il suo processo creativo obbedisce a una scommessa, a una sfida drammatica più volte ribadita, con molta lucidità, nelle sue interviste: voler andare oltre l’apparenza e approdare «a un più profondo senso dell’immagine». Bacon vuole sfuggire dalla mera illustrazione della realtà, per agganciare un livello più profondo e più «acuto»: acuto nel senso di voler rapportare, nell’immagine, la realtà al suo senso. Per fare questo, il suo primo atto, è quello di agganciarsi a immagini già così forti e strutturate dentro la storia delle arti figurative. Sono immagini che lui percepisce come degli archetipi, come dei punti genetici. Per questo si appoggia all’Innocenzo X di Velazquez e poi alla Crocifissione di Cimabue, che, com’è noto, teneva, nel suo studio rovesciata.

Bacon non è il primo artista del 900 che riscopre l’iconografia della Crocifissione, ma in tanti casi anche celebri, si era trattata di una riscoperta quasi per forza d’inerzia: in un secolo ferito da cicli di inaudita violenza dell’uomo sull’uomo, la Crocifissione è diventata un’immagine simbolo, quasi per necessità: l’unica immagine in grado di dare rappresentazione adeguata di tanta crudeltà. Ma la Crocifissione ridotta a metafora dell’attualità storica e sganciata dal nesso con il destino dell’uomo nella sua integralità, è una Crocifissione depotenziata. E la riprova se ne ha osservando come nessuno, da Nolde a Picasso, abbia saputo fare un salto di coscienza formale affrontando questa immagine cruciale. Per tutti si è trattato semplicemente di un cambiar soggetto, senza muovere ne è forma né stile.

crucify3baconCon Bacon invece avviene un processo opposto (nell’immagine il pannello di destra di Tre studi per una Crocifissione, 1962). La sua Crocifissione (o le sue figure ai piedi della Croce) parte da un punto genetico del passato per esplodere in modo clamoroso nel presente. E in quel punto genetico c’è la parte che mancava al resto del 900: cioè il nesso tra la Crocifissione e il destino dell’uomo. O, più precisamente, con il mistero dell’uomo, cioé quell’inscindibile nodo che lega la bellezza della carne alla sua finitezza ( e la connessa domanda di eterno). La Crocifissione in Bacon cessa di essere metafora e torna ad essere corpo presente. Con tutto lo scandalo che l’uscir di metafora porta con sé. Con Bacon, volenti o nolenti, Cristo torna ad essere un fatto vero, assolutamente e brutalmente reale. Torna a ingombrare la storia dell’arte dopo decenni o forse mezzi secoli di astinenza. Che poi quelle immagini possano risultare sconvenienti da mettere in Chiesa è tutto un altro discorso e anche comprensibile. Però liquidarle dalla coscienza resta uno scandalo.
Per tutto questo sono assolutamente convinto che le Tre figure ai piedi della Croce (19439 con tutte le innovazioni formali che porta sul proscenio della storia dell’arte, siano l’opera cardine del 900.

Written by giuseppefrangi

Maggio 17th, 2009 at 6:31 pm

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Twombly, pittore al bacio

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T07890_9Quando ho esternato il mio entusiasmo dopo aver visto la mostra romana di Cy Twombly in corso alla Galleria nazionale d’arte moderna, mi è stato obiettato: perché lo consideri un grande? Provo a rispondere (anche se la domnda è indebita: non sono io a considerarlo un grande. È un po’ nei fatti e nella percezione condivisa…). Twombly ha questa qualità rara, di coniugare elementarità con complessità. Leggerezza con monumentalità. Nella composizione e convivenza degli opposti sta il punto di fascino, che in lui coincide come non mai con un punto di mistero. Twombly è bambino e insieme un erudito. Un balbuziente e un poeta epico. Un istintivo che non perde mai di lucidità. Ha la sfrontatezza degli americani e insieme la complicazione senza soluzione degli europei.

Twombly non si distoglie mai dal suo epicentro creativo. Sembra calamitato sul ciglio di quel cratere, al fondo del quale c’è il segreto alchemico dell’invenzione creativa. Con la sua mano ronza sempre intorno a quel ciglio, in attesa d’acchiappare lo spirito giusto. Lo vedi radunare gli elementi in ordine sparso per interi lavori, per poi assestare il colpo improvviso e decisivo che ha come esito il capolavoro. I suoi ragionamenti e le sue interviste non aggiungono nulla a quel che la pittura svela: nei dialoghi con Carla Lonzi radunati in Autoritratti, alle lunghe domande seguono solo silenzi, per nulla enigmatici. Tutto è sulle tele, semplice, lirico, fluente.

Il paradigma di Twombly sta nell’episodio accaduto ad Avignone nell’estate del 2007: Sam Rindy, una visitatrice dell’esposizione della Collection Lambert, si è fiondata su una grande tela dell’artista americaano e l’ha baciata lasciando il segno vistoso del rossetto rosso. L’opera del 1977, secondo i tecnici, sarà difficile da restaurare e si porterà quindi sempre il segno di quel bacio. E la cosa ci sta. Si bacia Twombly, perché Twombly nella sua apparente impalpabilità ed enigmaticità è anche un pittore molto carnale. Risucchia con la sua pittura ipnotica e insieme materna. Il grondare giallo nel pannello dell’estate delle Quattro stagioni, è come una colata di densità amorose. Che però conserva l’andamento aereo e imprendibile della pittura-grafia (nella foto L’inverno). Una nota sulla mostra. Il percorso è al contrario. Si inizia dalle ultime cose, con la sala più bella. Nella sala grande, l’impaginazione è tutta sbagliata, perché sia le Quattro sagioni che i tre pannelli quadrilobati dipinti a Bassano Romano sono spezzati su pareti d’angolo. Il passaggio alle altre sale è complicato da un dismpegno con una mezza scala: ed è un’interruzione che disunisce. Magnifico il salone con i due grandi quadri grigi e le due tele di onde in omaggio a Nini Pirandello. Il finale sale su su, sino all’astrattismo solido e forte dei primi quadri. Alla fine si pensa a Pollock, il fratello maggiore di Twombly. Più lirico, più brutale. Certamente meno felice.

Written by giuseppefrangi

Maggio 13th, 2009 at 4:11 pm

Cy Twombly, un grande sul ciglio del mondo

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2_rwombly-cop_bSbarca a Roma alla Gnam (ma come son mai orrendi questi acronimi affibbiati ai musei d’arte moderna in Italia!) la mostra di Cy Twombly sino a qualche mese fa alla Tate di Londra. E basta vedere la copertina del catalogo (Electa) per avere un tuffo al cuore: bombe di colori che esplodono come fiori sulla tela. Aveva detto Roland Barthes che Cy Twombly incarna la «felicità del caso». I suoi quadri sembrano fatti «nel vento e nell’acqua». Sono fascino e leggerezza («il talento bianco» lo aveva ribattezzato Emilio Villa). Ma sarebbero solo esercizi privati se non contenessero anche una scintilla di apocalissi. Twombly dipinge sempre sull’orlo del disfarsi delle cose. Questo spiega il suo lasciarsi calamitare dall’Europa e dalla cultura mitologica. La sua fragilità è solo apparente, in realtà è annuncio di terremoti. Nella bella recensione alla mostra londinese Riccardo Venturi ha parlato di “fallimenti”. È la categoria chiave per capire Cy Twombly. La realtà intenerisce perché è destinata a disfarsi.

Aggiungo su segnalazione di Giovanni un link alla mostra di Cy Twombly aperta in queste settimane alla Gagosian di Londra. Il titolo è Rose. Grandi dipinti su compensato, vere esplosioni di vitalità (nel senso di energie e di apertura alla vita). Impressionanti se li si pensa realizzati da una persona di 80 anni. In questi tempi un po’ girgi sono un vero regalo per gli occhi!

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Written by giuseppefrangi

Marzo 4th, 2009 at 9:05 am