Robe da chiodi

Kounellis, intervista nell'ossario

leave a comment

k4La cosa più bella dell’installazione del grande Kounellis all’oratorio di san Lupo a Bergamo è il video proiettato nell’antico ossario, nel “sottosuolo” della chiesina. Il video, girato da Alessandro Uccelli, viene proiettato nello stesso luogo in cui è stato girato, così il muro che fa da sfondo alle immagini è lo stesso su cui le immagini stesse prendono corpo davanti ai nostri occhi. Kounellis, dalla posizione fissa da cui ci parla, viene fuori per quel che è: un artista tutto di un pezzo, con le spalle larghe di un classico, e il pensiero semplice e chiaro. L’aver scelto di far “sparire” gli intervistatori (Simone Facchinetti e Giuliano Zanchi) intercalando le domande con delle semplici scritte rende ancor più forte e compatto l’insieme. Kounellis, come dice lui, parla da «dentro una tomba, in questo sapzio di quattro pareti piccole». Le domande riguardano il rapporto tra artista e arte sacra, visto che la sua opera, sopra le nostre teste, nasce da una committenza del Museo Diocesano di Bergamo (la mostra è a cura di Simone Facchinetti). Kounellis ne parla senza preconcetti ideologici, ma facendo leva su un concetto semplice: gli artisti in questo secolo (ma nono solo in questo) si conquistati una libertà che la chiesa non può sentire come nemica. «La chiesa deve assumere questa libertà», dice Kounellis. E deve saperne leggere i significati. «I tagli di Fontana sono l’equivalente dei tagli nel costato di Cristo dipinto da Caravaggio nell’Incredulità di san Tommaso»: idea non nuova (a Brescia avevano messo un taglio di Fontana vicino al sublime Redentore di Raffaello, con la ferita segnata sul costato), ma l’energia che Kounellis mette nel ribadirla, va dentro la questione, la rende meno astratta. «Ogni artista obbedisce a una visione drammaturgica», dice ancora Kounellis. E poi spiega che l’apice di ogni visione drammaturgica è la Crocifissione con tutto quel che si consuma ai suoi piedi.

Belli anche i parallelismi in cui si avventura, come quello tra Pollock e Caravaggio, uniti da un senso di epicità che l’America ha conservato e che l’Europa ha perso. «Sono uniti nella radicalità dei loro discorsi; si assomigliano per questa idea di verticalità che apparitene ad entrambi. Non hanno il senso dell’orizzontale». Poi una conclusione onesta e disarmata sull’arte sacra oggi: «La Chiesa oggi si presenta con molta verginità. Ma il problema è un altro: non si sa esattamente che fare».

Guardatelo. Lo trovate in due spezzoni su youtube.

Written by giuseppefrangi

Maggio 24th, 2009 at 9:48 pm

Con Lotto in metropolitana

3 comments

lottoTra le sorprese dell’ultimo viaggio veneziano c’è quel grande quadro di Lotto nel transetto destro di san Giovanni e Paolo. Ho trovato solo brutte immagini in b/n e me ne scuso: L’elemosina di sant’Antonino è divisa in tre fasce. Sopra il santo, dolcemente adagiato sul suo trono; al centro i suoi intermediari, che raccolgono le richieste di grazia e dispensano monete; sotto il popolo, con le mani tese. E questa è l’immagine memorabile, come un fotogramma di quotidianità, solcato da tutte le dimensioni che impregnano la quotidianità: l’ansia, la malinconia, la curiosità, l’inquietudine ma anche la svagatezza. Sembra il prospetto di una metropolitana mattutina: una folla casuale, salita su una carrozza ai limiti della capienza. È spiazzante questa capacità di Lotto di calare in picchiata dalla tensione sublime dei piani alti, al concentrato di umanità arrancante del piano basso. Si capisce che Lotto è un grande smarrito, che naviga a vista senza grande certezze: la proiezione ulteriore di questa folla è quella ancor più immiserita e zavorrata dalla fatica della vita, nell’estrema Presentazione al Tempio di Loreto. Lotto è uno di loro: la sua grandezza artistica non è stato sufficiente a riscattarlo, a garantirgli  un orizzonte di certezze, morali o sociali. Dal libro di Tafuri veniamo a sapere che il suo amico Sebastiano Serlio, anche lui intellettuale border line, aveva progettato le prime case popolari per contadini. Sono case per Lotto e per la sua folla.
Il quadro veneziano suggerisce di scovare nella memoria altre grandi immagini di folla. Mi viene in mente il Foppa della Portinari, il Braccesco delle tavolette Kress e Franchetti,  il giovane Tiziano padovano. E poi la folla sessantottarda dell’altare del Santo di Padova. O quelle (tante) dell’ultimo Caravaggio, tese, curiose, ambigue, eccitate… Continuate voi la lista…

Written by giuseppefrangi

Maggio 21st, 2009 at 10:08 pm

Biennale '58, la generosità spaziale di Fontana

leave a comment

Leggo quest’episodio in un libro che raccomando (Corrado Levi, È andata così. Cronache e critica dell’arte 1970-2008, Electa, 28 euro – purtroppo): «Ricordo una cosa straordinaria, ero andato ad aiutare Licini a montare la mostra alla Biennale, era il 1958, avevo fatto incorniciare i quadri, messo i titoli ecc., stavamo  montando la sala e passa Fontana, aveva la sala anche Fontana, e con la generosità dei grandi artisti, dà un consiglio straordinario all’allestimento della sala di Licini. C’erano i due angeli, poi c’era un quadretto in mezzo e dice: “No, i due angeli devono essere vicini perché l’apoteosi della sala si chiude così”. Fontana ha dato questa idea spaziale incredibile per cui ha dato un colpo straordinario all’allestimento di un artista che era suo concorrente. Poi Licini ha preso il premio… va bé non è per quello, ma tanto per dire la generosità. Mi ricordo che Fontana diceva, c’era Rothko, gli americani, “Ah… ma questa spazialità, questa cosa che io avevo intravisto e che invece hanno realizzato in questo modo”, cioé un grandissimo personaggio»

Written by giuseppefrangi

Maggio 19th, 2009 at 10:01 pm

Piccolo ragionamento scandaloso su Francis Bacon

3 comments

Mi è capitato recentemente di proporre in termini forse poco canonici, un caso Bacon: quest’anno del resto è anche il centenario dalla nascita.

Il punto di partenza è questo: non si deve restare ostaggio di uno sguardo reattivo, che finisce ovviamente con il privilegiare l’aspetto “orrorifico” della sua opera. Il focus drammatico e se si vuole, anche blasfemo, di Bacon esiste. Ma è un errore restarne soggiogati. A dispetto dell’intensità a volte folgorante delle sue tele, Bacon ha bisogno, da parte nostra, di uno sguardo calmo e controllato. Tutto il suo processo creativo obbedisce a una scommessa, a una sfida drammatica più volte ribadita, con molta lucidità, nelle sue interviste: voler andare oltre l’apparenza e approdare «a un più profondo senso dell’immagine». Bacon vuole sfuggire dalla mera illustrazione della realtà, per agganciare un livello più profondo e più «acuto»: acuto nel senso di voler rapportare, nell’immagine, la realtà al suo senso. Per fare questo, il suo primo atto, è quello di agganciarsi a immagini già così forti e strutturate dentro la storia delle arti figurative. Sono immagini che lui percepisce come degli archetipi, come dei punti genetici. Per questo si appoggia all’Innocenzo X di Velazquez e poi alla Crocifissione di Cimabue, che, com’è noto, teneva, nel suo studio rovesciata.

Bacon non è il primo artista del 900 che riscopre l’iconografia della Crocifissione, ma in tanti casi anche celebri, si era trattata di una riscoperta quasi per forza d’inerzia: in un secolo ferito da cicli di inaudita violenza dell’uomo sull’uomo, la Crocifissione è diventata un’immagine simbolo, quasi per necessità: l’unica immagine in grado di dare rappresentazione adeguata di tanta crudeltà. Ma la Crocifissione ridotta a metafora dell’attualità storica e sganciata dal nesso con il destino dell’uomo nella sua integralità, è una Crocifissione depotenziata. E la riprova se ne ha osservando come nessuno, da Nolde a Picasso, abbia saputo fare un salto di coscienza formale affrontando questa immagine cruciale. Per tutti si è trattato semplicemente di un cambiar soggetto, senza muovere ne è forma né stile.

crucify3baconCon Bacon invece avviene un processo opposto (nell’immagine il pannello di destra di Tre studi per una Crocifissione, 1962). La sua Crocifissione (o le sue figure ai piedi della Croce) parte da un punto genetico del passato per esplodere in modo clamoroso nel presente. E in quel punto genetico c’è la parte che mancava al resto del 900: cioè il nesso tra la Crocifissione e il destino dell’uomo. O, più precisamente, con il mistero dell’uomo, cioé quell’inscindibile nodo che lega la bellezza della carne alla sua finitezza ( e la connessa domanda di eterno). La Crocifissione in Bacon cessa di essere metafora e torna ad essere corpo presente. Con tutto lo scandalo che l’uscir di metafora porta con sé. Con Bacon, volenti o nolenti, Cristo torna ad essere un fatto vero, assolutamente e brutalmente reale. Torna a ingombrare la storia dell’arte dopo decenni o forse mezzi secoli di astinenza. Che poi quelle immagini possano risultare sconvenienti da mettere in Chiesa è tutto un altro discorso e anche comprensibile. Però liquidarle dalla coscienza resta uno scandalo.
Per tutto questo sono assolutamente convinto che le Tre figure ai piedi della Croce (19439 con tutte le innovazioni formali che porta sul proscenio della storia dell’arte, siano l’opera cardine del 900.

Written by giuseppefrangi

Maggio 17th, 2009 at 6:31 pm

Posted in moderni

Tagged with , , ,

Twombly, pittore al bacio

2 comments

T07890_9Quando ho esternato il mio entusiasmo dopo aver visto la mostra romana di Cy Twombly in corso alla Galleria nazionale d’arte moderna, mi è stato obiettato: perché lo consideri un grande? Provo a rispondere (anche se la domnda è indebita: non sono io a considerarlo un grande. È un po’ nei fatti e nella percezione condivisa…). Twombly ha questa qualità rara, di coniugare elementarità con complessità. Leggerezza con monumentalità. Nella composizione e convivenza degli opposti sta il punto di fascino, che in lui coincide come non mai con un punto di mistero. Twombly è bambino e insieme un erudito. Un balbuziente e un poeta epico. Un istintivo che non perde mai di lucidità. Ha la sfrontatezza degli americani e insieme la complicazione senza soluzione degli europei.

Twombly non si distoglie mai dal suo epicentro creativo. Sembra calamitato sul ciglio di quel cratere, al fondo del quale c’è il segreto alchemico dell’invenzione creativa. Con la sua mano ronza sempre intorno a quel ciglio, in attesa d’acchiappare lo spirito giusto. Lo vedi radunare gli elementi in ordine sparso per interi lavori, per poi assestare il colpo improvviso e decisivo che ha come esito il capolavoro. I suoi ragionamenti e le sue interviste non aggiungono nulla a quel che la pittura svela: nei dialoghi con Carla Lonzi radunati in Autoritratti, alle lunghe domande seguono solo silenzi, per nulla enigmatici. Tutto è sulle tele, semplice, lirico, fluente.

Il paradigma di Twombly sta nell’episodio accaduto ad Avignone nell’estate del 2007: Sam Rindy, una visitatrice dell’esposizione della Collection Lambert, si è fiondata su una grande tela dell’artista americaano e l’ha baciata lasciando il segno vistoso del rossetto rosso. L’opera del 1977, secondo i tecnici, sarà difficile da restaurare e si porterà quindi sempre il segno di quel bacio. E la cosa ci sta. Si bacia Twombly, perché Twombly nella sua apparente impalpabilità ed enigmaticità è anche un pittore molto carnale. Risucchia con la sua pittura ipnotica e insieme materna. Il grondare giallo nel pannello dell’estate delle Quattro stagioni, è come una colata di densità amorose. Che però conserva l’andamento aereo e imprendibile della pittura-grafia (nella foto L’inverno). Una nota sulla mostra. Il percorso è al contrario. Si inizia dalle ultime cose, con la sala più bella. Nella sala grande, l’impaginazione è tutta sbagliata, perché sia le Quattro sagioni che i tre pannelli quadrilobati dipinti a Bassano Romano sono spezzati su pareti d’angolo. Il passaggio alle altre sale è complicato da un dismpegno con una mezza scala: ed è un’interruzione che disunisce. Magnifico il salone con i due grandi quadri grigi e le due tele di onde in omaggio a Nini Pirandello. Il finale sale su su, sino all’astrattismo solido e forte dei primi quadri. Alla fine si pensa a Pollock, il fratello maggiore di Twombly. Più lirico, più brutale. Certamente meno felice.

Written by giuseppefrangi

Maggio 13th, 2009 at 4:11 pm

Romano e la manutenzione permanente

leave a comment

romanoGiorni di festa per Giovanni Romano, in occasione dei suoi 70 anni. Venerdì è stato presentato un volume di saggi in suo omaggio ed è uscito il prezioso Saggio di Bibliografia 1961 -2008 a cura di Giovanni Agosti e Giovanna Saroni. Ho in mano quest’ultimo, che è qualcosa di più di uno scarno per quanto sistematico elenco di libri e di saggi. Scorrendolo, la prima reazione è di fare una spunta delle cose che si vorrebbero leggere o rileggere (Il profilo del Grammorseo, I Casalesi del 500, il Tanzio del Dizionario biografico…, tutte le cose su Spanzotti, ma anche il saggio sull’Assunta del grande Vittone a Grignasco…). La seconda reazione riguarda la coerenza “geografica” del percorso di Romano, tutto concentrato in un fazzoletto geografico: ma in questo suo star stretto geograficamente, si avverte sin dai titoli, una larghezza di respiro, di visione e di ambizione. Romano è un grande esploratore del “suo“ territorio, continua a battere il chiodo sul quel fazzoletto di terra che il destino gli ha assegnato, ma dentro quel fazzoletto cala problemi e questioni “globali”. Come scrive lui stesso nella prefazione al suo Storie dell’arte (Donzelli 1998): «La nostra disciplina è ancora oggi sensibile allo stile non solo come elemento dirimente tra personalità, ma anche come schermo proiettivo in grado di modulare in modo non equivoco il vissuto degli artisti, dei committenti, del pubblico? Siamo all’altezza di confrontarci con le complesse e disomogenee valenze culturali del nostro passato e di riportarne alla luce, con accogliente disponibilità, storie di persone singole e di convincimenti condivisi?». L’accogliente disponibilità produce una sorta di “fomazione permanente” sugli autori: per cui dalla Biboliografia si resta sorpresi dai continui interventi di “manutenzione” (la definizione è di Giovanni Agosti) di Romano sui suoi saggi e sui “suoi” autori.

Quanto al suo star dentro il Piemonte, non è fattore che non c’entri con la poesie e cona la visione delle cose.  Come riporta sempre Agosti, citando lo stesso Romano, tutto si genera da «una concretezza, una carnalità non solo dei corpi, ma proprio delle campagne, degli alberi: la carne del cielo, la carne del fiume…»

Written by giuseppefrangi

Maggio 10th, 2009 at 3:20 pm

Posted in antichi

Tagged with

Rossi in treno con Basilico

one comment

Un’ora con Gabriele Basilico. Il discorso cade su Aldo Rossi. Mi racconta che scrisse per lui due introduzioni, una per un libro sui porti e un’altra per un libro sui treni. Leggo da quest’ultima un passaggio che commuove per la precisione dell’osservazione: «Raramente Basilico ci mostra il treno che entra in città. È una giusta posizione discreta e attenta ad evitare la ricerca di ciò che sta dietro alla foto… Perché la fotografia può essere complice. Quando i treni entrano in città all’ora vespertina mostrano gli spaccati delle case e una vita interna fatta di tappezzerie scolorite e gente stanca alla luce di lampadine giallastre…. E i treni che entrano lenti a Milano mostrano ringhiere d’altri tempi e alle finestre donne stanche ma belle di una bellezza indovinata per l’avvicnarsi del letto».

Written by giuseppefrangi

Maggio 8th, 2009 at 8:13 pm

Posted in photo

Tagged with , ,

Venezia, quando i leoni riposano

leave a comment

San Marco si propaga come un’onda nel suo sestiere. Prima san Zaccaria, con la facciata che Codussi addolcisce a più non posso con linee curve, archi, archetti, bifore, colonnine, rosoni ciechi. S’intuisce che dal punto genetico di San Marco agli architetti resti addosso un’idiosincrasia per spigoli e linee a punta. All’interno, Codussi dà grande respiro alla struttura tardogotica, alzando arconi e impostando la volta: ma c’è sempre un senso di felice arbitrarietà nei rapporti e nelle proporzioni. Poi San Giovanni in Bragora (il testimone passa dal padre, Zaccaria, al figlio, il Battista…). La facciata è in cotto, ma anche qui i profili sono tutti addolciti e arrotondati: dentro si spalanca il grande Battesimo di Cima, terso sino a sfiorare una santa ingenuità. Poi c’è Santa Maria dei Miracoli: che vorrebbe avere l’energia del vero e proprio scrigno, incastonato nel tessuto urbano del sestiere. I muri esterni sono un susseguirsi ininterrotto di specchiature di marmo che vorrebbero richiamare un gusto fiorentino, ma franano nelle irregolarità e nelle continue eccezioni alle regole. All’interno (che sembra una scatolaliscioa di quelle fatte con il Lego)  gli archetti in alto se ne va per conto loro senza tenere in nessun conto le misure dei rettangoli di marmo delle pareti. Gli anni più o meno sono sempre gli stessi, ultimi del 400 e inizio 500: si vede che Venezia galleggia su trend volutamente defilati e gli architetti lasciano ai pittori il compito di affondare i colpi (Bellini lo fa con magistrale dolcezza: a San Zaccaria, la rotondità dell’abside dorata sullo sfondo si dilata in un respiro che Codussi purtroppo non conosce).

467387087_353f33fab6_bUn sussulto c’è a san Zanipolo, dove si prospetta la meravigliosa e fiabesca facciata della scuola grande di San Marco. Anche qui è un aggregato di elementi, un sovrapporsi e affastellarsi di idee che si sciolgono in una armonia a tratti bizzarra. Tra le idee c’è quella straordinaria dei due leoni che s’affacciano docili e sornioni in un sofisticato altorilievo, da un portale in trompe l’oeil, tutto incastonato di pietre. Il glorioso leone sembra in pausa. Resta il padrone di casa ma non ha nessuna voglia di graffiare. I due mettono fuori il muso per vedere che succede in piazza, come fanno i re nei giorni di riposo. Certo la trovata è strabiliante. Ed è strabiliante che sia lì a portata di mano… Ultima tappa san Giovanni Crisostomo, affondata tra la folla dei turisti. L’ultimo Codussi che accoglie l’ultimo Bellini (1513). Sono stanchi entrambi. Sull’altare principale si fa vivo il giovane Sebastiano del Piombo: uno che è già pronto a partire e a lasciare quel tran tran veneziano.

(morale: l’architettura a Venezia vive di sincretismi. Se da fuori non arrivano schegge di altri mondi e altre civiltà è come se venisse a mancare la linfa)

2. Fine

Written by giuseppefrangi

Maggio 6th, 2009 at 7:21 pm

Venezia, un itinerario antirinascimentale

2 comments

2 maggio, giornata veneziana. Itinerario “antirinascimentale”: San Marco (in particolare gli esterni), Libreria Marciana, San Zaccaria, San Giorgio dei Greci, San Giovanni in Bragora, San Zanipolo, Scuola Grande di San Marco, Santa Maria dei Miracoli, San Giovanni Crisostomo, Ca’ d’Oro e Galleria Franchetti.

sanmarco-401Un abbozzo di pensieri. Se è vero che il Battistero di San Giovanni è il punto genetico di tutto la visione fiorentina del mondo (misura, proporzioni, prospettiva: la realtà tenuta sotto un prodigioso controllo intellettuale; grande energia sintetica), è altrettanto vero che San Marco è il punto genetico della visione veneziana (varietas, sincretismo, molteplicità di punti di vista, crescita per aggregazione). È un punto di vista genetico che spiega e tiene dentro tutta Venezia, perché nell’accumulo delle diversità lascia aperti anche spazi di libertà inediti nelle altre tradizioni italiane. Mi ha incuriosito uno sguardo ravvicinato con il lato destro della basilica, quello che confina con la Porta della Carta di Palazzo Ducale. Il muro di quell’ambiente a cubo che all’interno accoglie il Tesoro, ha un rivestimento a specchiature di marmo una diversa dall’altra, per misure, per epoche e per zone di provenienza. C’è assoluta libertà di inserzione di elementi diversi: trovi bassorilievi con motivi simbolici o decorativi innestati nel rivestimento murario. Sullo spigolo il porfido dei Tetrarchi (che dialogano con il gruppo scultoreo – altre quattro figure, più bambino – dello stupendo Giudizio di Salomone, sull’angolo del porticato di Palazzo Ducale. Meno di dieci metri, ma dieci secoli di differenza). Sul basamento del sedile s’inserisce la prima scritta in volgare veneziano che si conosca: “l’omo po far e dire in pensar e vega quelo che li po inchontrar”. Latino, greco, italiano e volgare, San Marco è un crocevia linguistico e architettonico. È un coacervo di elementi che fioriscono uno sull’altra, che convivono senza mai sopraffarsi a vicenda. Di fronte le due colonne quadrate con racemi provenienti da san Giovanni d’Acri. Sopra i capitelli non reggono niente, non hanno una funzione: però ci stanno.

Da questo si capisce l’idiosincrasia che Venezia ha per il Rinascimento. Lo argina per decenni. Poi nel 1527 arriva Jacopo Sansovino, uno dei tanti protagonisti della diaspora romana dopo il Sacco, e quindi anche Venezia è costretta ad aprire la partita. L’impatto è raccontato in quel meraviglioso libro che è Rinascimento a Venezia di Manfredo Tafuri. Si vede come la cultura lagunare medi e addomestichi le nuove visioni d’importazione. E c’impieghi poco a metabolizzarle. Quando la sfida si farà seria, con l’arrivo del Palladio, Venezia pensa bene di tenere ai margini (in senso urbanisitico) la spettacolare compattezza intellettuale dei nuovi manufatti: San Giorgio e il Redentore fanno spettacolo di sé sull’altra sponda… Scrive Tafuri: «Sansovino imparerà la difficile arte della mediazione, ma Palladio imporrà (o tenterà di imporre) i suoi microcosmi architettonici in una Venezia da essi letteralmente “interrotta”».

1. continua

Written by giuseppefrangi

Maggio 3rd, 2009 at 2:34 pm

Le spalle immense di Niccolò (e quella aguzze di Mazzoni)

one comment

niccoloAlla fine sono riuscito a vedere la mostra su Guido Mazzoni e Antonio
 Begarelli a Modena. Mi ritrovo nella mia idea: che Mazzoni sia soprattutto un fenomeno
 di straordinario eclettismo. Il senso popolare dei suoi compianti viene in seconda 
istanza: insomma poco a vedere con il Gaudenzio del Sacro Monte. Avendo
 visto la mostra posso essere più esaustivo nella mia ipotesi. Infatti 
in apertura ci troviamo di fronte l’“immenso” San Domenico di Niccolò dell’Arca,
 proveniente dal Museo della chiesa di san Domenico di Bologna. Una scultura di una presenza colossale, con una carica patetica che riempie da sola la grande sala. I grandi occhi che sprofondano nel breviario aperto, sono un condensato di umanità: c’è un senso di calma, c’è un senso quanto mai vasto della vita e dell’uomo.Vasto come quelle grandi mani che tengono il libro e che sembrano in grado di accogliere qualunque cosa. Difficile reggere il confronto con un simile capolavoro, in cui ogni piega della pelle non ricade mai su se stessa, ma rimanda a un’idea immensa della vita e della realtà. Difficile paragonarsi con una simile “magnanimità” poetica.

Al confonto Mazzoni sembra così calligrafico, impostato. Cerca effetti speciali, approdando a effetti da brividi (la lingua della Madalena che nell’urlo va a sbattere sul palato). Ma ultimamente prevale un sottile, implacabile senso ossessivo. Un voler andare dentro il dolore non per cercare partecipazione ma per trovare gridolini di meraviglia (o di orrore). Anche le sue straordinarie Marie chiuse nel guscio dei loro manti, un po’ alla borgognona, sembrano voler stare sole con se stesse, sigillate nelle loro smorfie. Non cercano condivisione. Non sollecitano una coralità, come invece succede nella meravigliosa cappella della Crocifissione di Varallo, dove Gaudenzio ha la forza di far sentire tutti popolo. Se Gaudenzio scolpisce a forza di carezze, Mazzoni invece agisce un bisturi, per andare dentro impietosamente nelle pieghe della pelle, per sagomare I denti. Evidentemente il soggiorno ferrarese aveva lasciato un segno profondo…

Written by giuseppefrangi

Aprile 30th, 2009 at 11:13 pm